(18.01.2008)
Forse si sta dimenticando la Costituzione
Sono stata invitata dall’Associazione “Per la scuola della Repubblica” ad un bel
convegno che si è tenuto a Roma il 17 gennaio “Contro la scuola di regime, per
la scuola della Costituzione”: una carrellata sulle maggiori ferite inferte
dall’attuale governo (ma non solo) all’idea di scuola licenziata dalla Carta.
Un significativo momento di riflessione e confronto (Simonetta Salacone dei
coordinamenti anti-Gelmini; Roberto Iovino, dell’Onda; Barbara Pianta Lopis,
che ha illustato i contenuti della legge di iniziativa popolare per una buona
scuola della Repubblica, oltre a rappresentanti di associazioni professionali,
sindacato, comitati, partiti politici) coordinato da Antonia Sani e
sintomaticamente chiuso dalle non-conclusioni di Bruno Moretto, che ha tirato le
fila di quanto emerso dalla giornata, interrogandosi su un un “che fare?”
rafforzato da alcune proposte.
La destrutturazione e decostituzionalizzazione della scuola statale (Corrado
Mauceri), le linee anticostituzionali delle politiche governative (Domenico
Gallo), il problema del finanziamento pubblico alle scuole paritarie private
(Furio Colombo) e il disegno di legge Aprea (Pino Patroncini) sono stati i temi
affrontati.
Io ho proposto un intervento sul mancato innalzamento dell’obbligo scolastico e
sulla scarsa attenzione per l’emergenza dispersione, che configurano scelte
classiste da parte del governo e sottraggono la scuola statale alla funzione che
deve avere come strumento che la Repubblica ha in mano per “rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e
l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica,
economica e sociale del Paese” (art. 3, comma 2).
(per consultare o scaricare le slides dell'intervento invia una mail vuota
all'indirizzo
materiali@pavonerisorse.it)
Entrambe le criticità – mancato innalzamento dell’obbligo e mancata lotta alla
dispersione – hanno una ricaduta obbligata sulle classi sociali più deboli dal
punto di vista socio-economico-culturale. La vicenda dell’obbligo scolastico ha
viaggiato sulla strumentalizzazione dell’ambiguità semantica – apparentemente
inesistente – tra obbligo scolastico e obbligo di istruzione. Il primo atto del
ministro Moratti fu la cancellazione dell’innalzamento dell’obbligo a 15 anni,
previsto da Berlinguer. Seguì la mistificazione del diritto-dovere, criptica
formula sbandierata dal ministro (e dai media, conniventi o ignoranti) come
innalzamento dell’obbligo a 18 anni, in realtà istituzionalizzazione della
canalizzazione precoce di destini socialmente determinati: i nati bene a scuola;
gli “sfigati” nei percorsi triennali di avviamento al lavoro. “Diritto-dovere”
non è obbligo e “istruzione” non è scolastico: ma la trovata piacque pure al
centro sinistra, che in Finanziaria 2007, ignorando il programma dell’Unione,
che parlava di obbligo scolastico, prevedeva l’innalzamento dell’obbligo di
istruzione a 16 da assolvere – in via transitoria – anche nei “percorsi e
progetti” della Moratti.
Evidentemente non smantellabili o convertibili facilmente, considerato il forte
interesse economico, trasversale a partiti e sindacati, in essi concentrato.
Infine, lo scorso luglio, un emendamento al decreto 112 istituzionalizza il doppio canale, disattendendo il dettato costituzionale che prevede l’assolvimento dell’obbligo nel solo sistema scolastico che prevede scuole statali e paritarie. È evidente che, affinché l’innalzamento dell’obbligo scolastico diventi un obiettivo concretamente perseguibile, a patto che esista una volontà politica in questo senso, la scuola deve essere rinnovata in modo sostanziale, attraverso una drastica revisione del quando, del cosa, del come, del perché insegnare. Solo ponendo al centro queste problematiche e inaugurando una seria riflessione sulla relazione educativa, si potrà tentare di innalzare l’obbligo, interrompendo l’ineluttabilità di destini socialmente determinanti, frantumati per lo più in avviamento precoce al lavoro e nelle varie forme di dispersione, insuccesso, ritardo, dissipazione: gli eufemismi politicamente corretti per dire la selezione; che non a caso colpiscono pesantemente gli alunni dei professionali e dei tecnici.
E a proposito di selezione: la “Stampa” di sabato scorso evidenziava che nelle scuole medie di Torino, a fronte della valutazione numerica del I quadrimestre, i bocciati sarebbero – se fosse la fine dell’anno – il 30%, contro il 6% dello stesso periodo dell’anno scorso. Che prospettive ci rimanda un esito simile? Possiamo davvero ritenere che il soddisfacimento di una richiesta di certezze, interpretata banalmente e demagogicamente con il ritorno al voto numerico, possa migliorare prestazioni, apprendimenti, socialità, cittadinanza dei nostri alunni? Che la scuola media unica sia venuta meno alla finalità istituzionale affidatale dall’art. 34 è evidente dai dati degli ultimi scrutini finali: ottimo e distinto sommati non hanno superato il totale dei sufficiente. Segno di un evidente preludio alla divaricazione degli indirizzi operata su base sociale e mortificata da una (finta) scelta precoce. La scuola media dell’art. 34 è la scuola della crescita e dell’inclusione. La scuola media che abbiamo davanti canalizza i destini, viene meno alla sua funzione orientativa, segnala le criticità solo a fine percorso, ledendo la propria vocazione orientativa. Un biennio obbligatorio che abbia una funzione di valore collettivo spendibile in cittadinanza e in progresso della società deve rappresentare il prolungamento – come accade in tutti i paesi europei, dove l’obbligo non è mai al di sotto dei 15 anni, spesso fino a 18 anni – della scuola media quale quella configurata dall’art. 34. Ma siamo ancora molto lontani dal raggiungere l’obiettivo.