(29.03.2009)
Parzialità - di Marina Boscaino
Una
mattinata normale, in una scuola normale, la mia: un liceo classico di Roma.
Insegno al triennio italiano e latino; sono innamorata delle mie discipline, ma
mi assumo la responsabilità di affermare che ritengo infinitamente meno
significativa la conoscenza dell’elenco e delle caratteristiche delle opere di
Petrarca in latino piuttosto che la comprensione del ruolo che Petrarca stesso
ha avuto come interprete e mediatore della latinità nel volgare. Significativo
vuol dire, per me, portatore di una dimensione culturale definitiva, spendibile
per la vita. Vuol dire paradigmatico di una procedura cognitiva, estendibile al
di là dello specifico contenuto. Vuol dire funzionale ad interpretare il reale,
anche nel senso di strumento per l’approccio critico al reale stesso. Sono una
di quelle insegnanti di latino che si interrogano sul senso dello studio della
lingua così come viene proposto e sulla sua significatività. Certo, la mancanza
di studio, il rigore dimenticato, l’approssimazione come viatico per la
tuttologia premiante dei nostri tempi, perché basata non su solide basi
conoscitive, ma su un “sentito dire” sdoganato dalla priorità di altri valori:
l’appartenenza alla casta, innanzitutto; tette e sederi tonico-trofici; la
duttile capacità di asservimento al pensiero unico; la compiacenza
all’omologazione da parte di “yesmen”
in serie. Sono proprio questi i
motivi della mia inquietudine, che hanno confermato la necessità di dare alla
parola significatività quel valore e non un altro; che ingenerano in me il
sospetto che l’allergia per l’apprendimento – in particolare per certi
apprendimenti – non sia esclusivamente un vezzo generazionale e un fenomeno
sociale, ma il campanello di allarme che ci sollecita a cambiare direzione. E
cambiare direzione vuol dire cambiare il come, il cosa, il quando: cambiare la
scuola così com’è, insomma.
Una mattinata normale, dicevo. Concludiamo l’analisi del
Miles
Gloriosus nella geniale traduzione pasoliniana e
riprendiamo Lettera a una professoressa,
un testo che stiamo leggendo insieme: 15-20 pagine per un’ora a settimana. I
commenti e le riflessioni sulla sezione individuata vengono scritti a casa e poi
letti e discussi in classe, prima di affrontare nuove pagine del testo.
Il risultato sono in genere momenti piacevolissimi,
in cui è possibile rendersi conto che non tutto è perduto: cervelli in
movimento, eccome. Bisogna solo provare a sollecitarli, astenendosi, per quanto
è possibile, dalla coazione all’incomprensibilità.
Ormai non funziona più, hanno sviluppato anticorpi,
deuteroapprendimento. Stanno imparando a non apprendere. Pericolosissimo.
Bastano i dati. Negli istituti
professionali confluisce il 65% della popolazione scolastica; il 40% degli
alunni migranti; il 60% degli alunni disabili che frequentano le superiori.
Romano Prodi aveva tentato una riqualificazione di questo settore
dell’istruzione che – dopo l’abbandono del Progetto ’92 – aveva, con il
Moratti - pensiero, raggiunto il suo minimo storico: regionalizzazione
spregiudicata; trasferimento di quel segmento dell’istruzione sotto la totale
potestà delle regioni. Significava: non solo siete formazione professionale e
non scuola a tutti gli effetti; ma sarete diversi gli uni dagli altri. Non è un
mistero che ogni regione ha risorse, vocazioni, organizzazioni differenti. Né
che le regioni del nord abbiano una marcia in più, non solo in questo senso, ma
anche nella capacità di fornire alla propria utenza percorsi integrati
dignitosi; sinergie con le aziende del territorio significative. Sud sempre più
in basso, una deriva inarrestabile. Destini sociali, geografici, antropologici
definitivamente incanalati.
Ci risparmiamo almeno la finzione, con buona pace di Don Milani: parti diseguali tra diseguali. Che del resto potrebbe essere il motto
araldico del nostro Paese, oggi.