19.05.2014
Le prove
INVALSI fanno paura?
di Antonio Valentino
A leggere le cronache giornalistiche
sulle manifestazioni collegate alle prove INVALSI, non c’è da essere
sorpresi più di tanto. Gli interrogativi che i numerosi episodi di
contestazione sollevano, moltiplicandosi, spingono però a qualche
approfondimento. Non ne abbiamo letti tantissimi sui giornali, essendo
prevalsa una rappresentazione cronachistica in cui era più importante la
nota di colore che non le domande, per alcuni aspetti preoccupanti, che le
vicende raccontate ponevano.
Tra l’altro, tali manifestazioni si ripetono ormai da diversi anni
puntualmente; e ogni anno si registra una escalation rispetto
all’anno precedente.
Nei i giorni scorsi hanno fatto parlare di sé soprattutto i giovani di
Milano, della Rete studenti e del Fronte della Gioventù (quest’anno,
“comunista”) - che addirittura hanno occupato un luogo simbolo come il
Teatro Lirico dove hanno esposto grandi striscioni a spray; ma anche di
molte scuole superiori - dalla Capitale, a Napoli, a Lecce, a Torino, nel
Veneto. … Tutti al grido di slogan, qualcuno più grande di loro, che però
sembrava comunicare altro.
Una protesta comunque vasta. Si parla di 4 scuole su 5 a livello nazionale,
anche se mancano dati certi al riguardo e i conteggi avrebbero bisogno di
chiarimenti.
Sempre a leggere le cronache dei giorni scorsi, sembra di intuire che, nelle
motivazioni degli studenti e dei docenti protestatari, i mali della scuola
italiana si concentrano tutti in queste prove nazionali.
Non abbiamo assistito a manifestazioni altrettanto eclatanti e diffuse per
fatti e situazioni non propriamente trascurabili di questi anni. Cito a
caso:
il fenomeno delle reggenze, che ha massacrato negli ultimi 6-7 anni le nostre scuole,
gli ambienti spesso degradati e fatiscenti di tanti Istituti scolastici, che continuano a trasmettere ai nostri giovani messaggi – diciamo: contradditori? - sull’importanza dell’istruzione nel nostro paese,
l’assenza di vere misure di sostegno e di accompagnamento per dare alle Indicazioni nazionali, più o meno recenti, gambe minimamente solide su contenuti e modi di insegnamento e su nuovi modelli organizzativi della didattica ,
il modo – indigesto e nocivo, si potrà dire? - con cui sono stati organizzati i PAS (i percorsi speciali per gli insegnanti precari sprovvisti di abilitazione),
i corsi di formazione per l’anno di prova - destinatari: i docenti immessi in ruolo con l’ultimo concorso -; insaccati nelle ultime settimane di maggio, praticamente ad anno di prova concluso. Sceneggiata che si perpetua negli anni. Ma non se ne parla.
Neanche i tagli spesso
sconclusionati e comunque spropositati e rovinosi degli anni scorsi hanno
avuto contestazioni così eclatanti.
Niente sembra, a leggere fatti come questi (che sono un’antologia minima),
ci scandalizza più veramente.
Le prove INVALSI invece scatenano il putiferio in molto docenti, in
moltissimi studenti, in tanti genitori (sì, genitori) che, convintissimi
della natura malefica delle prove dei giorni scorsi per i loro figli, li
hanno trattenuti a casa.
È evidente che c’è qualcosa almeno di strano in comportamenti così
squilibrati.
Ovviamente sono molti e spesso
solidi i motivi per cui si parla male dei testi INVALSI (di come sono
costruiti, di come sono somministrati; dei riflessi negativi sulla
didattica; su alcune tendenze presenti in questo Istituto circa il loro
uso, …).
Eppure, c’è qualcosa che non quadra.
I dati disponibili ci dicono che gli insegnanti entrati in sciopero sono
prevalentemente precari. E già questo è un dato molto significativo.
Il fenomeno del precariato, per la consistenza, per i disagi che
provoca ai docenti e alle scuole (e al Paese), è una delle colpe più pesanti
della nostra classe dirigente, quale che siano le responsabilità delle
specifiche istituzioni coinvolte.
Questo richiamo ci porta a pensare che le manifestazioni contro le prove
INVALSI non è difficile leggerle anche come segnali di un disagio di
parti non piccole del corpo docente che, non avendo altri canali per
manifestarsi, si riversa su questa scadenza annuale.
Ma anche l’ostilità diffusa verso di esse che va oltre gli insegnanti
precari – e che si percepisce un po’ “sorda” e sottotraccia - sembra
anch’essa segnale di allarme verso un sistema che ha perso la sua bussola,
dove non succede niente o quel che succede è acqua che passa sotto i ponti.
Ed è, visibilmente, anche il segnale di una scuola che sembra avere
paura di tutto quello che significa valutazione del proprio operato.
Solo una fetta modesta di scuole, ad esempio, prende visione dei propri
risultati; e meno ancora sono quelle che ne parlano e ne discutono, anche
per sola curiosità.
Cosa ben strana ove si consideri che la valutazione è uno degli
“ingredienti” più forti del nostro modello organizzativo.
Questa ostilità da parte delle componenti adulte verso le prove in questione
ha pertanto radici più profonde e estese. Trasmessa agli studenti, diventa
il detonatore del loro specifico malessere che abbiamo visto esplodere in
questi giorni e che, solo a uno sguardo superficiale, piò apparire
imputabile, almeno in misura prevalente, alle prove INVALSI.
E allora?
Se hanno senso queste considerazioni, si tratta allora di capire cosa si
può fare per invertire le tendenze in atto; semmai circoscrivendo l’analisi
al solo problema da cui siamo partiti, quello delle prove INVALSI e della
valutazione, che sappiamo comunque essere - il problema - parte di una
questione più generale che riguarda l’intero sistema di istruzione.
Si richiama qui, tanto per non ripeterci, che negare l’importanza delle
verifiche e della valutazione significa negarsi strumenti di conoscenza e di
miglioramento di quello che si fa e anche, spesso, di quello che si è.
La paura, poi, non è mai una buona consigliera.
Si tratta quindi di liberare la valutazione, per un verso, da
identificazioni improprie che non aiutano a individuare il problema (prove
INVALSI in primo luogo, ma non solo; anche valutazione come strumento di
potere ecc.) e da strumentalizzazioni rischiose; per esempio, attaccare
l’INVALSI per attaccare e impedire ogni forma di valutazione del lavoro
scolastico (e dei suoi risultati) e del funzionamento delle scuole; per
l’altro, liberarla da logiche punitive e classificatorie
/gerarchizzanti (scuole di serie A, di serie B; prime in classifica ….,
ultime). Che non aiutano. Anzi creano ostilità, soprattutto quando si
manifestano in un sistema non sempre affidabile.
Non sarebbe il caso allora, anche alla luce delle manifestazioni dei giorni
scarsi e del clima che c’è in molte scuole rispetto all’INVALSI, di voltar
pagina e cominciare a scriverne una nuova?
C’è una nuova Presidente: persona preparata e attenta, estranea alla
precedente gestione, ma comunque giustamente convinta che di misurazione e
valutazione la scuola e l’insieme del sistema formativo hanno bisogno; e
consapevole che il lavoro svolto dall’Istituto in questi anni non è di
quelli che si possa buttare alle ortiche (non poche sono infatti le scuole
nel nostro Paese che sono cresciute, grazie alle prove INVALSI, non solo
sui temi della valutazione, ma anche su quelli che dalla valutazione
prendono indicazioni e stimoli per una didattica avanzata).
È forse - la nuova Presidente - la persona più adatta per scriverla - questa
pagina nuova - con le risorse più aperte e preziose di cui l’Istituto
dispone e con l’orecchio attento a quanto in proposito viene dalle scuole.
Non credo che ci sia bisogno di una sospensione di queste prove
(praticamente, di rinviarle a tempo indeterminato), come qualcuno propone.
Le prossime tra l’altro si terranno fra un anno. Si può allora cominciare da
subito,
Chiarendo tutti gli equivoci che si sono addensati su queste prove?
Liberandole da qualche disegno rozzo e rovinoso, che pure si è tentato, con modalità più o meno camuffate, di mettere in atto in stagioni non molto lontane (il nome della Gelmini dice qualcosa?)?
Ammettendo errori ed esplicitando anche il lavoro fatto?
Aprendo una interlocuzione con le scuole, che chiarisca natura e senso dell’Istituto dentro il Sistema nazionale di valutazione e precisi i raddrizzamenti di tiro che si intendono apportare?
L’obiettivo preliminare, funzionale
in ogni caso al lavoro dell’INVALSI - e fondamentale per aprire un fase
nuova -, resta sempre la costruzione di una cultura dell’autovalutazione e
della valutazione; sia come fattore di miglioramento degli apprendimenti (e
quindi della qualità professionale dei docenti) e dei contesti organizzativi
(e della loro valenza educativa), sia come condizione per rilevazioni
nazionali sensate e utili (alle scuole e ai decisori politici).
Costruzione che ha bisogno di gesti concreti, in termini di ascolto,
formazione e sostegno, come vie maestre.
Si abbandoni, ad esempio, preliminarmente - come primo gesto chiarificatore
- l’idea maldestra di legare gli esiti delle prove alla valutazione delle
scuole e degli insegnanti.
Impossibile tra l’altro, visto che le rilevazioni riguardano, ad oggi, due
soli insegnamenti e competenze collegabili.
Se veramente si vuole premiare l’impegno sulla professionalità, la
disponibilità, il lavoro ben fatto dei docenti e i risultati ad esso
riconducibili, si pensi piuttosto ad una progressione di carriera fondata
su un sistema di crediti che riconosca, valorizzi e incentivi le funzioni
proprie e “aggiuntive” e si concretizzi in livelli e posizioni stipendiali
appetibili.
O no?