(21.02.2009)
Concorso di colpa: si replica - di Marina Boscaino e Marco Guastavigna
La
circolare n.
16/2009 sull'adozione dei libri
di testo ha inaugurato anche quest'anno il pellegrinaggio nelle sale professori
delle scuole italiane da parte dei rappresentanti delle case editrici: un
rituale che scandisce la fase post primo quadrimestre dell'anno scolastico.
La
circolare questa volta ha rappresentato per noi l'occasione di
riflettere su quella che ne costituisce la principale novità: l'ipotetica
adozione dei libri di testo in versione digitale. Una novità ventilata già da
diversi anni, esplicitamente prevista da una serie di annunci estivi di Tremonti
e sostanziata, in maniera a dire il vero ambigua, nella circolare in questione.
Che dice molto – e da molti punti di vista -
sul modo approssimativo con cui l'amministrazione tenta di proporre agli
insegnanti strategie, modalità, operazioni che potrebbero rappresentare
prospettive percorribili nel campo della ricerca e della sperimentazione se non
banalizzate.
Già:
ricerca e sperimentazione. Due degli elementi su cui avrebbe dovuto basarsi
l'autonomia scolastica, ai quali il mondo della scuola ha derogato prima di
subito, preferendo - nella maggior parte dei casi - proteggersi in un limbo
intoccabile di immobilismo o di reiterazione di pratiche conosciute e sicure,
forte della possibilità di farlo garantita dagli stipendi irrisori e dalla
sempre maggiore delegittimazione sociale di questa professione.
Se nasca
prima l'uovo o la gallina è presto detto: il tacito patto fate poco, paghiamo
poco è stato sottoscritto di buon grado quasi unanimemente da ambo le parti. Ma
questa accettazione ha portato ben presto anche ad una disattenzione progressiva
nella comunicazione tra amministrazione e mondo della scuola.
Una
disattenzione accolta per lo più con disinteresse dal mondo della scuola,
incapace di contrapporsi alla farragine burocratica, alla frequente
improvvisazione dilettantesca, allo scialo di promesse, premesse, formule,
intenzionalità alle quali continuamente si allude – quasi il solo nominarle le
rendesse reali – ma alle quali quasi mai è seguita una realizzazione. Si chiama
rassegnazione. Ed è umiliante.
Torniamo
alla circolare: la caratterizzano tre equivoci. Il primo: che la scelta
del libro di testo configuri ancora e sempre un'operazione significativa dal
punto di vista culturale, pedagogico, didattico. Il più delle volte non è così.
Il combinato tra un mercato ipertrofico e l'indolenza di molti insegnanti ha
allentato la vigilanza rispetto alla significatività culturale del prodotto. Da
una parte si sono susseguite edizioni ed opere (e quindi scelte) quasi casuali,
puntate sulla minima modifica o su innovazioni non necessariamente
significative; dall’altra sono stati mantenuti per inerzia testi per lustri,
senza impegnarsi a sondare possibilità alternative ed aperture di nuovi
orizzonti. Il problema a monte è - come ci sembra evidente - la formazione degli
insegnanti, iniziale ed in itinere.
E, prima
ancora, la consapevolezza dell'esercizio di una responsabilità educante - che
significa non solo trasmissione di contenuti, ma anche modalità di trasmissione,
selezione, approccio ai contenuti stessi - che molti non hanno più voglia di
esercitare.
Ecco poi
il motivo del secondo equivoco: la questione della spesa. Ogni settembre torna a
tenere banco sui giornali il
caro libri. Quando le famiglie, elenchi alla mano,
si trovano a fare i conti con cifre più o meno astronomiche che vanno ad
incidere significativamente sui badget mensili. Sul banco degli imputati gli
insegnanti, come si diceva. Ma le case editrici – tranne alcune significative
eccezioni – non hanno fatto nulla in questi anni per arginare la deriva di
sprechi che nel campo dell’editoria scolastica si è consolidata. La logica
mercantile ha portato ad una spesa sempre più consistente per arginare la quale
– invece di proporre una politica di maggior rigore e serietà nella produzione
ed edizione di nuove opere – si sono giocate da parte dell’amministrazione le
carte apparentemente buone per tutte le stagioni: quella del rigore e quella
della “modernità”. La prima arriva sotto forma di vincolo a non cambiare testo
per cinque anni: quasi a dire che le materie sono quelle e i contenuti non
possono, poi, di molto variare. In barba a qualunque sviluppo della ricerca, sia
nel campo della didattica che dell’evoluzione delle conoscenze.
La seconda
configura il terzo equivoco: la previsione di un inserimento del formato
digitale tra le possibili scelte del docente (con tutte le ambiguità e le
leggerezze che abbiamo segnalato altrove) viene illustrata e caldeggiata
sostanzialmente come deterrente rispetto al caro libri. Questo significa prima
di tutto privare l’ingresso del digitale di qualsiasi valenza di innovazione
autenticamente culturale, incentivando, invece, la produzione spregiudicata da
parte di alcuni di materiale di qualità discutibile, non concedendo spazio e
tempo per sviluppare una riflessione che coinvolga seriamente mondo della scuola
e mondo dell’editoria.
La
circolare potrebbe rappresentare uno dei tanti pretesti che l’amministrazione ha
fornito al mondo della scuola per scardinare una logica di corresponsabilità
rispetto all’affaccendamento inoperoso, al quale assistiamo da troppi anni, che
immobilizza la scuola stessa e autolegittima l’amministrazione. E un serio
dibattito, invece, restituirebbe
dignità alla pratica delle adozioni, potrebbe chiarire gli equivoci,
riproporrebbe agli insegnanti l’idea di assumere un atteggiamento attivo anche
rispetto a questioni che sono entrate per inerzia a far parte di rituali stanchi
e consumati, esigendo, in questi come in molti altri campi, un protagonismo
consapevole al quale sembrano stancamente aver rinunciato.