(25.05.2009, integrato il 2.6.2009)
Note in calce - di Marina Boscaino
Fosdinovo è un bellissimo
paesino sulle suggestive colline della Lunigiana. Lo scorso fine settimana si è
tenuto lì – nel castello Malaspina
– il secondo School Book Camp di
editoria digitale per la scuola. Un appuntamento che è capitato nel pieno del
periodo tradizionalmente dedicato ai collegi docenti sull’adozione dei libri di
testo per il nuovo anno; e subito dopo la riammissione da parte del Consiglio di
Stato della
circolare che norma l’adozione stessa, precedentemente sospesa dal Tar su
ricorso della FlcCgil per presunta violazione del principio della libertà di
insegnamento, dal momento che in quel testo si obbligano i docenti a mantenere
inalterata l’adozione per i prossimi 6 anni.
Ho
partecipato anch’io ai lavori, organizzati significativamente nella dimensione
di un non-convegno, il Camp,
con gruppi di lavoro su tematiche differenziate che procedono parallelamente, si
scompongono, si ricompongono, si confrontano durante le due giornate di lavoro
sulle rispettive tematiche, sulle provvisorie conclusioni. Quest’anno – e c’era
da aspettarselo – a farla da padrone
è stato l’e-book: argomento sul quale già mi è
capitato di intervenire, anche rispetto all’editoria
digitale e specificamente all’eventuale
inserimento dell’e-book a scuola.
Case editrici, rappresentanti di
settori che convergono sull’editoria, in particolare scolastica, mondo della
scuola, insegnanti e dirigenti scolastici gli interlocutori. L’organizzazione,
impeccabile dal punto di vista dell’ospitalità e significativamente allusiva
alla specificità dell’oggetto trattato – la dinamicità – nella formula fluida e
dialettica del Camp.
La
tentazione di attribuire un potere taumaturgico alla modernità non è ancora
tramontata. In una fideistica (e forse strumentale) convinzione che ciò che è
moderno, tecnologico, coincida automaticamente con ciò che è positivo,
opportuno, funzionale, utile, significativo, qualificante, alcune case editrici
perseguono la politica dell’innovazione, tralasciando spesso una riflessione
seria, approfondita, sull’impatto, sulle valenze culturali che l’innovazione
proposta può configurare. Non basta tener presente che la gran parte dei nostri
alunni usano Facebook, Skype
o Messanger per dimostrare che l’e-book è certamente
destinato ad avere successo e a migliorare gli apprendimenti. Non è questa
semplice valutazione, peraltro, che può consentire di licenziare prodotti di
modesta qualità, come in alcuni casi capita.
Questa,
però, è solo la conclusione di un ragionamento che parta dall’oggi inevitabile
comparazione (anche grazie
ai frettolosissimi e farraginosi suggerimenti del DM 41 in merito) tra
dispositivo cartaceo e dispositivo digitale. Sono proprio l’immediatezza e la
necessità
di questa constatazione a far risaltare un dato allarmante,
che rappresenta il nucleo problematico dell’intera riflessione: il necessario
dibattito su quell’alternativa troppo spesso omette di partire da alcuni
presupposti, in realtà insopprimibili. Tralasciando, peraltro, una serie di
osservazioni di carattere materiale, quale l’inaccessibilità economica per molti
studenti o l’inadeguatezza delle strutture scolastiche ad ospitare
l’innovazione.
b)
L’organizzazione oraria delle discipline, così com’è,
soprattutto nelle scuole superiori, configura l’esatta antitesi di formule
didattiche alternative. Un esempio concreto: in 4 ore settimanali di Italiano al
triennio del liceo il docente deve mediare i contenuti della letteratura dai
Placiti Cassinesi (460 d.C) al Novecento (concetto esaltato ma fluttuante, non
definito e poco praticato, nonostante il decennio che ormai ce ne separa e il
ruolo fondamentale che dal suo studio approfondito si potrebbe derivare rispetto
alla comprensione dell’oggi). Io, dal canto mio, non consento che i miei
studenti affrontino l’esame di Stato senza aver conosciuto Pasolini e Calvino.
Inoltre bisogna che in quelle 4 ore settimanali gli studenti stessi acquisiscano
competenze di scrittura che li rendano in grado di affrontare tipologie testuali
quali quelle proposte all’Esame: quel vero e proprio ectoplasma trascendentale e
misterioso che è il saggio breve; l’analisi del testo letterario; il tema
storico. Che significa esercizio, correzione, discussioni guidate. Non è
un’impresa semplice. Certamente è un’impresa che lascia pochissimo spazio a
digressioni, pluri o multidisciplinarità, contaminazioni. Guardiamo alla realtà.
c)
C’è in
più un’altra riflessione, non meno importante: la proposta dei dispositivi
digitali viene accompagnata da chi la caldeggia dalla considerazione – peraltro
non scientificamente comprovata, stando le cose come stanno – che l’innovazione
porterebbe automaticamente ad un miglioramento degli stili e dei livelli di
apprendimento. Stili e livelli di apprendimento – che oggettivamente si
dimostrano nella scuola italiana sempre più insufficienti – non sono la
risultante dell’inadeguatezza di uno dei mezzi fondamentali a disposizione della
didattica: il libro. Ma sono il senso di qualcosa che va ben oltre e che investe
in senso ampio e globale la scuola oggi. La crisi affonda le sue radici altrove:
guardiamo alla realtà.
L’impressione, insomma, è che non sia sufficiente cambiare strumento, pur
nell’oggettiva comprensione delle potenzialità dinamiche, interattive, fluide,
permeabili che il dispositivo digitale comporta.
Il progetto culturale della scuola di impianto
gentiliano sta mostrando la sua residualità, il suo anacronismo, lo scollamento
tragico da un mondo che è cambiato con un ritmo esponenziale rispetto
all’inerzia della scuola. Affinché l’introduzione dell’e-book – un e-book che
miri alla qualità, e sia frutto di fatica e di ricerca di spessore culturale,
come pure mi è capitato di intravvedere –
possa rappresentare realmente un evento
costruttivo in un’ottica di miglioramento della
scuola, occorre prendere atto dell’accumulo di ritardo della scuola rispetto al
mondo. Occorre negoziare, definire, nominare un’idea di cultura al servizio
dell’interpretazione critica e consapevole del reale. Bisogna comprendere non
solo il cosa e il come, ma il perché la scuola debba insegnare. Per far ciò c’è
necessità di tempo e di menti sufficientemente audaci da andare a scardinare
convinzioni granitiche, sedimentate, intoccabili.
L’alternativa è che il monolita prosegua il suo percorso immobile, fino al punto
in cui sarà definitivamente evidente la sua inadeguatezza. Che, governo dopo
governo, si continuino a proporre soluzioni imbarazzanti – sempre più retrive e
conservatrici, seppur fantasiosamente etichettate come “riforme” – per fingere
di cambiare al fine di risparmiare.
Ma potrebbe essere troppo tardi.
Bisogna partire dall’esistente
per creare il futuro. La proiezione in avanti è suggestiva, ma senza transitare
attraverso una preliminare analisi della realtà si rischia l’impatto traumatico
e la frustrazione. Che farebbero perdere ad un’ipotesi feconda e ricca di
promesse, se spiegata sul piano della praticabilità concreta e soprattutto
dell’autorevolezza culturale, il proprio potenziale positivo. Il rischio è
invece che la rincorsa all’innovazione come concetto automaticamente positivo
crei un’ulteriore etichetta formale, non spendibile in senso di crescita etica e
culturale di alunni e docenti, confinando ulteriormente la tecnologia in un
angolo di fatto culturalmente impraticato nelle nostre scuole. Rafforzando la
deriva della tecnicalità. E – soprattutto – dando agio a soluzioni
approssimative e non dotate di requisiti di autorevolezza e credibilità di
andare a fertilizzare un mercato che abbasserebbe, invece, ulteriormente il
livello - già abbassato e mortificato - di didattica, apprendimenti, conoscenze
e competenze. Suggellando definitivamente il fallimento di un’opportunità che,
se ben spesa e rafforzata da studio, riflessione, elaborazione, potrebbe
significativamente accompagnare un percorso di sostanziale cambiamento della
scuola italiana. Ma, prima di tutto, partiamo dalla scuola.