(05.04.2009)
Fuori Onda - di Marina Boscaino
Sono tra quelle persone che
ancora si emozionano davanti alla mobilitazione di centinaia di migliaia di
donne e uomini. A vedere il rosso delle bandiere nelle vie cittadine,
improvvisamente riscattate al loro caos naturale e chiamate alla sorte gloriosa
e rara dell’assenza di auto in una passeggiata di festa. Festa della democrazia,
dell’impegno, della partecipazione, della passione. Festa di una speranza,
ostinatamente tenuta in vita a dispetto della banalità del reale, che spesso si
trasforma in spietatezza, in orrore: forse 200 i corpi ancora da ripescare nel
canale di Sicilia. I senza diritti, primo di tutti il diritto a un nome, a
un’identità.
Il rosso si addice al Circo
Massimo. Sabato sole e speranza. Un’altra “s”, quella di scuola. Uno dei primi
argomenti toccati nel discorso di Guglielmo Epifani. Eravamo tanti, tantissimi.
Una bella giornata, una bella occasione. Ma il tempo è passato e la situazione è
mutata, solo rispetto a 6 mesi fa. Studenti, pochi. Nei giorni precedenti ho
tentato di capire quanti dei miei alunni fossero a conoscenza della
manifestazione e dei motivi della protesta: pochissimi. I pochi, con una vaga
consapevolezza. Nessuno è venuto con me: sabato compito di greco, hanno detto
quasi scusandosi. I tre quarti di loro sono maggiorenni. Ai tempi della
mobilitazione autunnale contro il decreto Gelmini sono stati responsabilmente
vigili e attivi. Hanno partecipato con entusiasmo e consapevolezza. Hanno capito
– ma veramente capito - che tempo pieno e maestro unico riguardano anche loro ,
studenti degli ultimi anni del liceo classico, perché la scuola riguarda tutti.
Questa
volta ho letto scetticismo, disillusione nei loro occhi. Certo, si potrà dire
che davanti ad una così flebile costanza, il loro impegno non doveva essere poi
gran cosa. Non è così. Sarebbe un tentativo di archiviare il problema con la
solita logica del “noi eravamo meglio, loro sono peggio”. Troppo comodo: non
crea problemi, fornisce certezze. Non è così. Quella stagione è stata un
miracoloso, spontaneo rigurgito di imponderabile consapevolezza, tanto più
prezioso, quanto più maturato in condizioni proibitive. Cosa c’è di più positivo
che veder crescere le idee in un vuoto pneumatico di indifferenza? Rispondere al
qualunquismo con l’impegno e all’improvvisazione con lo studio? Il
Berlusconi-pensiero li desidera consumatori acritici, diligenti osservatori di
regole – la disattenzione delle quali potrebbe riservare loro persino un 5 in
condotta, al quale si affidano incalcolabili margini di miglioramento della
scuola e della società; nonché lo sfogo di alcuni insegnanti, che finalmente si
ritovano tra le mani il bastone tanto auspicato per stemperare le proprie
frustrazioni; narcotizzati
da modelli di successo immeritato che le
stesse
televisioni del premier, in una perversa catena di montaggio di omologazione e
pensiero unico che dal capo del governo viene erogata direttamente
attraverso il più penetrante e padronale degli
strumenti di ipnosi collettiva. Profitto è la parola chiave. In questo strano
mondo in cui abbiamo la ventura di vivere, parlare di certe cose è
paradossalmente persino imbarazzante: solidarietà, rispetto, educazione. Farsi
carico della responsabilità di difendere diritti. Non “il proprio” diritto.
Sulla
metropolitana che mi portava alla manifestazione una scolaresca, diretta chissà
dove. Seduti rigorosamente, nonostante molte persone anziane in piedi. Isolati,
blindati, le orecchie tappate dall’auricolare dell’i-pod. Incantati, assenti,
assecondando con la mano lo scivolare leggero dell’interfaccia taumaturgico
dell’i-phone. Muti; incapaci di comunicazioni, se non monosillabiche in quel
mondo quasi autistico. L’insegnante gli parlavno, loro la guardavano in
silenzio. Presenti-assenti.
Un
contrasto totale tra le bandiere, le belle facce vive e vissute fuori dal
finestrino a ogni stazione e loro.
Erano
riusciti ad uscirne fuori, per un po’. Non tutti; forse una piccola parte. Che
adesso, magari, non sta lì a cincischiare con tastiere virtuali; ma si pone,
probabilmente
sfiduciata, meno domande. E certamente è delusa dalle risposte che ha ottenuto
quando ha fatto lo sforzo di elevarsi dal ruolo in cui il mondo li ha collocati,
voluti e bloccati negli ultimi decenni. Non ci siamo accorti abbastanza, noi
genitori, noi insegnanti, maestri, educatori, che in quella
circostanza
hanno chiesto delle risposte ad adulti cui hanno riconosciuto autorevolezza. Non
siamo stati abbastanza lusingati, né – evidentemente – ci siamo sentiti
sufficientemente responsabilizzati da quelle richieste. Alcune risposte siamo
stati in grado di fornirle; non abbiamo però saputo tenere in sufficiente conto
l’esigenza di protagonismo che questi ragazzi, per lo più al primo impatto con
un’esperienza politica, esigevano.
Eravamo noi
che dovevamo spiegare ai nostri ragazzi che le battaglie delle idee si vincono
con la perseveranza, con il sacrificio, con l’amore, con la passione. Dovevamo
tutelarli dall’effetto implacabile che il silenzio dei media avrebbe provocato
sulla loro voglia di esserci, di esistere. Dovevamo fornirli degli anticorpi per
reagire alle perversioni di un sistema nel quale sono cresciuti, del quale sono
intrisi e al quale coraggiosamente hanno cercato di opporsi. Senza consentire
che quel coraggio, quelle energie, quell’entusiasmo si stemperassero nell’idea
che la bontà delle idee e dei principi sia inquinata dall’oblio dei
telegiornali. Rossella
Zelioli, insegnante precaria di Cremona, ha detto sabato dal palco del Circo
Massimo: "Dall'1
settembre il mondo della paura si spalancherà per tutti quelli che come me hanno
fatto della scuola la propria ragione di vita e di lavoro: 42mila persone che da
settembre non lavoreranno più, schiacciate dalla logica brutale e stracciona di
chi svende il futuro del Paese, che è la scuola nel suo essere pubblica e di
qualità". Certamente non scatenerà la curiosità delle telecamere, non occuperà
le prime pagine. Ma avverrà. E le bugie di Gelmini e Berlusconi non potranno
nasconderlo, ma non negarlo, impedirlo. Quelle – le bugie -
davvero
vere, come l’aumento del tempo pieno: vere bugie per illustrare una realtà che
non esiste.
Non è la prima volta che tratto questo tema. Mi sta a cuore, ne sono coinvolta. Rappresenta per me un punto
di vista quasi obbligato di riflessione: li guardo tutti i giorni, ci parlo
tutti i giorni con questi ragazzi. Oggi con un po’ di dispiacere penso alla
storia della loro occasione mancata. E della nostra.