(02.06.2010)
Referendum ecclesiale - di Marina Boscaino
Solo un articolo con tre commi. Asciutto e laconico, il disegno di legge Ceccanti , è stato presentato in Senato lo scorso dicembre per iniziativa di un gruppo di rappresentanti del PD, per stabilire norme generali relative all’affissione dei crocifissi nella aule scolastiche. Il primo firmatario, Filippo Ceccanti, è ordinario di diritto costituzionale, ex militante nel movimento studenti di Azione Cattolica, promotore del Movimento dei Cristiano Sociali.
Con profondo rammarico e con un senso di frustrazione e di rabbia, tranne che in casi rarissimi, mi sono trovata a parlare – su questa rubrica come altrove – del binomio scuola-PD avendo sempre sotto gli occhi interventi sorprendenti per intempestività e soprattutto per inopportunità, considerando l’azione pressoché nulla che questo partito ha esercitato per opporsi al progetto di distruzione della scuola pubblica in atto da due anni nel nostro Paese.
Occasione-spinta per la proposta del progetto fu la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, il 3 novembre 2009, come molti ricorderanno, in seguito al ricorso di un’italiana di origini finlandesi stabilì che: “La presenza dei crocefissi nelle aule scolastiche costituisce una violazione della libertà dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni” e una violazione “alla libertà di religione degli alunni”. Si trattò di un pronunciamento significativo e incontrovertibile, fortemente – sebbene non volontariamente – orientato nella direzione di un allentamento della implacabile pressione clericale sulla scuola italiana. Sostegno al principio di uguaglianza – troppo spesso dimenticato altrove – nel luogo costituzionalmente destinato all’educazione alla cittadinanza, all’inclusione, all’integrazione, all’emancipazione, alle pari opportunità per tutti.
Il caso Lautsi ha una lunga storia: nel 2002 davanti al Tar del Veneto fu impugnatala decisione della direzione della scuola – la media Vittorino Feltre di Abano Terme (PD) – di mantenere i crocifissi nelle classi per violazione dei principi costituzionali (laicità e imparzialità della PA); Soile Tuulikki Lautsi chiese allora che la Corte Costituzionale si pronunciasse sulla legittimità; la Consulta valutò il ricorso inammissibile, con ordinanza n. 389/2004, considerata la natura non legislativa dell’atto impugnato.
Pertanto, sia Tar del Veneto che Consiglio di Stato (13/2/06) respingono il ricorso, sostenendo che il crocefisso non si debba considerare tanto simbolo religioso, quanto di cultura e identità italiana. Il pronunciamento del Consiglio di Stato è stato poi contestato dalla Corte Europea, che ha ribadito il principio di “neutralité confessionelle” nell’educazione pubblica. «La presenza del crocefisso, che è impossibile non notare nelle aule scolastiche - si legge nella sentenza dei giudici di Strasburgo - potrebbe essere facilmente interpretata dagli studenti di tutte le età come un simbolo religioso. Avvertirebbero così di essere educati in un ambiente scolastico che ha il marchio di una data religione». Tutto questo, proseguono, «potrebbe essere incoraggiante per gli studenti religiosi, ma fastidioso per i ragazzi che praticano altre religioni, in particolare se appartengono a minoranze religiose o sono atei». Ancora, la Corte «non è in grado di comprendere come l'esposizione, nelle classi delle scuole statali, di un simbolo che può essere ragionevolmente associato con il cattolicesimo, possa servire al pluralismo educativo che è essenziale per la conservazione di una società democratica così come è stata concepita dalla Convenzione europea dei diritti umani, un pluralismo che è riconosciuto dalla Corte costituzionale italiana».
Grande scalpore nella “cattolicissima” (si fa per dire) Italia. Sostiene Gelmini: «la presenza del crocifisso in classe non significa adesione al cattolicesimo, ma è un simbolo della nostra tradizione». Insorge Berlusconi, stigmatizzando il fatto che la sentenza “nega che l’Europa abbia radici cristiane”. Tradizione (come la pizza, il capitone a Natale e la maschera di Pulcinella?), radici cristiane. La domanda è sempre la stessa: può un credente associare a questo tipo di concetti la difesa di un segno come il crocifisso? Può la Chiesa sentirsi rassicurata e tutelata da questo tipo di difese? Quel che la sentenza nega, invece, è che il crocifisso sia da esibire nelle aule: essendo esso un simbolo religioso e poiché i simboli religiosi nelle scuole dello Stato sottolineano la maggiore vicinanza dello Stato stesso ad una religione piuttosto che ad un’altra, negando quando stabilito dalla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (firmata dall’Italia nel ’50), che sottolinea il principio di equidistanza dello Stato da tutte le religioni. La questione delle proverbiali “radici cristiane” – un leit-motiv politicamente trasversale nel nostro Paese – viene semmai sottolineata dalla sentenza, che configura nello svuotamento di valore religioso del crocefisso, ridotto a simbolo della tradizione locale nella lettura del governo italiano, il vero attacco alla Chiesa.
Il collegio dei 5 giudici della Grande Chambre di Strasburgo, riunitosi lo scorso 1 marzo, ha accettato la domanda di rinvio presentata dal governo italiano il 28 gennaio nell’ambito del ricorso Lautsi, e hanno fissato al 30 giugno l’udienza in cui dovrebbe essere pronunciata una sentenza definitiva sulla questione. Molte le associazioni che hanno chiesto di intervenire: dalla Scuola della Repubblica alla Consulta per la Laicità delle Istituzioni. L’associazione Giordano Bruno – che è già stata accettata a sostenere in quella sede il fatto che i crocifissi non debbano essere presenti nelle aule scolastiche – lo farà con una argomentatissima memoria.
Ecco in quale contesto complicato e complesso si colloca la inopportuna proposta del manipolo piddino capeggiato da Ceccanti. Inopportuna soprattutto perché rende ancor più irrisolvibile la domanda che molti elettori continuano a farsi, non riuscendo a trovare risposte convincenti: “Quale idea di scuola hanno coloro che stanno rappresentando tanti insegnanti alla Camera e al Senato?”. È una domanda inquietante, perché le risposte che vengono fornite sono schizofreniche. E là dove raccontano un percorso coerente, esso si colloca molto spesso nella direzione opposta all’idea di laicità che ne dovrebbe invece essere un principio fondante. L’articolato del disegno di legge verte su 3 punti: dopo aver stabilito il valore della cultura religiosa, del patrimonio storico e dei valori costituzionali italiani, si prevede a) che "in ogni aula, con decisione del dirigente scolastico, è affisso un crocifisso" b) Se "l'affissione" è contestata, si cerca un accordo in tempi brevi "anche attraverso l'esposizione di ulteriori simboli religiosi" c) In mancanza di accordo, il dirigente scolastico "adotta" la soluzione che realizza il più ampio consenso.
Fu l’art. 118 del Regio Decreto del 30 aprile 1924 a normare la presenza del crocefisso nelle aule scolastiche, non la “tradizione”. Oltre a questo, ciò che più colpisce della relazione posta in premessa del disegno di legge è l’ennesimo tentativo (che credevamo prerogativa dell’attuale governo, e che invece configura – anch’esso, purtroppo! - un atteggiamento bipartisan) di usare il riformato Titolo V della Costituzione (ancora una volta, nella fattispecie, l’art. 117) per andare a scardinare le garanzie contenute persino nei “Principi fondamentali” della Carta (i primi 12 articoli) , l’art. 2 e l’art. 3 in particolare. Che sono fondamentali in quanto prevalgono su tutti gli altri.
Dalla potenziale ostensione di svariati simboli religiosi (e chi non crede? E chi non crede nella rappresentabilità della fede?), alla delega al dirigente scolastico (in un’epoca in cui i dirigenti scolastici considerano Bella Ciao una mancanza di rispetto e di buon gusto, in cui i disegni di legge vengono progettati come randellatori degli insegnanti disobbedienti), tutto converge verso un clamoroso allentamento della vigilanza su principi indiscutibili. In una sorta di delegificazione ad oltranza, ciò che appare insindacabile per definizione, perché basato su principi fondativi, non solo viene sindacato, ma affidato a propaggini sempre meno autorevoli del sistema (la maggioranza relativa, il dirigente sociale), fondando miriadi di diritti che attentano al diritto, depotenziandolo, indebolendolo progressivamente.
Viviamo in un’epoca di dismissione del concetto di unitarietà del sistema scolastico nazionale. Attacchi centrifughi convergono su questo obiettivo, mettendo in discussione da vari punti di vista la scuola della Costituzione, che si fonda su principi e garanzie condivisi. Con questo disegno di legge a principi uguali nella gestione dei diritti viene sostituita la volontà di maggioranze relative che si andranno formando nelle singole classi. Si tratta di un arretramento che confina con l’arbitrio. La parcellizzazione, la polverizzazione dei soggetti e degli spazi destinati alla definizione del diritto sostituiscono – in quest’epoca di smobilitazione dei grandi concetti organizzatori e dei valori fondanti, davvero, la nostra identità collettiva – lo spazio nazionale ed internazionale di garanzia dei diritti di tutti e di ciascuno.