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Direzione didattica di
Pavone Canavese |
10.11.2002
Il
partito trasversale dell'istruzione. Troppi bidelli e troppo Gentile
Nel consenso generale, gli occupati aumentano e i ministri
riformatori cadono
di Giovanni Cominelli
da "Il Riformista" - 7 novembre 2002
Sui mali della scuola
italiana esiste una letteratura sterminata. Il problema principale, comunque, è
l'eccessiva selezione che avviene nel corso del tempo: se nella scuola elementare,
infatti, entra un fiume di ragazzi, all'uscita della scuola media superiore esso è già
diventato un ruscello, mentre all'Università rimangono soltanto quattro gocce. In ogni
caso si accumulano in biblioteca gli scaffali delle denunce, degli sdegni, delle
invettive.
Quasi altrettanto esteso è il catalogo dei riformismi scolastici da compiere: quelli
dall'alto, quelli dal basso, quelli a mosaico, quelli organici, quelli maggioritari,
quelli bipartisan, fino ad arrivare a quelli onirici...
In realtà, siamo di fronte a una crisi mondiale dei sistemi educativi, dagli Stati Uniti
alla Nuova Zelanda, passando per l'Europa. Il rapporto Ocse «Education at Glance 2002»,
fresco di stampa, fa il punto sui problemi e sulle soluzioni. Benché ciascun paese si
muova a partire dalla propria storia, i binari di soluzione paiono largamente condivisi e
obbligati. Il primo passo da compiere riguarda le riforme istituzionali: autonomie;
decentramento federale; riduzione o abolizione dei ministeri centrali; pubblico statale e
pubblico privato.
Il secondo percorso da compiere è sulle riforme ordinamentali: più canali formativi di
pari valore culturale, reciprocamente collegati da passerelle e long life learning. Ci
sono poi da realizzare le riforme culturali - centralità del piano di studi personale;
nucleo essenziale di lingua primaria, di lingue straniere, di matematica; scienze e
educazione alla cittadinanza, informatica - e quelle del personale: professionalizzazione
e valorizzazione sociale; differenziazione delle carriere e degli stipendi; specifiche e
rinnovate forme di reclutamento.
Più facile a dirsi che a farsi: le analisi sono chiare, le soluzioni limpide, eppure
sulla via delle riforme sono caduti, almeno qui in Europa, nel corso degli ultimi anni,
Claude Allègre in Francia, Luigi Berlinguer in Italia, Estelle Morris in Gran Bretagna.
Quanto a Letizia Moratti, pare camminare contro vento. Mentre Bush, in accordo con
Clinton, ha fatto passare in poche settimane una riforma significativamente intitolata
«No child left behind», scritta su una pagina e mezza, da noi la riforma giace da sei
mesi alle Camere. Soltanto da ieri è in discussione al Senato, ed è già stata criticata
da Luigi Berlinguer e da Albertina Soliani. L'accusa rivolta al titolare del ministero di
viale Trastevere è quella di progettare una scuola «privatista, aziendalista,
individualista». Curiosamente, si tratta delle stesse critiche che la Casa delle libertà
mosse contro l'allora ministro della Pubblica istruzione, l'immemore e incauto Berlinguer.
In verità, tra i due disegni non ci sono differenze rilevanti, se non quelle che le
opposte propagande inventano per autoalimentarsi.
Restano da chiarire le motivazioni della drammatica lentezza riformistica europea e, in
particolare, italiana. Da noi hanno sicuramente un peso importante le forze
controriformiste, individuabili nei sindacati della scuola e le loro forze politiche di
riferimento, presenti in ambedue gli schieramenti. Grazie a loro, la scuola italiana è
divenuta sempre più il luogo di scarico della disoccupazione intellettuale. basti pensare
che mentre in Europa c'è un insegnante ogni 17 alunni, dalle nostre parti il rapporto è
di uno su 10,5. Facendo i conti, parliamo di 250 mila stipendi in più. E non per questo
la qualità migliora. Anzi, secondo le ultime indagini internazionali, siamo soltanto al
25° posto su 32 paesi esaminati.
Clamoroso è, poi, il caso degli insegnanti di sostegno: in pochi anni i docenti
«specializzati» sono passati da 50 mila a 70 mila. Il meccanismo è semplice: per
allargare i cordoni, sono stati considerati disabili anche i ragazzi iperattivi.
Senza considerare, inoltre, i bidelli. Erano 70 mila; Berlinguer li ha fatti passare sotto
lo scudo protettivo dello Stato. Sono miracolosamente arrivati, in soli tre anni, al
numero record di 175.525.
Sulla base di questi dati, appare chiaro che ai sindacati non interessa la qualità della
scuola, bensì la quantità dell'occupazione e, quindi, delle tessere. Ormai, siamo alla
"bidellizzazione" dei sindacati scolastici. Tutto ciò mentre si urla in difesa
della scuola pubblica.
Altra forza della controriforma è l'apparato amministrativo ministeriale, centrale e
periferico. Da anni opera in sinergia con il sindacato, alle spalle dei ministri di turno.
L'intento comune è quello di moltiplicare i posti di lavoro, complicare procedure,
centralizzare decisioni, non verificare la qualità.
La terza motivazione della lentezza riformistica italiana è da individuare in Giovanni
Gentile, morto ma non sepolto, soprattutto dalla sinistra. Che è rimasta licealista e
perciò classista, nonostante la sventolata retorica sulla scuola di massa. Nella Germania
di fine Ottocento, il movimento operaio socialdemocratico impose le ragioni dell'Arbeit a
quelle del monopolio della Kultur della grande scuola filologica tedesca. Donde un asse
formativo, accanto al Gymmnasium, fatto di scienza, professioni, tecniche che è ancora
alla base dello sviluppo tecnico-scientifico e economico della Germania. In Italia, nella
disputa del secondo dopoguerra tra il comunista Concetto Marchesi, filo-Gentile, e il
comunista milanese Antonio Banfi, filo-Dewey prevalse il primo, con l'appoggio di
Togliatti.
In conclusione, esiste un blocco sociale corporativo molto esteso, a base sindacale, ma
appoggiata da una potente e trasversale rappresentanza politica, che considera le riforme
come una minaccia. Ma ancora più resistente è il blocco mentale e culturale di gran
parte della politica, della cultura, dell'accademia, del giornalismo, che si è formato
sulla cultura pedagogica e formativa degli anni Venti del secolo scorso. Questo blocco ha
impedito e rallenta il passaggio dalla scuola di élite alla scuola di massa e di qualità
individuale.
La scuola e l'Università non hanno digerito la pretesa di milioni di individui
all'istruzione di qualità. Con il risultato che, salvo che per gli anni Cinquanta e
Sessanta, queste istituzioni, lungi dall'essere agenti di mobilità sociale e di
innovazione culturale, funzionano come luoghi di riproduzione della struttura corporativa,
classista, socialmente iniqua del Paese.