(04.01.2008)
Bulli e fannulloni: la finta "cura" della scuola italiana
L’attacco
frontale alla scuola pubblica è iniziato più o meno tra il 2006 e il 2007. In
quel periodo – durante il governo di centro sinistra e il ministero Fioroni – i
media hanno inaugurato una periodica, implacabile campagna di informazione a
senso unico: quella sulla mala scuola. All’ “anno zero” del bullismo fu dato il
via dai filmati dell’aggressione, diffusa su Internet, di un ragazzo autistico
di 17 anni in una scuola di Torino. Da allora il binomio scuola-bullismo è stato
riproposto con asfissiante puntualità, come se prima gli istituti italiani non
avessero mai assistito ad episodi incresciosi. Un po’ come per la pedofilia, la
cassa di risonanza dei media e l’abuso della rete hanno portato alla luce un
fenomeno esistente da sempre e mai nominato.
Non a caso contemporaneamente, su altro fronte, si registrò l’ondata delle
reprimende degli editorialisti: il cahier de doléance di signori che –
autorevoli e competenti nei propri specifici campi, comunque diversi dalla
scuola – si affannavano a lanciare strali e denunce contro gli insegnanti.
Suggerendo formule definitive ed intransigenti, forti del semplice fatto di aver
frequentato in un tempo più o meno remoto la scuola.
La punta di diamante in questo senso fu un editoriale di Pietro Ichino, che
consegnava un identikit di straordinario e irrispettoso qualunquismo
dell’insegnante italiano, identificato nella figura del prof. M., meridionale
immigrato in un liceo di Milano, ritardatario, nullafacente, assenteista;
insomma, pane per i denti di Brunetta, che non a caso usa rivolgersi ai docenti
con occhio nostalgico per quella iconografia. Un’immagine che ha dato voce ad un
sentire comune, che individua nella classe docente l’alfa e l’omega dei mali
della nostra società: rubastipendio, privilegiati, spesso incompetenti,
beneficiati da mesi di vacanza e da orari di lavoro ingiustamente leggeri.
Non starò qui a confutare questi luoghi comuni; né, d’altra parte, ritengo utile
o onesto cimentarsi in una difesa d’ufficio della categoria. Come ovunque, tra
gli insegnanti si trova di tutto. La vera differenza – considerando la
specificità di questa professione – è rappresentata dal fatto che un insegnante
capace può condizionare – e quasi certamente condiziona - positivamente la
crescita, l’emancipazione, l’acquisizione di competenze non solo disciplinari ma
di cittadinanza dei propri allievi; un insegnante non capace ha il potere di
scoraggiare definitivamente curiosità e capacità, producendo spesso danni
notevoli, non solo per il singolo individuo, ma per la società intera.
Alla luce di una simile, banale osservazione appare ancor più colpevole e
irresponsabile una politica di (dis)informazione, tesa a generalizzare vizi
fisiologici del sistema. Soprattutto se tale disinformazione interpreta il senso
di un disinvestimento programmatico sulla scuola dello Stato, operato da chi
quella scuola dovrebbe sostenere e potenziare. Un disinvestimento trasversale ai
governi che si sono succeduti negli ultimi anni, ma che ha raggiunto da aprile
ad oggi un culmine scandaloso.
A cosa è servito immortalare la mala scuola con una perseveranza quasi
ammirevole, ignorando programmaticamente ciò che di buono pure viene fatto?
Rendere le scuole italiane il luogo dell’esercizio della logica del branco, dove
il bullismo spadroneggia; luoghi in cui insegnanti giovani e belle si denudano,
facendo sognare ragazzini puberi e prepuberi; dove bimbi vengono legati alla
propria sedia con lo scotch da pacchi; costretti al silenzio con il taglio della
lingua; dove, infine, individui sordidi ed indegni trascorrono mattinate alla
cattedra leggendo il giornale?
Non è certo servito ad individuare condizioni di cura, relazione educativa,
interventi mirati, figure professionali alternative finalizzati a scoraggiare il
sino ad allora “insospettato” fenomeno del bullismo.
Non ha sicuramente dato vita ad alcun tipo di riflessione e di provvedimento
sulla formazione degli insegnanti, iniziale ed in itinere; su quali debbano
essere oggi le competenze di un docente, quali le sue conoscenze, quali le
modalità di trasmissione, quali il riconoscimento sociale ed economico da
attribuire.
Questi problemi continuano ad essere sapientemente elusi: ci si limita a
proporre l’immagine di un’adolescenza disagiata e disperata, di un allarme
sociale perenne, di un’incompetenza atavica degli insegnanti, piuttosto che
prendere atto del fatto che questi elementi – che pure ci sono – devono essere
affrontati con investimenti mirati e con uno studio approfondito dell’esistente.
Si sedano le spinte interventiste e la richiesta di ordine e sicurezze con
provvedimenti che, rispetto alla complessità dell’oggi, appaiono persino
grotteschi: grembiulino, cinque in condotta, educazione civica, la fantasiosa
caccia al fannullone. Un affaccendamento inoperoso, che dà il senso apparente di
un farsi carico, ma che è in realtà un movimento di facciata, volto a
conquistare consensi della parte più immobile del Paese; un muoversi strumentale
certamente avulso da qualunque elaborazione scientifica, sociologica, economica,
pedagogica, psicologica delle cause che ingenerano i fenomeni.
Dall’anno zero del bullismo e dell’insegnante fannullone, di fatto, nulla è
cambiato: la scuola è identica a se stessa. Se si fosse trattato di reali
emergenze e non di pretesti per giungere ad altri risultati – nella politica di
risparmio ideologico sulla scuola cui i governi ci hanno abituati, nella tecnica
di (dis)informazione “urlata” cui i media ci hanno costretto - qualcosa sarebbe
mutato. Invece nulla.
A parte il fatto che nei prossimi 3 anni ci saranno 87.000 docenti in meno. E –
di conseguenza, è facile immaginarlo – molti potenziali bulli-disagiati
potranno essere allontanati-dispersi dalla scuola. O comunque non saranno loro
riservati alcuna attenzione, alcun ascolto, alcuna mediazione, alcun tentativo
di sostegno.
C’è da essere soddisfatti, allora: l’operazione – preparata con cura e
precisione – è perfettamente riuscita.