Cosa resterà degli
anni della Moratti ? di Andrea Bagni
Che cosa resterà alla fine della Moratti,
quali cicatrici quanta ruggine dentro e fuori le scuole?
Quello che è accaduto nella scuola elementare e nella media è stato sotto gli occhi di
tutti, per quanto le resistenze non l'abbiano ancora fatto andare a regime: dal
tempo pieno al tempo riempito secondo i gusti del cliente (la chiamano personalizzazione);
dalla collaborazione fra docenti al tutor sovra-ordinato gerarchicamente; dal fare
creativo lavori di tutti i generi al depositarsi dei propri crediti nel port-folio come un
catalogo di rappresentanza da esibire... Ma lì la scuola è stata toccata sul vivo ed è
stata viva. Inoltre la megamacchina scolastica ci mette del suo a rallentare tutti i
processi "innovativi". Come dicono i sindacalisti, la partita non è chiusa.
Qualcosa del genere era accaduta alle superiori con il concorsone, intervento
misurativo e classificatorio di un osservatore buropedagogico nella sfera intima
della bio-scuola; rifiutato credo non solo per un riflesso corporativo - sebbene qualcosa
di analogo rivolto agli studenti per l'esame di stato non abbia prodotto lo stesso sdegno:
punti e punticini per misurare quasi l'intera vita di ragazze e ragazzi (volontariato che
dà crediti riconosciuti alla fine) sono stati una microfisica del potere accettata e
gestiti senza fiatare. Ma adesso?
La mia tesi è un po' paradossale e nasce da un osservatorio piuttosto ristretto, ma penso
che almeno alle superiori ciò che rischia dei restare della Moratti (comunque vadano le
future elezioni) è soprattutto ciò che non si è realizzato. E tuttavia ha prodotto e
rafforzato una sorta di senso comune, un misto fra patetico disincanto e banale astuzia
della sopravvivenza. Una specie di "privatizzazione partecipata" del fare
scuola, anzi del fare nella scuola.
Insegno in un istituto tecnico che negli ultimi anni berlusconiani non ha visto quasi
nessun mutamento significativo negli ordinamenti generali. Anzi ne ha vissuto uno
clamoroso ma passato in triste silenzio: la saturazione di tutte le cattedre a 18 ore. Per
molte e molti significa aumento del lavoro a parità di stipendio, fine di qualunque
continuità didattica. A volte il doppio degli studenti da seguire e valutare - che
chissà come saranno seguiti e valutati: come in batterie di allevamento, pandemia alla
rovescia da umani a polli. Ma non è successo nulla. Mugugni, nessuna vera protesta. Era
tutto nelle finanziarie, dunque una specie di maledizione divina o disastro naturale.
Comunque molti dicono che non è arrivata la riforma ed in un certo senso hanno ragione.
Hanno ragione?
Nel mio istituto da due anni abbiamo la partita iva, un commercialista, facciamo campagne
pubblicitarie, associazioni di scopo e associazione temporanee d'impresa, cerchiamo
sponsor e vendiamo i nostri corsi-prodotti sul mercato. E per il pof (cioè l'offerta da
mettere in vetrina di progetti e progettini aggiuntivi vari) cerchiamo finanziamenti
presso i "soggetti economici" della città: ipermercati, hard-discount,
meganegozi di sport, coop, associazioni culturali tipo lions eccetera. Dicono che non ci
chiederanno niente in cambio, che sono interessati alla qualità di una scuola che forma
futuri tecnici. Come no. In fondo se lo stato siamo noi, le scuole sempre sono finanziate
con risorse dei privati. Le nostre. Ma allora perché non abolire direttamente il sistema
fiscale e tornare al vecchio evergetismo? Chi ha da dare dia e gliene saremo grati; lo
voteremo alle elezioni. Forse non chiedono niente in cambio di concreto, da mettere nero
su bianco. Chiedono davvero cultura, cioè chiedono l'anima. Parlare di economia etica,
magari esibendo il logo della banca o di consumo critico sotto la pubblicità del
supermercato. E sarà il messaggio forte dell'unica realtà possibile. Che arriva più
delle parole dalle cattedre.
Ormai ogni insegnante ha due voci nella sua busta-paga: una fissa contrattuale (comunque
la si guardi, miserabile), un'altra flessibile che gli viene dal feudo che si è costruito
nella moderna istituzione aziendale; dal suo progetto-nicchia "beneficium" del
dirigente cui è legato con vincolo personale. Si chiama staff ma assomiglia assai
all'antico vassallaggio.
E però secondo me il fondo più velenoso non passato ma depositato (temo) nella
grammatica profonda dell'idea di scuola anche della "sinistra" è l'idea della
separazione precoce dei percorsi scolastici. Il classismo tanto denunciato nelle
dichiarazioni. Licei da una parte, formazione-istruzione professionale (e apprendistato)
dall'altra. Non è ancora passata la riforma alle superiori, è stata rimandata. L'unione
l'abrogherà. Non è passata?, l'abrogherà?
Quando sento i discorsi contro la Moratti di Andrea Ranieri (ds scuola) o di certi
assessori regionali del centrosinistra mi cadono le braccia. Sono contro la Moratti come i
miei colleghi che contestano la riforma e il berlusconismo, ma poi votano tutti i progetti
di integrazione con la formazione professionale che gli tolgono quelli col
"disagio" dalle classi. Lo fanno per il loro bene naturalmente, come dice anche
donna Letizia, non sono fatti per i libri, hanno bisogno di un altro tipo di istruzione,
è un recupero non un'esclusione (ed i ragazzi sono contenti: la scuola li ha convinti che
non ce la faranno mai). Vanno a frequentare corsi dove dopo tre anni prenderanno una
qualifica buona per il cantiere edile, per fare il carpentiere o il verniciatore o
l'estetista. Ma garantiscono che saranno corsi di pari valore culturale: d'altra parte
vorremo mica proprio noi di sinistra disprezzare il lavoro?, siamo ancora gentiliani e
aristocratici allora... Sì io lo vorrei un po' disprezzare il lavoro. Se la formazione è
addestramento a quella roba che conosciamo, dalla vecchia catena al nuovo
call-center, allora sarà un lavoro da servi, di esecuzione subalterna e modernamente
flessibile: nemmeno più ingranaggio, bit leggero che rimbalza da un posto di lavoro a un
altro. Magari convinto di essere imprenditore di se stesso. Adesso per fortuna (ma è un
merito del movimento) si riparla da più parti di biennio unitario, però temo per
qualcuno sia ancora sinonimo di integrato. Fare stare i diversi percorsi sotto lo
stesso tetto (o nello stesso campus), e ogni tanto nella stessa classe. Come se
fosse meno esclusione per chi è destinato al vicolo corto, attraversare ogni tanto il
viale dei giardini. Nelle teste e nei cuori di ragazze ragazzi famiglie e insegnanti, è
tutto già programmato per un'altra "terminalità" (come si dice), da sempre
indicata ai "sufficienti" della scuola media o ai bocciati degli altri
corsi. Le attese e le rassegnazioni fanno già la scuola, sono previsioni che si
autoavverano. Ci sarà qualcuno che pensa davvero che le passerelle faranno passare
dall'apprendistato e dalla formazione professionale ai licei? Ma andiamo... I passaggi in
strutture separate e verticali sono discese dai classici agli scientifici e ai tecnici; e
dai tecnici ai professionali. Lo sa qualunque studente. Ce l'ha spesso scritto sulla
pelle. Domandate.
La via non è fare una scuola adatta a quelli-che-non-sono-fatti-per-studiare. È fare
un'altra scuola. Meno libresca e quantitativa; meno rigida, retorica e burocratica. Ma non
meno di ricerca, di teoria e di pratica; di relazioni vissute ed elaborazione comune. Non
meno di cittadinanza e uguaglianza. Come era scritto su un muro parigino del maggio
francese, costruire l'eguaglianza è liberare le differenze. Ascoltare domande e desideri.
Certo adesso c'è parecchio da fare.
Mi sembra diventata un luogo triste la scuola specie quella degli adulti. Depressi
e deprimenti, annoiati e noiosi.
Forse ci vorrebbe un periodo sabbatico, della scuola dagli esperti di scuola. Da quelli
che "ci vuole una Grande Riforma epocale", come dai "bastano pochi ritocchi
amministrativi". Vorrei un segnale forte che si può cambiare, che c'è spazio e
tempo per.
E poi che ci perdessero un po' di vista.
Sarà comunque un casino perché lo è oggi fra le generazioni. Siamo tutte e tutti
come "il sopravvissuto" del romanzo di Antonio Scurati. Ragazze e ragazzi dai
codici segreti, che si formano un po' dovunque e la scuola l'attraversano con un misto di
rabbia rancore bisogno e nostalgia; nostalgia del presente, mentre ancora sono qui: come
un senso perduto, un significato smarrito ma importante. Gli insegnanti un po' giapponesi
nella foresta che non demordono pur non sapendo dove sono e quando, un po' in alto a
scaricare bombe atomiche per tornare ai loro salottini.
Ma il prof di Scurati scrive sul suo diario che anche se non si sa più garantire la
guarigione, o il "successo formativo", si può comunque continuare con pazienza
a curare.
Non ce l'ho del tutto chiaro, ma mi sembra una bella cosa questa dell'avere comunque cura.
Attenzione. Lasciare perdere i grandi fini, le terminalità, gli investimenti sul futuro
della nazione. Per un po' almeno cercare di stare nel casino dei saperi e dei giovani.
Esserci. Essere presenti, accompagnare nel percorso. Insegnare camminando. E vedere che
accade. Anche a noi.
Non abbiamo da perdere che le nostre solitudini. E i loro call-center.