(24.01.2012)
Maiuscole e minuscole - di Marina Boscaino
“Se l'intesa per una riforma non fosse possibile, resta una strada, radicale e decisiva: il Pd, che le ha già sperimentate per la scelta del suo leader, decida che si impegna oggi stesso - se la legge non cambierà - a scegliere tutti i suoi candidati attraverso le primarie. In questo modo, restituirebbe da solo ai cittadini ciò che la "porcata" ha loro tolto. E diventerebbe l'apriscatole del sistema”. Così Ezio Mauro su “Repubblica” del 19 gennaio. È la conclusione di un editoriale sulla riforma elettorale, che – nella semplicità di un’indicazione persino ovvia – sarebbe destinata, qualora qualcuno intendesse seguirla, a produrre conseguenze addirittura rivoluzionarie dentro e fuori il Pd. Un segnale tangibile, auspicabile in qualsiasi caso, diun’inversione di tendenza concreta, di una reale volontà di rinnovare politica e visione collettiva di essa: di fungere da “apriscatole”, appunto, di un sistema alle corde che appare disperatamente concentrato sull’autoconservazione. Di ridare respiro al sale della democrazia, offuscata dagli eventi degli ultimi anni e mesi. Ma siamo sicuri che qualcuno abbia davvero interesse a rivoluzionare procedure, consacrate da decenni di esplicita o meno volontà di mantenimento dello status quo (per usare un eufemismo)? Come quella di Mauro è una provocazione, così la mia è una domanda retorica.
La questione riguarda il mondo della scuola per vari motivi.
Il primo: molti di noi sarebbero lieti di concentrare – attraverso una reale scelta elettorale – la propria preferenza su candidati che abbiano davvero a cuore il destino della scuola della Repubblica; che – attraverso una esplicitazione di priorità in fase di candidatura – potessero individuare un’azione davvero determinante su alcuni principi (quello della laicità, per esempio) che, se caratterizzano genericamente il DNA della sinistra, di fatto vengono spesso e volentieri disattesi proprio dai parlamentari che militano in quello schieramento. Nell’attuale centrosinistra, infatti, esistono anime e attitudini piuttosto disomogenee, che non assicurano scelte coerenti e automatiche di principi tradizionalmente garantiti dall’appartenenza. Nell’attuale centrosinistra parlamentare, con un po’ di sforzo e di attenzione, si riesce perfino a distinguere – superando la scarsa diffusione dei dati relativi all’attività parlamentare di ciascuno – chi agisce, in che direzione, con quali obiettivi, attraverso quali strategie. La stessa attribuzione di ruoli di responsabilità specifica nell’ambito del gruppo, del partito, della eventuale coalizione, potrebbe (grazie ad una partecipazione più attiva e consapevole degli elettori) essere improntata a criteri di competenza e di efficacia che in alcuni casi precedenti non sono stati con ogni evidenza contemplati.
Il secondo: siamo stanchi di annunci, di proclami, di sloganismo di maniera dietro cui si nasconde il vuoto di elaborazione. Alcune parole d’ordine "postdemocratiche" sono entrate nel bagaglio obbligatorio dei nostri rappresentanti in Parlamento, senza che questo si sia mai concretizzato – anche ai tempi dei governi di centrosinistra – in azioni dirette alla realizzazione di quei principi e di quei criteri. Smantellare “i privilegi della politica”, garantire la “trasparenza nelle procedure” sono – almeno a livello di buoni propositi – concetti condivisi trasversalmente, che convergono nell’interesse generale. Ma che raramente si manifestano in operazioni che diano il senso concreto di una reale volontà di inverare quei principi. Nella scuola si è fatto e, mi pare, si sta tentando di fare lo stesso: si indicano come obiettivi della richiesta di consenso alla propria azione politica concetti che hanno di per sé un’aura di comprovabilità talmente ovvia da risultare indiscutibili. Ma, di fatto, a quelle enunciazioni non si dà seguito. Il movimento determinato apparentemente dal proferire, dal pronunciare, dall’evocare determinati temi non produce automaticamente, come vorrebbero invece farci credere, conseguenze concrete. Non basta, cioè, dire lotta alla dispersione, innovazione, diritto all’apprendimento, (tutte finalità su cui, ne sono certa, moltissimi si trovano idealmente a convergere), per generare automaticamente azione concreta in quegli ambiti. Occorre fare di queste enunciazioni la vera priorità di scelte, investimenti, formazione. Solo in questo modo anche i profili professionali potranno crescere sul piano qualitativo, svincolando la scuola dalla mistificazione del volontarismo, del velleitarismo, del bricolage pedagogico, attraverso la creazione di competenze ed impegno sostenuti da studio, consapevolezza, autorevolezza e riconoscimento.
Terzo: il parlamento e la scuola statale, in questa strana fase della nostra storia nazionale, sembrano entrambi soffrire di uno svuotamento di significato, segnalato anche da un’inerzia che andrebbe superata solo se chi propone azioni attribuisse ad esse significati concreti. Dichiarare di essere contro i privilegi della politica e a favore della trasparenza non corrisponde necessariamente ad operare in questa direzione. Allo stesso modo, sostenere la centralità della scuola statale e riconoscerne formalmente il mandato costituzionale non equivale al tentativo di modificare una realtà che – al di là delle dichiarazioni – per molto tempo è andata in una direzione differente.
Armiamoci e partite: troppo spesso sembra questa la parola d’ordine – non esente da interpretazioni truffaldine – che in molti casi accomuna il mondo della politica (anche quello più vicino alla scuola) e la scuola stessa. Ai soliti volenterosi, ai volontari, a coloro che – più o meno da sempre – “tirano la carretta” nella disattenzione e nell’indifferenza generali, rimarrebbe così ancora una volta il “privilegio” di continuare nella loro oscura e preziosissima azione; ai pifferai magici, agli strateghi del proclama non seguito dai fatti, la costante vetrina mediatica ed un merito costruito soltanto sulla capacità di dichiarare intenzioni giuste al momento giusto. Così non può più andare.
Perché c’è anche una quarta e più ardua simmetria: nello spazio della politica è finito il tempo della tacita acquiescenza a pratiche ed abitudini di dubbia trasparenza in nome dell’appartenenza di schieramento. Tra le mura delle scuole sarebbe auspicabile terminasse l’attuale gioco delle parti che, in assenza di una visione d’insieme e nella rarità di profili professionali adeguati alle esigenze socioculturali attuali, consente a ciascuno di noi di reiterare, spesso in buona fede, pratiche ed abitudini di evidente inefficacia in nome della gestione della quotidianità e della validazione della incoerenza tra significati e significanti, ammessa per non precipitare il sistema in una crisi drammatica. In entrambi i casi – politica e scuola – la crisi è però già in atto, da tempo.
Dobbiamo solo trovare il coraggio di prenderne atto. Di pronunciare l’evento e di renderci conto e di dirci che non c’è davvero più nulla da proteggere. Ma che si può ri-costruire, demistificando luoghi comuni. Basta averne il desiderio e sentirne la responsabilità. Accettare intimamente e profondamente il ruolo impopolare e coraggioso – perché dissonante rispetto al mantenimento dello status quo – di apriscatole del sistema.
La Politica intesa come progetto che si realizza attraverso il misurarsi concretamente con la realtà delle cose deve ritrovare spazio nel dibattito e nelle coscienze. La Scuola come volano di progresso civile, etico, culturale, deve ritrovare spazio nelle scelte istituzionali e in una interpretazione alta della dimensione professionale.