PavoneRisorse |
(19.07.2012)
Morellato e
Finmeccanica: due fiabe moderne a confronto
Tutte le favole iniziano sempre con “c’era una volta” e terminano spesso con “e vissero tutti felici e contenti”. Di favole, oggi, non se ne raccontano più. In un mondo dominato dalla tecnica, in cui immagini e notizie si susseguono a ritmo incessante, non c’è più tempo per raccontare nulla. E poi la favola è un racconto che si tramanda di generazione in generazione, dunque strettamente legata alla memoria. E la memoria oggi fa molta fatica a farsi spazio in un mondo dove domina il solo presente. La favola è anche un racconto fantastico e come tale contrasta enormemente con la logica performante della nostra società, che spesso sfocia in puro cinismo.
Due mondi inconciliabili. Quelli che seguono sono due racconti, due storie appartenenti a dimensioni differenti, una fantastica, l’altra reale.
La prima storia si svolge a San Giuliano Terme,
un piccolo e graziosissimo comune della Provincia di Pisa, noto, oltre che per
le sue terme, anche per la produzione di olio d’oliva. Lì sorge un’azienda
termotecnica, la “Morellato”, specializzata nella produzione di pannelli
fotovoltaici. Ah, già, ma si tratta di una favola! Non possiamo fare a meno del
classico “c’era una volta”.
E allora …
C’era una volta un’azienda termotecnica, la “Morellato”,
specializzata nella produzione di pannelli fotovoltaici. Energia pulita, quella
del Sole, che in Italia picchia di brutto e non solo d’estate. E tuttavia, anche
in questo campo, il nostro Paese si trovava in pesante ritardo. Si decise allora
di incentivare il passaggio alle energie pulite attraverso finanziamenti
statali, sia per le aziende sia per i privati. Una manna dal cielo per la
Morellato, che così poteva quadruplicare i propri guadagni. Ma un giorno un
governo pesantemente condizionato dai conflitti d’interesse decise di eliminare
quegli incentivi. Un duro, durissimo colpo per la Morellato. Ma quel governo
fortunatamente cadde. Lo sostituì un esecutivo “tecnico”, con il compito di
frenare una crisi che il precedente governo aveva non solo sottovalutato, ma
anche contribuito a ingigantire. Certo, gli incentivi costano, ma i costi
dell’inquinamento sono molto più alti, senza contare che le norme internazionali
impongono la riduzione dell’emissione di sostanze nocive. Ciononostante, il
governo tecnico optò per la linea della continuità, vale a dire quella dei tagli
agli incentivi. E la Morellato andò in crisi. Una crisi molto pesante, che
costrinse la dirigenza a mettere in cassa integrazione moltissimi dipendenti. Ma
quando tutto sembrava ormai perduto, giunse inattesa la proposta della “Waas”,
un’impresa del gruppo Finmeccanica, di costruire un impianto di raffreddamento
per le vasche dove si testano gli ordigni militari. Era una commessa importante,
capace di risollevare il destino della Morellato.
La dirigenza - come accade solamente nelle favole - decise allora di convocare
un’assemblea aperta a tutti i lavoratori, cassintegrati compresi, per decidere
se accettare la proposta. La partecipazione fu straordinaria. D’altro canto, in
gioco c’era il futuro dell’azienda e con essa anche quella di decine di
lavoratori e delle loro famiglie. Il risultato era scontato: come si fa a
rinunciare a una simile offerta e in piena crisi economica? Ma questa è una
favola, non la realtà, e in una favola tutto è possibile, persino che gli ideali
più nobili alla fine prevalgano. E fu così che i contrari alla proposta della
Waas prevalsero. Tra questi Valerio Morellato, alla guida dell’azienda da appena
un anno. Spettò a lui scrivere una lettera alla Waas per spiegare le ragioni del
rifiuto. La lettera si chiudeva con queste parole:
«non ce la sentiamo di mettere le nostre competenze al servizio di un' opera che potrà sviluppare tecnologia bellica».
Forse non tutti vissero felici e contenti, ma il racconto rispetta comunque una delle regole della favola, quella del lieto fine.
La seconda storia si svolge lontano dalle verdi colline toscane. Siamo negli Stati Uniti d’America, davanti agli impianti di una delle imprese militari aerospaziali più grandi e potenti del mondo: la Lockheed. Fondata nel 1912 dai fratelli Allan e Malcolm Loughead, l’industria bellica americana ha accompagnato gli avvenimenti più drammatici del XX e del XXI secolo: due guerre mondiali, la guerra fredda, la guerra di Corea, la guerra del Vietnam, la guerra nel Golfo, la guerra nella ex Jugoslavia, la guerra in Iraq, la guerra in Afghanistan, la guerra in Libia. Il suo nome è legato anche ad uno scandalo internazionale che scoppiò intorno alla metà degli anni Settanta del secolo scorso e che vide coinvolti numerosi governi, compreso quello italiano. Negli anni Novanta, la Lockheed disegna uno dei suoi gioielli, il caccia F-35, un micidiale apparecchio d’attacco, capace di trasportare ordigni nucleari. Gli Stati fanno letteralmente a gara per accaparrarsi il diritto alla produzione. Tra questi l’Italia e la sua Finmeccanica. Si decide di produrne ben 131 esemplari, per una spesa complessiva di 15 miliardi di euro. Passano gli anni, si succedono governi di destra, di centrosinistra, poi ancora di destra, poi ancora di centrosinistra, quindi nuovamente di destra e infine un governo tecnico: nessuno ha niente da dire, nemmeno di fronte ad una gravissima crisi economica. Si decide di ridurre il numero degli apparecchi a novanta esemplari. Stranamente, però, i costi di produzione, invece di scendere, salgono, fino a toccare quota 17 miliardi, vale a dire più del doppio dei tagli alla Scuola pubblica statale dell’ultimo governo Berlusconi.
Questa non è una favola e quindi non aspettatevi il lieto fine. È una storia reale, in cui a parlare sono personaggi veri, come Giampaolo Di Paola, Ministro della Difesa, che in un’intervista al “Corriere della Sera” del 19 luglio 2012 spiega le ragioni dell’accordo con la Lockheed:
«le Forze armate si chiamano così perché dispongono di armamento per svolgere il proprio compito. E il nostro, come Paese della Nato, è quello di essere corresponsabile delle risposte che la comunità internazionale dà alle crisi. […] Se oggi dovessimo chiudere tutto, butteremmo via enormi investimenti, metteremmo a rischio diecimila posti di lavoro e ammazzeremmo il futuro tecnologico di Finmeccanica».
Di Paola è un tecnico, come
tutti i suoi colleghi di governo d’altro canto: è un generale con un curriculum
di tutto rispetto ed è quindi comprensibile che difenda il suo dicastero (magari
lo facessero anche altri, a cominciare dal Ministro dell’Istruzione!). Lo è
molto meno che si preoccupi di “ammazzare il futuro tecnologico di Finmeccanica”
e non delle vittime di eventuali guerre, alle quali saremmo chiamati a
partecipare sotto la copertura della “Comunità internazionale”. E le guerre
moderne hanno soprattutto questo di diverso rispetto a quelle del passato: che
mietono soprattutto vittime civili. Che poi un generale si preoccupi del futuro
dei lavoratori, anche se solo di quelli di Finmeccanica, è alquanto curioso e fa
apparire questa storia più fantastica della precedente. Ma è tutto vero.
E vera è la logica che la sottintende, quella del profitto costi quel che costi.
E poi le armi sono un prodotto che, in quanto tale, non solo deve essere
venduto, ma anche consumato, il che significa fare guerre, anche per testarne
l’efficacia naturalmente. Ma perché poi la medesima logica dovrebbe valere solo
per le armi? Anche il mercato delle droghe fattura miliardi e dà lavoro a
migliaia di persone. Perché non pensare di smerciarle costi quel che costi? E
che dire della mafia? In questi giorni in cui si celebra il ventennale del
sacrificio dei giudici Falcone e Borsellino in pochi ricordano le scene
d’esultanza per gli attentati e le scritte sui muri inneggianti alla mafia
perché dà lavoro. Una logica, quella del profitto costi quel che costi,
perfettamente messa in pratica da non pochi produttori vinicoli italiani, che
allungarono il rosso nettare con quantitativi mortali di metanolo. La logica del
profitto è propria del mondo dell’economia e dei suoi operatori, non dello Stato
e men che meno dei suoi rappresentanti.
Questi ultimi, al contrario, hanno il compito di tutelare tutti i cittadini,
anche a costo di “uccidere il futuro tecnologico di Finmeccanica”. Non si è
fatto questo con l’Icmesa di Seveso dopo il drammatico incidente di più di
trent’anni fa? E non si è chiuso Chernobyl dopo la spaventosa esplosione del
1986? Quanti posti di lavoro si sono perduti allora? Ma quante vite umane si
sono salvate?
Morellato e Lockheed, due storie
differenti: l’una irreale, l’altra reale. Samuel Coleridge scriveva che
“la fantasia non è altro che un aspetto della memoria svincolato dall’ordine
del tempo e dello spazio”.
Ecco perché il secondo racconto non può essere fantastico, nonostante non pochi
passaggi possano far pensare il contrario: esso è vincolato strettamente alla
dimensione spazio-temporale, in quanto storia del presente, del nostro presente,
incapace, come tale, non solo di stimolare la nostra fantasia e di farci sognare
un futuro diverso, ma anche di fare tesoro delle esperienze passate. Un eterno
ritorno dell’eguale di nietzschiana memoria, anche se qui a scandire il tempo
non è la natura, bensì il mero profitto. Fantastico è invece il primo racconto,
poiché nella decisione presa dall’imprenditore e dai suoi dipendenti, vi è
quella che un tempo si chiamava “coscienza”, coscienza storica per la
precisione, la quale conserva quanto è stato affinché si possano evitare gli
errori del passato e costruire un futuro migliore.
E tuttavia io consiglio ai lettori di raccontare comunque la prima storia ai propri figli. Forse rideranno, forse si addormenteranno prima. Più realisticamente, se ne dimenticheranno, magari sparando raffiche di colpi con il joystick del loro Pc o della loro Playstation, nel corso di quelle virtuali ma molto realistiche battaglie note come “war games”. Ma ne varrà comunque la pena. In un muro della città di Milano qualcuno ha scritto: “non esiste più il futuro di una volta!”. Verissimo: non siamo più capaci di immaginarci un futuro e diverso dal nostro presente e abbiamo smesso di lottare. E allora torniamo a leggere le favole, anzi, laddove è possibile, cerchiamo di costruirne di nuove, come quell’imprenditore e quei lavoratori di San Giuliano Terme.