(07.02.2010)
Le loro parole e le nostre - di Marina Boscaino e Marco Guastavigna
La scrittura come terapia. In quest’ultimo anno e mezzo abbiamo provato – noi come molti altri – a fare tutto ciò che era nelle nostre possibilità per segnalare disagio, illegittimità, pericolo di quanto stava succedendo alla scuola. Ci siamo trovati insieme, nelle mobilitazioni, nel confronto sul web, nei convegni. Abbiamo indagato, studiato, motivato le nostre affermazioni, le nostre denunce. La scuola non attira, non ha appeal. La dimensione della violazione dei diritti collettivi non rappresenta più un motivo di indignazione, nemmeno tra gli insegnanti. Per questo non ci resta che scrivere, a quattro mani, a 2 teste, per trasformare il senso di impotenza che ci deriva dall’arroganza e dall’ignoranza - che vanno quasi sempre di pari passo- di chi ci governa, non solo in testimonianza, commento, ma documentazione. Qui troverete tutto (i documenti oggettivi) e il contrario di tutto (le affermazioni di politici e media di regime), in uno strano effetto di trasformazione della realtà, che si rifonda quotidianamente a seconda delle esternazioni dell’uno o dell’altro monologante. Affatto autorevoli, ma potenti. Una semplice loro dichiarazione annulla nella percezione collettiva qualsiasi documentazione, la costanza della ragione, la circostanziata disamina di un’altra realtà: quella che non ha subito il re-styling delle loro parole. La tecnologia e la rete ci hanno permesso di inserire immagini. Preparate gastroprotettori e prendetevi un po’ di tempo: c’è tanto da leggere e da guardare. E non abbiamo, quanto a documentazione delle loro bugie, che pescato quasi casualmente nel mare di dichiarazioni trionfalistiche e false che hanno messo in scena. Non fornendo alcuna risposta alle domande del mondo della scuola, che con caparbietà e consapevolezza ha tentato di sottolineare incoerenze e falsità.
Parlano, parlano, parlano.
Stitici negli investimenti tanto quanto prodighi di parole. La rappresentazione
è grottesca tanto è sfacciata e al di fuori di ogni buon gusto. Ma quel
profluvio di parole è il sintomo più evidente dell’arroganza. Non hanno risposto
a nessuno: al
Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, alla Conferenza
Unificata Stato Regioni
sui
licei e sui
professionali; nemmeno al
Consiglio di Stato.
Incassano un consenso immaginario, perché ignorano
programmaticamente qualsiasi tipo di critica, di rilievo, di osservazione si
faccia su quel capolavoro ragionieristico che hanno la faccia tosta di chiamare
riforma della scuola. Il cui movente e, contemporaneamente, il cui obiettivo
sono sfacciatamente i 7 miliardi e mezzo di tagli che Tremonti ha programmato
nella Finanziaria 2009 per il triennio a seguire.
Sono
spavaldi perché sono indubitabilmente forti. Hanno dalla loro numeri in
Parlamento e quella parte ossequiosa dei media che ha deciso di battere i tacchi
e mettersi sull’attenti,
facendo da cassa di risonanza delle loro clamorose bugie. Intanto, nelle
scuole, si continua ad orientare ad orientarsi nei modi più schizofrenici: da
una parte i millantatori di certezze su nuovi ordinamenti non ancora ordinati;
dall’altra coloro che decidono di dire esattamente come stanno le cose,
rischiando di risultare meno “competitivi” sullo “spietato mercato” (sic!)
delle iscrizioni scolastiche. In mezzo genitori e alunni in cerca di spiegazioni
e di certezze che nessuno ha.
Gli strateghi della nuova scuola. E i media compiacenti, che hanno annunciato a gran voce il passaggio di una “riforma” che Gelmini, dopo la giovanilistica e “un sacco moderna” comparsata in YouTube per annunciare le materie dell’esame di Stato, ha definito – con formula quasi automatica, tanto le parole non hanno più alcun senso – ovviamente “epocale”. Immancabile il paragone da parte dell’inventore di Romolo e Remolo («È una legge che ci mette in linea con l´Europa. La prima vera riforma da quella di Gentile») con la riforma Gentile, già scomodata, con parole pressoché identiche, ai tempi di Moratti. La cui “riforma”, in confronto, appare ora quasi un capolavoro (della serie: al peggio non c’è mai limite).
Gelmini ci ammonisce: “Il sistema non
si migliora facendo un ragionamento esclusivamente quantitativo”. Quanta
saggezza in quelle parole! e quanta pressione del prof. Tremonti. Per non tirare
continuamente in ballo il demiurgo di questa catastrofica operazione, hanno
tirato fuori la rassicurante teoria della “semplificazione”, che ben si
inserisce tra una serie di concetti – ordine, rigore, merito – che piacciono
tanto ai Bismarck nostrani. Nessuna riflessione sul fatto che la
“semplificazione” in sé – un altro dei totem linguistici - non necessariamente
rappresenta una risorsa culturalmente significativa. Senza entrare nel merito
della manipolazione strumentale che hanno fatto di questo concetto, la verità
è che – per fornire risposte efficaci – il sistema
dovrebbe essere piuttosto "complessificato". La semplificazione, infatti,
penalizza soprattutto le parti più deboli e fragili del sistema. Quelle in cui
occorre la massima disponibilità ad accogliere esigenze, istanze, bisogni. Nella
semplificazione si sanno muovere bene solo coloro che hanno elementi esterni cui
fare riferimento. La semplificazione è omeostasi, rigidità, impermeabilità. Non
si può pensare, ad esempio, di fornire risposte ad un problema come la
dispersione scolastica semplificando.
Ma
del resto per loro le parole non sono pietre. E riescono ad affermare senza
imbarazzo il contrario della realtà. Come ha fatto Gelmini, che ha addirittura
detto: "Ci hanno accusato di avere cambiato per fare cassa. Niente di più
falso". Punto e basta. Non è vero. E non importa l’ammontare dei tagli; non
importano le 130.000 persone a spasso; non importa la distruzione del biennio unitario, necessaria non in virtù di una qualche valutazione (quale?)
culturalmente significativa, ma semplicemente di un risparmio che ha reso
schizofrenica la distribuzione delle discipline in quegli anni fondamentali per la
realizzazione dell’obbligo scolastico. Che il suggeritore sia lo stratega della
comunicazione Max Bruschi o meno, queste sono le parole di Gelmini:
"Fornire maggiore sistematicità e rigore e coniugare tradizione e innovazione;
razionalizzare i piani di studio, privilegiando la qualità e l'approfondimento
delle materie; caratterizzare accuratamente ciascun percorso liceale e
articolare il primo biennio in alcune discipline comuni, anche al fine di
facilitare l'adempimento dell'obbligo di istruzione e il passaggio tra i vari
percorsi; riconoscere ampio spazio all`autonomia delle istituzioni scolastiche e
infine consentire una più ampia personalizzazione, grazie a quadri orari ridotti
che danno allo studente la possibilità di approfondire e recuperare le carenze".
Parole, parole, parole … che belle parole! si dirà. Peccato che non sia vero.
Andate a guardare con attenzione gli ultimi quadri orario ufficiali di licei,
tecnici e professionali: è
esattamente il contrario. Le parole – semplicemente perché dette – fondano
concetti alternativi a ciò che significano. Pensate all’autonomia: in questa
scuola che sembra snella e flessibile per un preciso progetto culturale (in
realtà per tagliare cattedre), cosa c’è di meglio che parlare di autonomia? Ma,
andando a rovistare tra i rivoli dei regolamenti, diventano chiari il senso che
loro danno alla parola autonomia nonché le loro intenzioni
reali:
i regolamenti prevedono “un
contingente di organico per “potenziare gli insegnamenti obbligatori fermi
restando gli obiettivi finanziari art. 64 della legge 133/08”: cioè la legge
confluita nella Finanziaria che ha tagliato 7.6 miliardi di euro alla scuola.
Interessante, no? Ecco come potremmo sfruttare la flessibilità in autonomia:
immaginando un modo alternativo all’impiego degli insegnanti per fare scuola.
Volontariato? Ubiquità? Virtualità? Percorsi onirici? Rincara la dose
l’intrepido senatore Franco Asciutti,
relatore della riforma sui licei in Senato e capogruppo del Pdl in commissione
cultura:
«L’orario è libero, ogni scuola lo gestirà come crede, significa che ogni
istituto potrà diversificare le materie e le ore attribuite alle singole
materie, aumentando o riducendo gli orari delle discipline. Esiste l’autonomia,
la riforma non vuole impedirla, anzi». Dopo libertà, un’altra parole alla quale
affidiamo significati diversi: autonomia. Che – presso il popolo delle libertà –
diventa anch’essa uno strumento anarchico ad uso di chi può. Un’espressione dal
glorioso passato, specchietto per allodole di un sistema di valori scardinato
dall’abuso proprio di quelle stesse parole.
Rivendicano, indomiti, una propria dignità culturale, a dispetto di qualsiasi
evidenza. Sempre Asciutti, sembra serio quando sostiene: “Non
insegnare un po’ di tutto ma insegnare bene le cose fondamentali. Il nostro
modello è la Finlandia, la scuola migliore d’Europa”: evidentemente non ha mai
dato uno sguardo serio all’organizzazione scolastica in Finlandia, né alle
spese che
quel Paese finalizza all’istruzione, per cui gli proponiamo con i due
link precedenti un'utile
lettura al termine della quale chiunque sia in buona fede avrà rilevato che le
spese italiane sono state fino al 2006 più alte della media europea; ma anche
che quelle sostenute da Regno Unito, Francia e Germania sono state a loro volta
superiori sia nel dato assoluto sia nell'incremento relativo. E la politica di
investimenti in quei Paesi ha pagato in termini di successo formativo e virtuose
implicazioni sociali. Tuttavia la finlandizzazione di facciata buca lo schermo,
fa modernità, fa “informazione”: la
cantilena che tutti conosciamo è che sono
i primi in Europa nell’Ocse Pisa.
Esterofilia di maniera, studio zero: “Dal prossimo anno scolastico avremo scuole che potranno essere comparate a quelle degli altri paesi”, ha detto il Gran Simpatico, tra una battuta su Apicella e il liceo musicale e una sul mancato viaggio di nozze di Gelmini (quando ci si stancherà di vedere mortificata la preoccupazione di tanti lavoratori e di tante famiglie attraverso barzellette da bar dello sport, come accade quotidianamente anche per gravissimi come la crisi economica e la gente che perde lavoro?). Niente di più falso: il trend dei paesi europei – Finlandia in testa – è quello di aumentare progressivamente il tempo-scuola e il tempo nella scuola. Il primo in Italiaviene diminuito complessivamente del 10%; l’altro impedito dal taglio di risorse destinate al finanziamento di attività da svolgersi all’interno della scuole, nonché al pagamento del personale che tiene gli istituti aperti.
Parole parole parole... Saltando da un luogo comune all’altro, selezionati dall’ipertrofia della parola di cui Gelmini è stata affetta durante questa settimana, eccone alcuni irrinunciabili.
“Più inglese”: non è vero, non solo per ciò che riguarda le tradizionali ore di lingua inglese. La bufala più demagogica è “l’introduzione della lingua inglese nel liceo classico per tutti e 5 gli anni”, sorvolando sul fatto che dalla CM 198/92 ad oggi, l’82% dei licei classici nel nostro Paese sfruttano questo modulo. Ma la trovata più geniale e fantasiosa, che troverete sottolineata in neretto sotto tutti i quadri orario di qualsiasi indirizzo è: È previsto l’insegnamento, in lingua straniera, di una disciplina non linguistica (CLIL) compresa nell’area delle attività e degli insegnamenti obbligatori per tutti gli studenti o nell’area degli insegnamenti attivabili dalle istituzioni scolastiche nei limiti del contingente di organico ad esse annualmente assegnato. Che vuol dire che l’insegnante di fisica potrebbe svolgere le proprie lezioni in inglese. Anche un manager meno smaliziato di quella campionessa di strategia organizzativa e gestionale che è il nostro ministro si renderebbe conto che per una così nobile finalità sono necessari fondi. Dei quali, naturalmente, non c’è alcuna traccia. Ma per ragguagli maggiori lasciamo la parola a degli specialisti della materia di nome e di fatto.
Man mano che si scende dal liceo classico in giù, l’entità dei danni, della farragine dell’impianto culturale, la casualità dei quadri disciplinari e degli accorpamenti di materie, restituiscono un senso di sciatteria e di noncuranza, di frettolosa archiviazione delle pratiche che – questi sì – non hanno uguali nella storia della scuola italiana. Con sommaria perentorietà sono state annullate tutte le sperimentazioni, che hanno costituito in molti casi proposte ed esperienze didattico-pedagogiche molto significative, con crescita di professionalità e rilanci e recuperi di ambiti culturali che la scuola incomprensibilmente ignorava. È il caso del liceo delle scienze sociali, convertito in liceo delle scienze umane con una falcidia di ore e accorpamenti in contenitori neutri di quelle discipline che ne hanno caratterizzato la specificità.
Figuriamoci, quindi, quando si transita dai piani alti dell’istruzione liceale ai sottoscala di quella tecnico-professionale. Aumenta lo sfregio, si moltiplica la farragine, si amplifica la razzia di ore, si scompone ulteriormente qualsiasi progetto di area comune e, di conseguenza, qualsiasi significativa attribuzione alla scuola del ruolo emancipante che le compete. Questa istruzione tecnico professionale è esattamente l’antitesi del concetto di “ascensore sociale” che implicitamente la Costituzione attribuisce alla scuola. Diventa, anzi, attraverso la pochezza della proposta e dell’impianto, la sclerotizzazione, l’immobilizzazione delle condizioni di partenza, ovviamente più svantaggiate dal punto di vista socio-economico-culturale. Il professionale, in questo senso, con il suo carico di studenti “difficili” per provenienza e per esperienza scolastica, è dismissione pura del principio di inclusione. Ma anche in questi ambiti la propaganda non ha mancato di millantare credito e mistificare.
Ecco un'altra parola chiave buona per
tutte le stagioni: “il rilancio dei tecnici e dei professionali”. Sullo smantellamento dell’istruzione tecnica e professionale ci siamo già soffermati
altrove. Innanzitutto la riduzione degli orari riguarderà per questo segmento dell’istruzione superiore anche le classi intermedie: diversamente, il bottino promesso a Tremonti non sarebbe stato sufficiente. Insomma, ragazzi che negli anni passati si sono iscritti a un tipo di scuola aderendo a determinati quadri orari e discipline, si troveranno improvvisamente in una situazione differente: stesse discipline con orario drasticamente ridotto. La declinazione degli indirizzi prevista dai regolamenti è talmente farraginosa, imprecisa, scadente, che – per quanto riguarda il proseguimento dopo il biennio - verranno emanati decreti appositi, non ancora definiti. È così che si determineranno sub-indirizzi, con evidente noncuranza per quell’ autonomia tanto evocata e sbandierata. La permanenza a scuola di uno studente dell’ultimo anno di un professionale sarà pari a circa 17 ore settimanali: il resto all’esterno.
L’art. 8 del regolamento dei professionali
recita: verranno stabilite:”specifiche
intese tra Miur, Economia e Regioni per la sperimentazione di nuovi modelli
organizzativi e di gestione degli ist. Prof., anche in relazione all’erogazione
dell’offerta formativa”. Tali intese non sono ancora inesistenti. Ma configurano
un sistema dell’istruzione a
20 marce diverse – tante quante sono le
Regioni –
con profili di uscita differenti, diplomi che varranno ora più ora meno a
seconda della “forza” della regione. In alcune regioni prevarrà il regime di
sussidiarietà, in altre – là dove sono affermate e potenti – le agenzie
formative. Il de profundis dell’unitarietà del sistema scolastico nazionale.
E ancora un evergreen – “laboratorio e didattica laboratoriale”, che fa scuola consapevole, buone pratiche. Nei regolamenti abbiamo addirittura una declinazione dei prodigi della didattica laboratoriale: “ricostruzione, integrazione e conservazione delle conoscenze; osservazione e scoperta di aspetti culturali; potenziamento delle strutture sintattiche e logiche delle materie di insegnamento”. In una continua ambiguità tra didattica laboratoriale e laboratorio, che dimostra una scarsa dimestichezza con l’argomento, i regolamenti non solo non prevedono un solo euro per incentivare la prima, ma tagliano decisamente le ore di laboratorio. E dove? Nei tecnici e professionali (-25%) dove si dichiara che quella didattica e quegli insegnamenti sono “strategici”. Del resto, quanto stia a cuore la cultura dei circa 1 milione e mezzo di studenti dell’istruzione tecnico professionale sta scritto nero su bianco, sempre nei regolamenti. Che cosa separa i ragazzi dei licei da quelli dell’istruzione tecnico-professionale? Semplice: i primi frequenteranno una scuola che ha l’obiettivo di “fornire ai giovani gli strumenti culturali e metodologici per una comprensione approfondita della realtà”; gli altri non potranno che ambire ad obiettivi di apprendimento declinati in “competenze spendibili”. Che vuol dire: i primi a sapere, gli altri a saper fare. Alla faccia della riforma che "segna un passo fondamentale verso la modernizzazione del sistema scolastico italiano". Del resto, chi è socialmente selezionato per il lavoro perché dovrebbe avere bisogno di strumenti culturali per decodificare la realtà?
Ridiamo per non piangere. Nel video che richiamiamo qui sotto
il premier ci annunciava - in campagna elettorale - addirittura una scuola che
insegnerà “due lingue madri”: temiamo non si tratti della solita battuta. E ci
prometteva di aver inserito e mantenuto la scuola “tra le priorità del nostro
governo”. Vediamo i primi risultati: il nostro proposito è pertanto quello di
continuare a monitorare puntualmente la situazione, a cercare prove della loro
demagogia da quattro soldi, a creare un archivio del cumulo di bugie sotto il
quale ci stanno tentando di sotterrarci. Ma sotto il quale non abbiamo
intenzione di soccombere.