(14.09.2009)
Settembre, andiamo. È tempo di consumare - di Marina Boscaino
Uno dopo l'altro, 5 al giorno, sono passati davanti agli occhi nel caldo sonnolento di luglio: poco meno di due mesi fa, anche se ora sono lontani, lontanissimi. Con i colloqui orali, il rito è agli sgoccioli. L'attesa, consacrata da una rincorsa durata un quadrimestre - scandita dal monito implacabile: "ricordati che hai gli Esami di Stato" - si è consumata in un batter d'occhio. I più fortunati sono quelli che hanno finito per primi. Gli altri - novelle Ifigenie in un mondo UMTS -dipendente – hanno atteso il proprio turno con rassegnazione, grinta, scetticismo, timore, trepidazione.
L'esame orale
è davvero l' ultimo giorno di scuola. Un evento
comunque significativo, nel percorso di una vita: conclusione di un ciclo e di
un'età - quella della tutela, comunque; quella alternativa all'adultità -, senso
di un passaggio determinato, questo sì, da una scelta personale, inseguendo
vocazione, futuro, ambizioni (più o meno sbagliate), certezze, incertezze
mediate dall'acquisto milionario di Ronaldo, dalle forme incontestabili Hillary
Blasi; da un mondo incoerente e fantasioso, dove risulta comunque difficile
collocare in un rapporto di causa-effetto tradizionale e oggettivo il fatto di
essere ministro e la totale mancanza di competenze; il fatto di essere
presidente del Consiglio e l'inopportunità di atteggiamenti non immediatamente
riferibili a quella carica. Ma queste, se ci penso, sono preoccupazioni di una
generazione diversa dalla loro. Sono proiezioni mie, nostre, nei confronti di
una generazione che ha passioni differenti; alla quale la gran parte degli
adulti
ha cercato in tutti i modi di dimostrare che impegno,
partecipazione, vigilanza, coscienza critica
sono un inutile orpello del passato.
Loro
sono quasi immuni dalla perplessità esistenziale di questo cattivo tempo che
stiamo vivendo: anche i più acuti, curiosi, sensibili, critici sono il frutto di
un mondo in cui la politica ha tradito la sua funzione suprema, perdendosi nei
rivoli ora dell'affarismo ora del
politically correct di maniera, rinunciando ad esercitare qualunque forma di
attrattiva nei confronti della maggior parte dei più giovani. Vivono in un mondo
che sconsiglia loro inflessibilmente riflessione sul desiderio, attenzione e
capacità di porsi interrogativi. Un mondo di pulsioni da consumarsi
frettolosamente nell'immediato. Si abbracciano e fanno salti di gioia per un
voto mediocre; a volte non sono presenti
all'esame del compagno, del migliore amico; né
l'amico fa caso a quell'assenza; rispondono spesso con evidente scarsa
concentrazione; accade che non si disperino se nella versione di latino hanno
rabberciato un terribile 3/15, che significa insufficienza gravissima; che
significa non solo che la versione di latino non l'hai saputa fare, ma anche che
hai fallito nella disciplina di indirizzo del corso di studi che hai frequentato
per i precedenti 5 anni.
Non è l'identikit di una generazione di mostri, tutt'altro. È la ragionevole, automatica reazione ad una programmazione alla quale la società li sottopone sin da quando sono piccoli: voi diventerete non magistrati, saldatori, insegnanti, architetti, operai (perché il lavoro nobilita l'uomo); voi diventerete non individui consapevoli, colti, solidali, impegnati (perché la dimensione etica, culturale e politica fa dell'uomo un uomo). No. Voi diventerete, e dovete diventare, consumatori acritici. Siete già sulla buona strada, abbiamo lavorato bene. Sì, anche noi della scuola. Perché mentre fuori venivate bersagliati di merci, venivate sollecitati da lusinghe che vi costringevano a quadrare il cerchio nella schiacciante superiorità dell'avere sull'essere , venivate abbagliati dalla sorte gloriosa riscaldata dai mendaci riflettori che incoronavano i molteplici "re per una notte" che avete invidiato / ammirato/ disprezzato nel corso della vostra breve vita, ma che mai - mai - vi sono stati indifferenti, noi – gli adulti, i “maestri”, gli insegnanti – nel migliore dei casi continuavamo a proporre - invariata tanto quanto vorticoso era il cambiamento fuori - la "Cultura". Sempre più lontana, sempre più astratta, sempre più incapace di intercettare il mondo, sempre. Compresa quella maledetta versione di quella maledetta lingua di cui continuerete a rimanere indifferenti ignoranti. Perché raramente siamo riusciti a spiegarvene il senso. È stancante, credete, affrontare un nuovo anno con un bagaglio di esperienza sempre più negativo; assaporare il gusto amaro della contraddizione tra una funzione teorica (la nostra, quella degli insegnanti) e le condizioni di una realtà alla quale quella funzione fa sempre più fatica ad applicarsi. Non si tratta di ammantare di una vena di pessimismo – sempre più irreversibile – l'ennesimo inizio di un ennesimo anno scolastico. Quanto piuttosto di prendere atto definitivamente che è finito il tempo dei cahiers de doleance. I signori che ci governano sanno esattamente quello che vogliono: purtroppo, ciò che la scuola democratica non vuole. Nel perseguire i loro obiettivi violano diritti continuamente. E la condizione dei precari - che sta tenendo banco sui media in questi giorni – non è che l'esempio più eclatante. Basta stigmatizzare, denunciare, ripeterci tra noi quali sono le inadempienze, i crimini e misfatti di una destra che fa la destra nella maniera più becera e mortificante per il Paese.
Qual è la sorpresa, in fondo? Concentriamoci piuttosto a procedere ad un'elaborazione alternativa, che da troppo tempo e da troppe parti manca. Solo così sarà possibile dare una risposta al vuoto progressivo che accompagna il taglio sconsiderato di cattedre e ore, ma che di quei tagli non è conseguenza diretta. Esisteva già prima di Gelmini, era cominciato già prima di Moratti. Prima che siano loro – i rappresentanti di questa destra arrembante che spadroneggia in un Paese più o meno silente, grazie ad una maggioranza schiacciante in Parlamento e a una arrogante cultura politica da saloon che elude con disinvoltura le procedure democratiche - a mettere mano al come, al cosa e al perché insegnare.
Minacciano di farlo, stiamo attenti: si tratterebbe di una insidia ancor più grave di tutte le violazioni dei diritti – dal diritto al lavoro, a quello allo studio, al diritto alla laicità – che hanno perpetrato in questo anno e mezzo. È necessario radunare le forze e cominciare a spendersi per configurare una proposta concreta, significativamente alternativa a quel modello deprivante di cui aperture al dialetto, voto in condotta, maestro unico, divaricazione definitiva tra destini socialmente determinati rappresentano episodi via via più drammatici. E a cui fanno da controcanto anche le scialbe prestazioni di un rituale finale che ci dicono, anno dopo anno, che il tempo è scaduto e che bisogna disegnare un'alternativa credibile, significativa, seria per rispondere alla complessità di un mondo a cui la scuola così com'è non sa più offrire chiavi di decodificazione.