(08.03.99)
Ho scritto «T'amo»
sulla RAM
di Marco Guastavigna
Come più volte affermato su queste pagineweb sono profondamente convinto che ai fini di una progettazione didattica consapevole e ricca sia necessario costruire e condividere definizioni e descrizioni delle risorse tecnologiche di comunicazione sulla base di categorie centrate sui soggetti che con esse interagiscono, superando - anzi abbandonando! - la centralità della "macchina" e dei suoi elementi costitutivi.
Per meglio comprendere le implicazioni cognitive degli attuali ambienti elettronici analogici, fondati su repertori di simboli, icone trigger, inneschi dell'agire, suggerirei innanzitutto di sostituire a espressioni quali "software", "programma", "pacchetti applicativi" e così via, le due seguenti definizioni:
a) strumenti di rappresentazione grafica codificata di oggetti, azioni e procedure, relazioni;
e pertanto, contemporaneamente,
b) insiemi di oggetti a "materialità parziale", sui quali si esercitano la vista, l'udito e una particolare forma di "tatto virtuale", fortemente mediato e condizionato dal dispositivo di puntamento - mouse, trackball e così via.
Fissato questo quadro di riferimento, tenterò ora di dare un ulteriore contributo ragionando "per assurdo": riporterò cioè tre riflessioni a proposito del rapporto spesso problematico e comunque tutt'altro che lineare che numerosi utenti hanno con l'interfaccia visivo-funzionale, conseguenza delle osservazioni e delle considerazioni che ho avuto modo di sviluppare in occasione sia di attività con i miei allievi sia di corsi di formazione rivolti a colleghi,
1. Nel background cognitivo di ciascuno di noi è ancora scritto con grande forza che il prodotto dei nostri processi di elaborazione (testi, disegni, calcoli, registrazione di suoni e così via) comincia ad assumere dimensione materiale ("esistenza" vera e propria o collocazione/permanenza su un supporto) nel momento stesso in cui noi iniziamo il nostro lavoro. Il testo che noi andiamo vergando, per esempio, "impressiona" il foglio di carta fin da subito, quindi non si deve fare altro perché esso si stabilizzi fisicamente. Il trasferimento dei processi di elaborazione su supporto elettronico per raggiungere questo medesimo stato rende invece necessari altri e del tutto nuovi passaggi operativi (la "scrittura" consapevole e globale sul supporto definitivo, il richiamo nella memoria di lavoro). Questo aspetto di "materialità incerta" dell'elaborazione genera in numerosi utenti confusione e preoccupazione: alcuni giungono a attribuire al "salvataggio" una funzione di condizionamento assoluto e lo attivano prima e dopo qualsiasi azione abbiano compiuto sul loro lavoro.
2. Ma la questione non è tanto e solo questa: la mancata stabilità degli oggetti elettronici "costringe" l'interfaccia visivo-funzionale a arricchirsi di una serie di trigger, di inviti operativi relativi a tali attività gestionali "esterne" all'oggetto. Anche queste icone-simbolo sono in prima battuta qualificabili come analogiche, funzionano cioè sulla base del "come se". A un'analisi più approfondita, però, appare ben diversa l'icona per esempio del cestino da quella del dischetto: la prima fa davvero riferimento a un "analogo" della vita quotidiana e soprattutto pienamente materiale, mentre la seconda obbedisce in realtà esclusivamente a una logica autoreferente, che richiede quindi un diverso livello di astrazione. Si aggiunga a questo fatto la possibilità che il PC dà di misurarsi con attività (e quindi con oggetti, azioni, procedure) che nella vita materiale per i più sarebbero lontane, logisticamente assai difficili se non impensabili (per esempio il fotoritocco).
3. Questi aspetti problematici crescono in misura esponenziale quando si passa
alla Gestione/Esplorazione delle risorse di insieme del computer. E' noto a tutti come sia
ormai impiegata in forma generalizzata la metafora della cartellina, o per meglio dire, di
CartellineDentroCartelline. Un utente "anziano" di PC non può certo non
apprezzare la semplificazione del meccanismo legato all'organizzazione in directories dei
dati. Per un neo-utente però ciò non ha alcun significato: ovvero egli non è in grado
di mettere in relazione ciò che deve "fare" con nulla che gli sia noto.
Deve invece comprendere, accettare, utilizzare un sistema di rappresentazione del
tutto astratto, dotato di un alto tasso di coerenza interna, ma privo di una vera
corrispondenza con oggetti e aspetti materiali (si pensi anche soltanto
al banale fatto che il disco rigido proprio non è visibile... ).
Ritengo che questo sia il problema cognitivo maggiore e che esso sia destinato a
estendersi via via che il computer accrescerà quantitativamente e qualitativamente la sua
caratteristica di macchina complessa e multifunzionale.
Insomma, gli ambienti elettronici analogici determinano nella relazione formativa una situazione forse unica, certamente rara e di grande complessità, che può e deve essere palestra per la crescita consapevole di competenze cognitive di alto livello.
Nota
Si legga in proposito F. Carlini, "Lo stile del Web. Parole e immagini nella comunicazione in rete", Einaudi, Torino, 1999 - in particolare il capitolo 9, nel quale con grande chiarezza si introduce la distinzione tra attributi percettivi e funzionali degli oggetti grafici. Per tornare al testo
Questo articolo è pubblicato sotto Licenza Creative Commons.