(11.01.2008)
Qualche domanda imbarazzante.
Due mattine pesanti. Vacanze di Natale terminate. Ci rivediamo con la promessa di una verifica generale in latino in prima liceo classico. Una classe vivace e curiosa, ricca di intelligenza, educazione, autonomia. Una verifica obbligatoria, per valutare l’entità degli “scricchiolii” percepiti durante la prima parte dell’anno scolastico nella classe iniziale del triennio. Per valutare il senso dei tonfi nelle verifiche scritte, scelte tra gli autori più facili. È cessato il tempo di esercitarsi nello sport buono per tutti i tempi: la colpa è del professore dell’anno passato. Non è più interessante trovare un “colpevole”. È necessario individuare delle strategie di recupero in itinere, considerando i corsi, difficili da attivare per la scarsità di fondi; e la loro riuscita incerta, visti i criteri – perlomeno opinabili - di accorpamento degli alunni individuati per formare le classi di recupero. Insomma: me la devo sbrigare da sola. Avevamo concordato la formulazione di una frase in italiano, che contenesse le fondamentali subordinate e i costrutti più usati, e la relativa traduzione. Tutti, nessuno escluso, chiamati alla lavagna; con l’uso di un dizionario e il proprio corredo di conoscenze. 4 ore dedicate a questa liturgia penosa, lasciando da parte la letteratura, la traduzione dei classici. Liturgia penosa perché ha rivelato un’ignoranza nella materia ben più profonda e radicata di quanto sospettassi: la morfologia, questa sconosciuta. Nomi declinati in modo improbabile, desinenze invertite, disorientamento totale davanti a domande per rispondere alle quali – dal punto di vista grammaticale – sarebbe sufficiente una consapevole conoscenza dell’italiano e una modesta capacità metalinguistica. È un’esperienza non generalizzabile, ma ben più diffusa di quanto si pensi. I corsi di recupero dello scorso anno ne sono stati la prova: alunni delle classi terminali del classico incapaci di coniugare verbi regolari, di riconoscere un soggetto, una perifrastica. L’impressione che si ha, guardando i loro visi rammaricati, le facce intelligenti mortificate, è che l’impresa sia titanica e che tuttavia va tentata: chiederò di verbalizzare – in consiglio di classe - lo stop al programma di letteratura per dedicarmi interamente al recupero delle competenze grammaticali. Ma poi interviene una riflessione più generale: riuscirò mai – nel giro di due anni e con un programma pure da svolgere – a metterli nelle condizioni di tradurre Tacito? Potrà, questo mio sforzo, dotarli della strumentazione necessaria per comprendere ed apprezzare il De rerum natura, gli elegiaci o le Satire di Orazio? Quand’anche si arrivasse ad una capacità di orientarsi nella traduzione, questo li metterebbe in grado di riflettere sulla scrittura degli autori, di godere dello stile, delle peculiarità, di individuarle, contestualizzarle, stabilire rapporti con altri scritti, con altri scrittori, con l’opera come produzione dell’uomo in uno spazio-tempo determinato? La risposta è no. Senza dubbio. E allora altre domande: quale senso ha lo studio di una lingua e di una letteratura antiche se non quello di sollecitare, oltre alle strutture cognitive, capacità critica, competenze trasversali, visione d’insieme dei rapporti di causa-effetto tra storia, economia, cultura, arti, scienze, antropologia e altro ancora e il prodotto della mente dell’artista? In una parola, ha senso un’operazione, che impiega 5 anni a svolgersi nella sua interezza, se essa non rafforza le competenze di cittadinanza degli allievi, se non affina la loro cultura e il loro senso della cultura? Credo di no. E lo dico con tutte le cautele possibili. Credo che questo esercizio un po’ sadico in cui si è trasformato in molti casi lo studio delle lingue classiche garantisca solo la funzione sociale dei licei, la “scrematura” un po’ classista e settaria, la “facciata” formale, ma non la portata culturale che pure le discipline che li caratterizzano potrebbero spiegare. Infine mi chiedo: il silenzio degli insegnanti delle superiori, la loro mancanza di partecipazione sostanziale alle mobilitazioni contro la Gelmini, nella convinzione che il “problema” colpisse solo la scuola primaria; il sospiro di sollievo tirato per il posticipo di un anno della “riforma” delle superiori; il mancato allarme per il disegno di legge Aprea, che ben presto trasformerà le scuole in maniera irreversibile; tutti questi sono dati che indicano una sostanziale immaturità della classe docente, o una colpevole mancanza di interesse. È appena il caso di dire che l’impianto gentiliano impronta ancora di sé, a dispetto dello scorrere dei lustri, una scuola che appare ormai irrimediabilmente scollata dal mondo esterno: complesso, in preda a un divenire registrato in tempo reale, contraddittorio. Il dentro e il fuori sono luoghi definitivamente separati, la scuola non è più una rappresentazione del mondo. L’impressione che si ha è che il posticipo della riforma non sarà sfruttato per tentare una elaborazione che tenti di individuare in un cambiamento dei paradigmi espistemologici delle discipline una risposta allo scollamento. Ma per mantenere consolatoriamente inalterato un sistema che invece va ripensato, ridisegnato in termini completamente opposti ai progetti del governo. Il mantenimento dell’esistente non può essere un principio al quale informare l’attesa che si abbatta definitivamente anche sulla scuola superiore l’approssimazione e la dequalificazione targata Gelmini, sommata ai tagli ormai approvati. La domanda potrebbe essere: come dovrebbe essere se fosse ispirato alla comprensione del mondo? Come dovrebbero essere il latino, il greco, la filosofia, la fisica per costituire un viatico imprescindibile per la cittadinanza?