(28.03.2011)
Nessuno li può giudicare, nemmeno tu!
- di Marina Boscaino
Come ormai è noto a tutti, la questione che sta tenendo banco in questo periodo è quella relativa all’eventuale obbligatorietà delle prove Invalsi, prescritta con una nota ministeriale del 30 dicembre 2010.
Preventivamente occorre sottolineare come tutto il fermento è ancora una volta dovuto all’incapacità da parte di questo ministero di traghettare operazioni pur significative che ci condurrebbero in qualche modo ad affrontare nodi nevralgici del sistema di istruzione, come quello della valutazione, in maniera condivisa, negoziata e trasparente.
La logica, invece, continua ad essere quella di una prescrittività insindacabile, ma legata a procedure talmente frettolose da scatenare automaticamente il sospetto – quando non l’ostruzionismo – di una scuola evidentemente stanca di vedersi calare dall’alto imposizioni vincolate a parole come “obbligo” che si determinano non per le naturali vie giuridiche. La scuola, cioè, vuole finalmente vederci chiaro. E vorrebbe partecipare ad un processo importante – se convogliato con professionalità, trasparenza, preparazione, impegno economico – che potrebbe cambiarne il volto, arricchendola.
Alla nota è seguita
una lettera
ai dirigenti scolastici inviata dal presidente dell’Invalsi, Piero Cipollone, che ribadisce l’obbligatorietà delle prove.
Vediamo qual è il quadro normativo relativo alla questione.
Con la legge delega 53/03 (la legge Moratti) e successivo decreto legislativo 286/04 è stata attribuito all’Invalsi il compito di effettuare, tra l’altro, “verifiche periodiche e sistematiche sulle conoscenze e abilità degli studenti”. Si tratta di verifiche finalizzate al “progressivo miglioramento e armonizzazione della qualità del sistema d’istruzione”. Ossia, comunque, di operazioni valutative nettamente distinte dalle verifiche finalizzate alla “valutazione periodica e annuale degli apprendimenti e del comportamento degli studenti”, attribuite alla competenza dei docenti.
Detto questo, alcune delle mozioni dei collegi dei docenti contrari al criterio di obbligatorietà, sottolineano come una nota ministeriale non rappresenti una fonte di diritto: la nota e la circolare si limitano ad interpretare la legge esistente e a prevederne modalità applicative.
Il dibattito e, in alcuni casi, lo scontro nel merito è stato talmente acceso che l’ USP di Torino ha diffuso la circolare 151 del 7 marzo 2011 con la quale riporta il parere espresso dall’Avvocato dello Stato Laura Paolucci – che si era già precedentemente pronunciata sulla questione e il cui intervento è stato emendato nella pubblicazione dell’USP di Torino, come ha dimostrato Francesco Mele - in ordine alla obbligatorietà delle prove Invalsi, che però lascia aperti, come vedremo, alcuni problemi.
Dall’intervento dell’avv. Paolucci – emendato o meno - si evincono alcuni elementi:
D’altro canto, però, alle scuole viene richiesta collaborazione, prevalentemente di tipo materiale nei limiti delle determinazioni variamente adottate dall’INVALSI (distribuzione dei test, vigilanza durante lo svolgimento, raccolta e spedizione, ecc.).
Infatti la nota Miur – che sottolinea l’obbligatorietà - prescrive che “è essenziale la collaborazione degli insegnanti in tutte le diverse fasi della procedura secondo le modalità che saranno successivamente comunicate dall’INVALSI”.
Ma l’obbligatorietà – evidentemente appurata - della rilevazione tramite le prove, non coincide automaticamente con l’obbligo dei docenti a somministrarle né a correggerle, a tabulare i dati, a predisporne l’invio. I carichi di lavoro connessi a tali operazioni sia per i docenti che per le segreterie sono rilevanti e non possono configurarsi come “attività ordinaria”.
In altre parole, le scuole hanno l'obbligo fare svolgere agli alunni delle scuole elementari (seconda e quinta), medie (prime) e superiori (seconda) le prove predisposte dall'Invalsi annualmente, ma i docenti non sono affatto vincolari alla somministrazione dei questionari, alla compilazione delle schede, così come le segreterie con il relativo lavoro.
Si configurerebbe un lavoro straordinario che il capo d'istituto dovrebbe trovare il modo di retribuire con un compenso a parte.
È nota a tutti la disastrosa situazione economica in cui versano le scuole italiane: e allora non si capisce davvero in nome di quale principio si possa chiedere a lavoratori – personale Ata e docenti – che vivono un momento di difficoltà drammatica di rispondere con un atto di volontariato ad un’operazione improvvisata, per la quale non sono stati disposti fondi appositi, dal momento che, contrattualmente, gli obblighi di lavoro dei docenti sono articolati in "attività di insegnamento" e "attività funzionali ", tutti elencati dal nostro contratto. In cui di prove Invalsi non si parla.
Io non so come si evolverà la situazione fino a maggio.
È certo che tutta l’operazione, condotta – come al solito – con approssimazione ed autoritarismo, non è altro che l’ennesima dimostrazione di un’incapacità cronica di questo ministero di condividere con gli operatori della scuola un processo di cambiamento necessario e probabilmente utile che richiederebbe tutt’altro atteggiamento; e troverebbe – da parte di una scuola meno vessata e più rispettata – tutt’altra risposta. Perché nessuno è contrario alla valutazione, alle valutazioni.
Molti sono contrari a questo tipo di valutazione e, soprattutto, alle modalità bizantine e limacciose con cui viene imposta.
A proposito della famosa Europa, a cui molti si richiamano per dimostrare la validità del percorso e la necessità di una equiparazione del sistema italiano con quello degli altri Paesi UE, ci sono alcuni elementi da tenere presenti.
È vero che l’Europa si serve di strumenti simili. Ma i fondi destinati alla cultura e al sistema della valutazione vanno dallo 0.1% della Svezia allo 0.4% dell’Inghilterra della spesa globale per l’Istruzione. E si tratta di Paesi che hanno percorsi iperconsolidati, inaugurati da almeno 30 anni. Si tratta di Paesi che hanno una cultura della valutazione sviluppata e scientifica, con finanziamenti, formazione degli insegnanti, riconoscimento dei carichi di lavoro. La rincorsa all’Europa, per sanare un ritardo atavico, non è motivo sufficiente per imporre alla nostra scuola (ferita nel suo mandato, vilipesa nelle professionalità, affossata da politiche di tagli scellerati, eufemisticamente definite “riordino e semplificazione”) nuove sferzate provocatorie, peraltro a costo zero.
Nei Paesi UE le prove standardizzate nazionali vogliono monitorare e valutare le scuole e/o il sistema educativo nel suo insieme. Oltre la metà dei Paesi ne fa uso. I risultati, insieme ad altri parametri, sono indicatori della qualità dell’insegnamento e dell’efficacia generale di politiche e pratiche didattiche. Lettonia, Ungheria, Austria e Inghilterra si concentrano su performance delle singole scuole e valutazione della loro efficacia educativa. Irlanda, Spagna, Francia, Finlandia e Scozia, invece, sul sistema. Quasi mai a essere valutate sono le prestazioni degli insegnanti, attraverso quelle dei propri studenti.
Sono invece proprio le parole conclusive dell’avv. Paolucci, che ci richiamano al sospetto di un’intenzionalità da parte del ministero che occorre rifiutare drasticamente, senza alcun tipo di incertezza. Si legge nella nota dell’USP di Torino:
“Si potrà dunque discutere sul “quomodo” della valutazione (peraltro, solo nelle sedi a ciò deputate), ma non certamente sull’”an”: la funzione svolta dall’INVALSI, nel misurare il “prodotto” della formazione (in termini di apprendimento degli studenti, si inserisce in tale quadro, rinvigorito dalla L. n. 15/2009.
È del resto auspicabile (oltre che ora imposto a chiare lettere dalla stessa legge) che si possa passare dalla valutazione della “qualità complessiva del sistema educativo” alla valutazione di ciò che è ad essa strumentale, in termini di prestazioni professionali del personale docente e dei dirigenti scolastici, ciascuno nell’ambito della specificità delle rispettive competenze. Ciò è tanto più necessario, ove si ponga mente che l’Italia è l’unico paese europeo, assieme alla Romania ed alla Lettonia, a non avere attivato alcuna modalità di valutazione né individuale né collettiva degli insegnanti”.
Una virata dalla valutazione delle competenze degli alunni – finalizzata teoricamente a mettere in atto strategie di miglioramento del nostro sistema educativo, che tutti auspichiamo – alla valutazione degli insegnanti.
Elemento legittimo e probabilmente costruttivo, se non interpretato – come hanno fatto esplicitamente i nostri governanti – come il bastone (senza carota, se non la minaccia, la ritorsione, la visione punitiva e censoria) con il quale rimettere in ordine quella banda di fannulloni rubastipendio che siamo noi insegnanti.
Il vincolo ai criteri più fantasiosi – efficacia, efficienza, economicità, semplificazione, peraltro difficilmente giustapponibili alla scuola democratica, laica, pluralista, emancipante – sono solo orpelli retorici, efficaci (secondo loro) a coprire il processo di selvaggio rastrellamento di risorse umane (e di diritto allo studio) nella scuola pubblica.
Che si compirà definitivamente dopo la tornata di taglio di posti del prossimo anno scolastico; ma che non è azzardato pensare possa “perfezionarsi” attraverso sistemi di valutazione più o meno improvvisati e arbitrari. Non a caso la valutazione è una vera e propria ossessione di Gelmini, Aprea, Brunetta e company, passata attraverso ipotesi nei disegni di legge, le “sperimentazioni” (fallite), la bozza di decreto sulla valutazione, il decreto milleproroghe.
Tutto caratterizzato da dimenticanze non casuali: la previsione di spesa; lo stanziamento di fondi; la formazione di professionalità; lo studio, la riflessione.
La prudenza è d’obbligo. La necessità di vederci chiaro sacrosanta.