(07.04.2010)
Libertà è partecipazione - di Marina Boscaino
Vi racconto cosa hanno
fatto, cosa stanno facendo, cosa faranno alcune persone da più di anno e mezzo
per tentare di arginare il danno violento e irreversibile che la “politica del
fare” ha prodotto e continuerà a produrre sulla scuola italiana.
Nel silenzio e nell’indifferenza di tutti; con fatica; con la
consapevolezza che questo non è un momento storico propizio per
far attecchire interesse per quello che molti considerano un residuato,
altri consigliano di rottamare: la scuola pubblica, appunto. E infatti non desta
alcun tipo di reazione il numero dei tagli, né il fatto che le scuole siano
state azzoppate di risorse e di offerta formativa; non interessa che questa
dismissione produca come effetto più evidente la scippo di opportunità di
emancipazione per i più deboli dal punto di vista socio-economico-culturale; né
che si licenzino Indicazioni Nazionali (i programmi) per la scuola superiore
frutto di un frettoloso copia-incolla, fatto tanto per marcare la zona e
incassare il risultato, prive di qualsiasi respiro culturale; né che si stia
celebrando il requiem per il concetto di unitarietà del sistema nazionale,
considerando la devoluzione già in atto di grandi parti dell’istruzione alle
Regioni, diverse, con potenzialità, finalità, visioni differenti; e nemmeno che
si ventilino da più parti ipotesi di privatizzazioni più o meno esplicite, più o
meno praticabili, che raccontano – tutte – la presa di distanza con il concetto
bello, nobile, emancipante di scuola della Costituzione.
Il numero dei
precari, dei precarizzati, viene declinato astrattamente, ormai elemento di una
litania che non coinvolge più nessuno, che fa parte di ciò che si deve dire per
parlare di un argomento noioso, scaduto, di una cosa che ormai va così, e
nessuno ci può fare nulla. Non bastano i paragoni con l’Alitalia, non servono a
nulla le formule, ormai vuote: il più grande licenziamento di massa della
storia. L’incapacità di fare due più due, di pensare - se non alle donne e agli
uomini che esistono dietro quella formula – alle conseguenze di tutto ciò è il
sintomo di questo nostro tempo triste.
Roma, per mia esperienza
diretta; ma anche altre realtà italiane.
Si esiste solo se i media registrano la nostra esistenza. Ma i media sono
altrove, interessati ad altro. Eppure la scuola superiore – una parte di essa –
si è risvegliata dal suo letargo autoreferenziale e ha capito che c’è bisogno di
mobilitazione, di partecipazione, di impegno. Di far sentire una voce poco
incidente, ma di renderla più incisiva possibile, attraverso proposte concrete.
Innanzitutto la legalità,
una parola che ricorre spesso nei discorsi di Gelmini&C, come pura enunciazione
svuotata di significato, corredata esclusivamente di insegnamenti e discipline
fantasma, in quella visione asfittica per cui, ad un certo momento, in certe
ore, a scuola si dovrebbe insegnare la legalità. Poi, terminato il tempo, si
parte con altro, che - non si capisce perché - dovrebbe essere anche altro dalla
legalità. Nel luogo della legalità, dell’educazione, della cittadinanza (la
scuola) sono loro i primi ad evadere ogni procedura legittima: hanno chiuso le
iscrizioni alle superiori (come le avevano fatte partire, il 18 febbraio) su una
scuola “riformata” priva di riferimenti legge. Perché i regolamenti non hanno
ancora concluso il loro iter e si trovano ancora al vaglio della Corte dei
Conti, senza essere stati pubblicati in Gazzetta Ufficiale. Prima la
Flcgil, poi i comitati Per la
Scuola della Repubblica sono ricorsi al Tar per denunciare l’anomalia della
situazione. Lo scorso anno la situazione è stata analoga per la scuola primaria.
Ancora il Tar deve pronunciarsi. È evidente che un pronunciamento a favore di
coloro che hanno ricorso inficerebbe – ad esempio – gli organici. Ma questo non
può e non deve scoraggiare coloro che continuano ad esigere la certezza del
diritto. Sarebbe quindi importante che, nei pochi giorni che rimangono, la
scuola democratica producesse uno sforzo in più per aderire al ricorso. Fino a
quando abbiamo intenzione di assuefarci alla violenta imposizione di procedure
illegittime a fronte della legge? Fino a quando abbiamo intenzione di accettare
l’idea che addirittura una “epocale riforma” non abbia – per diventare esecutiva
– necessità di passare attraverso i legittimi percorsi che rendono tale una
legge?
Insegnanti. Si sta
tentando di superare il divario tradizionale che si definisce già dalla
denominazione: da una parte gli insegnanti, dall’altra i precari. Quasi si
trattasse di categorie diverse. È vero che la politica dell’attuale governo ha
tentato – molto più che in passato – di contrapporli. Il gioco al massacro degli
spezzoni di cattedra proposti da zelanti dirigenti e accettate da molti
insegnanti di ruolo – in barba a qualsiasi principio di solidarietà e di
interesse generale, nonché in una lettura miope e restrittiva delle conseguenze
di ciò che i tagli potranno provocare nella scuola – non toglie alla scuola
democratica la consapevolezza di quanto quella divisione sia dirimente dal punto
di vista esistenziale, ma certamente non da quello professionale, né della
condivisione dei principi che animano l’idea di scuola della Costituzione.
Gli ingentissimi tagli
(8 miliardi di euro circa), il debito del Miur con gli istituti, che
ammonta a 1 miliardo e mezzo di euro e che – come è stato dichiarato - non verrà
mai rifuso, la pseudo-riforma che questi scaltri e spregiudicati dilettanti allo
sbaraglio tentano di organizzare intorno allo scheletro portante di quei tagli
(che ne sono l’unica motivazione), sempre in modo pedestre, come nel caso del
copia-incolla di bassa levatura fatto con le Indicazioni Nazionali, i
“programmi”: sono tutti elementi che tengono insieme insegnanti e famiglie,
producendo riflessione rispetto all’opportunità di continuare a favorire o meno
il pagamento del cosiddetto “contributo
volontario”, una vera e propria tassa, vincolata teoricamente ad alcune
specifiche attività, oggi fonte di sostentamento essenziale per molti istituti.
A Roma, come altrove,
coordinamenti di insegnanti – tutti gli insegnanti – con genitori e (pochi)
studenti stanno continuando ad attuare una mobilitazione impegnativa e in alcuni
momenti frustrante, perché riuscire a coinvolgere non è così facile e perché i
media – superato il folklore dei precari in mutande sul tetto – hanno spento le
luci sulla scuola italiana. E solo i
Flash mob che alcuni
volenterosi stanno continuando ad organizzare conquistano un minimo di
attenzione. I futuri
Presidi sotto il Miur, con un calendario scandito tra le scuole di Roma più
attive, sono già programmati. La fatica – parliamo chiaramente – è quella di
mantenere desta l’attenzione in una fase critica dell’anno scolastico che volge
verso la conclusione. Sarebbe certo più facile mollare, chiudere gli occhi e
consentire che i tanti processi di distruzione della scuola pubblica continuino
a minare dalle fondamenta l’impianto della nostra scuola, sperando –
individualmente, ciascuno di noi – di riuscire a cavarcela. Rinunciando alla
dimensione collettiva, all’interesse generale e alla vigilanza sulla
Costituzione, tante volte aggirata con funambolici avvitamenti che stanno
violando il mandato che la scuola ha avuto nel processo di ricostruzione
democratica del nostro Paese. A Roma, come altrove, il movimento ha individuato
tappe ulteriori del programma di mobilitazione, che culmineranno in una
manifestazione il
17 aprile. Speriamo e crediamo non finirà lì.