17.11.2014
Lo specchio
e la fotografia: a proposito di autovalutazione
di Franco De Anna
La cultura sociale del
nostro Paese è singolarmente percorsa da un costrutto di lutto e mancanza.
Il Risorgimento è una “rivoluzione mancata”; la Vittoria è “mutilata”, la
Resistenza è “tradita”; la Costituzione è “irrealizzata”….
E’ un costrutto che in parte proviene da una (datata) riflessione storica,
ma viene rielaborato nel senso comune dalla vulgata della riproduzione
politica e dell’informazione.
Non è questa la sede per approfondire, ma certo questo costrutto sembra
proiettare l’intera collettività in una dimensione di irrealizzato che,
scontando il riflesso del lutto e dell’abbandono della memoria dolorosa,
consente alla cultura politica un paio (almeno) di abusati strumenti di
comunicazione di massa. Il primo è il lusso di predicare come sempre nuove
(di moda il termine “epocale”) ipotesi riformatrici in realtà già esplorate
e di cui si tralascia sia la memoria, sia la necessità di valutarne
rigorosamente i fallimenti e le loro ragioni.
Ne viene favorito un opportunismo implicito, variamente interpretato, nei
caratteri del “nuovismo”.
Il secondo vantaggio politico di tale opportunistica elaborazione è che
“tutti sono riformatori”; anzi, quale che sia il colore politico ciascuno
proclama la propria autenticità e radicalità riformistica.
In questo paese, sostanzialmente e prevalentemente conservatore, nessuno (
pochissimi) dichiara di esserlo.
Potremmo offrire al lacaniano Recalcati, che pare interessato alla scuola,
il destro per una riflessione psicanalitica sul rapporto tra tale paradigma
della mancanza e dell’irrealizzato, e il fatto che la psicologia collettiva
del nostro Paese non abbia mai rielaborato la “patria” (il padre) ma la sua
consistenza collettiva sia da “matria”. Il “collettivo nazionale” è in
realtà “mai nato”. Un cordone ombelicale mai reciso. (Una dannazione ed una
salvezza congiuntamente, operanti nelle fasi più critiche della storia
nazionale: ci aiutò ad uscire dalla “morte della patria” nel 1943; ci
impedisce di costruire un assennato sistema di welfare di cittadinanza,
“paterno e non materno”))
Al precedente elenco dei lutti storici potremmo aggiungere (si parva
licet…) l’Autonomia delle Istituzioni scolastiche che è congiuntamente
normata da strumenti di legge (dalla 59/97 al Regolamento) e richiamata
della Costituzione (titolo V , art. 117).
Il pensiero si innesca
inevitabilmente nella lettura comparata de “La buona scuola” laddove parla
di autonomia e valutazione, come coppia concettuale fondante della filosofia
valutativa proposta, e della Direttiva Ministeriale sulla valutazione, la
circolare applicativa corrispondente, i caratteri del protocollo
autovalutativo che si preannunciano e in parte sono stati sperimentati.
La filosofia enunciata ne “La buona scuola” richiama esplicitamente
l’autonomia come valore fondante del “sistema di istruzione”. A tale valore
connette organicamente (e correttamente) le problematiche della
responsabilità e della valutazione e quella del sistema di governance
(sia pure con il limite del considerare la governance interna: organi
collegiali, Dirigenza, partecipazione ecc.. ma non la governance
esterna. Si tenga conto del “sintomo”, costituito da tale assenza..).
Sembrerebbe cioè riprendere gli elementi di un disegno radicalmente
innovativo di destrutturazione e ricostruzione del sistema di istruzione,
tentato all’inizio del secolo: il passaggio da un modello piramidale
assimilato alla pubblica amministrazione e governato dal diritto
amministrativo (produzione di atti…) e percorso da un flusso di comando
algoritmico dal centro alla periferia, ad un modello decentrato, ma
soprattutto caratterizzato dalla pluralità di “produttori del servizio”
operanti in rapporto con gli “utenti” (i cittadini, le comunità locali..),
con autonomia operativa e dunque con una duplice responsabilità. In primo
luogo verso i cittadini portatori non solo di “interessi” ma (soprattutto)
di diritti (istruzione come diritto di cittadinanza). E in secondo luogo
verso lo Stato come garante sia della fruizione di quel diritto, sia della
“uguaglianza” dei cittadini rispetto ad essa.
Quel “progetto” aveva riferimenti sia nazionali che internazionali di grande portata: dal decadere dei tradizionali modelli di stato sociale (la crisi fiscale dello Stato che investiva tutto l’Occidente), al nodo specifico costituito dalla necessità della riforma della Pubblica Amministrazione nazionale. Elementi portanti di quella ipotesi riformatrice sono (sarebbero) i seguenti.
Il passaggio dallo Stato “produttore” diretto di servizi a soggetto “regolatore” e “finanziatore” del servizio affidato a una pluralità di “produttori” (le scuole autonome). Da producer a provider. (visto che qualcuno ama il lessico anglosassone, tento di abilitarmi all’ascolto..). Nella versione “di destra” e “privatistica” da producer a customer ..(vedi ispirazioni politiche Regione Lombardia. Il soggetto pubblico come “committente” di servizi offerti alla popolazione-cliente).
Compito dello Stato (garante dei diritti di cittadinanza) diviene (diverrebbe) dunque quello di definire le “prestazioni essenziali” dovute a tutti i cittadini. Tale repertorio è di natura “politica e istituzionale” (i diritti) ma anche tecnico e scientifica (il contenuto delle prestazioni e i relativi protocolli validati tecnicamente e scientificamente). Vi sono in proposito sentenze della Corte Costituzionale (riferite al Servizio Sanitario Nazionale, ma con buon isomorfismo rispetto alla produzione di servizi alla persona. Non tocca esclusivamente alla politica definire il repertorio ma occorre il contributo della ricerca tecnico scientifica ed il costante adeguamento ad essa).
Il repertorio delle
prestazioni essenziali ha un riflesso anche sul profilo dei costi e dei
finanziamenti. I “costi standard” sono infatti il corrispettivo
economico delle prestazioni essenziali (la cui determinazione richiede
qualche cosa di più che individuare la media dei costi).
I costi standard rappresentano il riferimento, l’ancoraggio del
meccanismo di finanziamento pubblico, dallo Stato alla pluralità dei
produttori autonomi del servizio. Non “l’unico” criterio di
finanziamento (si pensi al valore della solidarietà, della compensazione
delle differenze e delle diseguaglianze..) ma la “base” del meccanismo
di finanziamento pubblico. La combinazione tra finanziamento a costi
standard, autonomia organizzativa e produttiva dei servizi, padronanza
delle risorse economiche , umane e organizzative, verificata dalla
garanzia della qualità del prodotto, rappresenta (rappresenterebbe) la
garanzia di una ricerca costante della “migliore efficacia”
(ottimizzazione costi/risultati), supportata, oltre che dall’etica
pubblica, proprio dalla convenienza della padronanza delle risorse. (se
la produzione di un servizio pubblico, a parità di qualità erogata,
avviene costi inferiori a quelli standard, si recuperano all’autonomia
risorse per lo sviluppo innovativo o per la incentivazione del
personale..)
La decostruzione del modello amministrativo tradizionale mette capo ad un sistema di governance (governo misto) che coinvolge nella determinazione della strategia pubblica e nella sua realizzazione una pluralità di soggetti e responsabilità (nel sistema di istruzione lo Stato e le Regioni, titolari di podestà legislativa e le istituzioni scolastiche autonome titolari di responsabilià “produttiva”, il sistema delle autonomie locali, legato a quello regionale con responsabilità gestionali strutturali, dall’edilizia ai servizi). I vincolo delle prestazioni essenziali, dei costi standard, dei livelli di qualità (valutazione) sono (dovrebbero) comuni e condivisi da tutti i titolari della governance, (Ehm… che dire dei lavori della Conferenza Unificata sui temi scolastici?!)
Un corollario di
quel modello è rappresentato dal fatto che la preoccupazione della
“tenuta sistemica” (appropriata ai compito dello Stato) deve esprimersi
nella capacità di definire con accuratezza i “vincoli essenziali” cui
sono tenuti i produttori, in termini di risultati e di rendicontazione,
e non (come da modello tradizionale) le specifiche dei processi di
produzione.
Ai “produttori” vanno indicati i 5 o 6 elementi che “non possono non
essere” nelle prestazioni e nei prodotti realizzati, a garanzia
della comparabilità di sistema. Sui processi concreti va invece
lasciata, ma anche promossa, incentivata, la padronanza e la
responsabilità produttiva della scuola autonoma.
Il carattere dell’operare dello Stato e della Pubblica Amministrazione, si sposta (si sarebbe spostato) dunque dalle veicolazione del comando amministrativo alla predisposizione di “servizi” (ricerca, documentazione, elaborazione dei repertori di prestazioni essenziali, meccanismi di finanziamento coerenti e promotori di eguaglianza) e, conseguentemente, del servizio di valutazione a garanzia della qualità del “prodotto pubblico”. Dal comando amministrativo alla produzione di services. Una “rivoluzione” del paradigma amministrativo classico, e del modo di organizzare i servizi del welfare.
In questo senso,
l’affermazione ne “La buona scuola” della connessione del trinomio
autonomia, responsabilità, valutazione, sarebbe assolutamente coerente a
quel modello.
Ma se ci si provasse a capire che cosa da un quindicennio si è opposto alla
sua realizzazione, quali interessi, quali culture, quali meccanismi auto
riproduttivi, forse si potrebbero individuare strategie di realizzazione
finalizzate e indirizzate su bersagli specifici.
Come sono stati governati i meccanismi di finanziamento delle scuole, per
assicurare effettiva padronanza delle risorse? Quali regole nella
classificazione, gestione, destinazione del personale per dare effettiva
padronanza organizzativa alle scuole autonome? Quali interventi sul sistema
della Ricerca Educativa e dei suoi Istituti (quelli regionali, chiusi, e i
due nazionali INDIRE e INVALSI, per 10 anni in
ristrutturazione/transizione..); come si sono riconfigurati i presidi
territoriali del MIUR, e il MIUR stesso, (Dipartimenti, direzioni, USR,
Uffici territoriali…), per costruire un effettivo sistema di services
all’autonomia?
Per ciascuna domanda (e sono solo alcune..) vi sarebbe un giudizio
valutativo da esplicitare: e non si stratta di un giudizio politico (non
solo), ma di una elaborazione tecnico-politica di quanto realizzato in
funzione delle strategie dichiarate.
Se l’attività di valutazione non investe prima di tutto la “politica
pubblica” e le sue realizzazioni (e, insisto, non si tratta di un mero
giudizio politico, ma di corrispondenza tra gli obiettivi dichiarati ed i
risultati) sarà difficile abilitare il principio del nesso
responsabilità/valutazione sugli altri livelli e contesti (le
organizzazioni, il personale, i dirigenti).
In merito basterebbe considerare la coerenza con la quale si applica, nella
nostra amministrazione, il criterio dello spoil system
(ideologicamente rivendicato) alla alta dirigenza amministrativa: funziona
in entrata, non in uscita.
L’incompiuta sembra un destino nazionale. Ma ha una griglia più o meno
complessa di responsabilità sia politiche che tecnico-politiche, e,
questione cruciale, culturali. Il vero imputato dell’incompiutezza è la
cultura della cosa pubblica. E nel caso dell’autonomia scolastica la
sostanziale estraneità e sotterranea opposizione manifestata della Pubblica
Amministrazione del MIUR.
Si tratta, come si vede, di un nodo possente e di difficile scioglimento:
emerge in evidenza proprio sulla topica della valutazione delle scuole e
della sua “premessa e allegato” (così vorrebbe il modello del Regolamento
del Sistema Nazionale di Valutazione) costituito dalla autovalutazione.
“Evidentemente entrambi
avevamo una fame terribile. Il guscio dell’aragosta era già vuoto e il
cameriere venne sollecito. Ordinammo altre cose, a sua scelta. Cose leggere,
specificammo, e lui annuì con competenza.
“Qualche anno fa ho pubblicato un libro di fotografie”, disse Christine.”
Era la sequenza di una pellicola, fu stampato molto bene, come piaceva a me,
riproduceva anche i denti della pellicola, non aveva didascalie, solo foto.
Cominciava con una fotografia che considero la cosa più riuscita della mia
carriera, poi gliela manderò se mi lascia il suo indirizzo, era un
ingrandimento, la foto riproduceva un giovane negro, solo il busto; una
canottiera con una scritta pubblicitaria, un corpo atletico, sul viso
l’espressione di un grande sforzo, le mani alzate come in segno di vittoria:
sta evidentemente tagliando il traguardo, per esempio i cento metri”. Mi
guardò con aria un po’ misteriosa, aspettando una mia interlocuzione.
“Ebbene ?”,chiesi io,”dov’è il mistero?”
“La seconda fotografia”, disse lei.”Era la
fotografia per intero. Sulla sinistra c’è un poliziotto vestito da marziano,
ha un casco di plexiglas sul viso. Gli stivaletti alti, un moschetto
imbracciato, gli occhi feroci sotto la visiera feroce. Sta sparando al
negro. E il negro sta scappando a braccia alzate, ma è già morto: un secondo
dopo che io facessi clic era già morto”. Non disse altro e continuò a
mangiare.” (Da “Notturno indiano” di Antonio
Tabucchi)
Un autorevolissimo
interlocutore con ruolo fondamentale nella direzione del MIUR presentando
l’autovalutazione delle scuole ad una platea di Dirigenti Scolastici della
mia Regione (Marche), con grande, ma forse inconsapevole, efficacia
comunicativa disse “Noi vi daremo una fotografia… voi deciderete cosa
migliorare… poi nel triennio…”.
Si riferiva al fatto che alle scuole verranno resi disponibli dati
rielaborati dal “superiore” ministero e che costituiranno il punto di
riferimento per l’analisi autovalutativa (come da Direttiva e da Circolare,
le scuole potranno aggiungere proprie informazioni e propri indicatori, ma,
nella filosofia del dettato della norma, in chiave “residuale” e
aggiuntiva”).
I report di informazione su se stesse (la fotografia) verranno da “altri”
(il Ministero, l’INVALSI..).
Non desidero discutere sulla pertinenza tecnico-scientifica di tali
“raccolte di dati” (le contraddizioni anche tecniche sono numerose:
basterebbe valutare la chiarezza e trasparenza dei dati di “Scuole in
Chiaro” riferiti alle risorse economiche delle scuole e la loro capacità di
rendere leggibile un bilancio ad un comune cittadino, che per altro dovrebbe
poterlo consultare a livello di singola scuola e probabilmente con maggiori
chiavi di lettura e possibilità interpretative).
Mi interessa invece il significato profondo, politico e culturale, di tale
approccio, esemplare delle diverse concezioni e pratiche dell’autonomia.
Su questo piano maturano le contraddizioni più significative tra le
affermazioni ripetute nel confronto politico corrente, relative al nesso
autonomia e valutazione, e le proposte fin qui delineate nello specifico del
Sistema Nazionale di Valutazione.
Segnalo quali siano, a mio parere, gli elementi più significativi di tale “stratificato” di contraddizioni, ribadendo che la loro origine sta proprio nella criticità di quel nesso autonomia/valutazione che viene a parole enfatizzato.
1.
Viene
delineata una concezione (e ovviamente una pratica..) dell’autovalutazione
che sposta e attenua significativamente il peso specifico dell’autoanalisi
(organizzativa, gestionale, delle strategie e dei risultati) della singola
organizzazione.
Il valore
aggiunto dell’impegno alla raccolta sistematica ed analisi dei propri dati,
nella scelta degli indicatori, nelle aree da sottoporre a verifica consiste
nel fatto che su tale comune impegno di una organizzazione si misura la sua
“propensione” al miglioramento.
E’ questo il terreno fondamentale del nesso tra autonomia ,
responsabilità, valutazione.
Nel modello proposto invece, la scuola in autovalutazione dovrà
esaminare dati (per altro da essa stessa provenienti) rielaborati dal MIUR
stesso (Scuole in Chiaro), risultanti da questionari (rielaborati da
INVALSI) che coinvolgono il personale, i genitori e gli studenti, oltre cha
i dati relativi alle rilevazioni nazionali sui livelli di apprendimento.
La scuola viene invitata a fare autoanalisi su dati offerti da “fuori”.
Apparentemente una comodità: si esenta la scuola da un impegno ed una
fatica; si uniformizza il protocollo. In realtà una sostanziale
mortificazione della stessa autonomia.
Alla scuola non si propone di “guardarsi allo specchio”, e di provarsi a
fare i conti con se stessa, opportunamente giovandosi di un “amico critico”
capace di valorizzare lo specchio e impedendo il narciso (vedi mio
contributo su questo sito “Lo specchio senza Narciso”). Si propone invece di
guardare una sua fotografia, scattata da altri (vedi brano di Tabucchi..)
La preoccupazione “sistemica” di tenuta unitaria e di comparabilità, in un
contesto di autonomia valorizzata, richiederebbe esattamente di invertire
l’approccio: il “cuore” del processo è l’autoanalisi della singola
organizzazione; il ruolo indispensabile della dimensione sistemica si
esercita indicando un plafond ristretto e essenziale di rilevazione di dati
che “non possono non esserci” a garanzia della comparabilità.
L’esame dei modelli di autovalutazione implementati dalle scuole sarebbe
allora davvero una misura delle loro “propensione” al miglioramento, e la
valutazione esterna avrebbe un campo significativo (certo non esclusivo) sul
quale esercitarsi.
Io comprendo le esigenze di “unità” sistemica; ma così la garanzia di unità
del sistema è fondata sul fatto che tutti si “si mettano in divisa”..
Non è un “inedito”: si pensi al processo con cui si è provveduto ad
affrontare e risolvere il problema della trasparenza nei servizi on line
delle scuole. Anche in tal caso invece di indicare in modo vincolante le
informazioni essenziali da assicurare nei rispettivi siti, si è provveduto a
trasformarli in “fotocopie”.
L’unità si interpreta come “uniformità”. L’identità si interpreta come
“identicità”. Il doppio slittamento semantico è proprio della Pubblica
Amministrazione e segnala il modo proprio di declinare l’autonomia .
La realtà però si vendica di questo riduzionismo; e in due modi
possibili: vi saranno scuole (quelle che hanno sperimentato modelli e
protocolli propri) che si batteranno per ampliare e complessificare,
falsificare, la “fotografia” ricevuta. Ve ne saranno altre e probabilmente
la maggioranza, che, dopo il primo impatto e fatica, assolveranno
all’adempimento, compileranno le schede, rispondendo alle domande,
assemblando il report… e lasciando sullo sfondo le dinamiche reali della
propria identità di organizzazione, i caratteri della propria cultura
organizzativa. E così, fuori bersaglio, andrà proprio l’obiettivo di
raggiungere una “valutazione autentica”. Non credo sia questo il senso del
lavoro di tanti ricercatori che operano all’INVALSI. Nè che ciò sia utile
allo stesso decisore amministrativo e politico la cui razionalità decisoria
dovrebbe essere alimentata proprio dalla “valutazione autentica”
2. Entro
tale schema interpretativo, il significato della rendicontazione sociale
slitta. Il suo valore sostanziale è quello di essere una “filosofia” della
produzione dei servizi in rapporto alla domanda dei cittadini, della
comunità locale di riferimento, e del diritto di cittadinanza concretamente
esercitato.
Una “filosofia” che si materializza in un documento (Il Bilancio Sociale)
che diventa oggetto di tale confronto.
La rendicontazione sociale non può limitarsi a coincidere con la mera
“pubblicità” degli atti. Nulla da eccepire ovviamente (mancherebbe: le
scuole sono Enti Pubblici…e che pubblichino loro bilanci è obbligatorio:
magari in modo che siano effettivamente leggibili dai cittadini. Che dite
dall’aggregato Z01 per esempio?…Lo spiegherà ai cittadini “Scuole in
Chiaro”?).
Ma la rendicontazione sociale è altro: l’interfaccia dell’autonomia e della
sussidiarietà, nel rapporto con la comunità locale, della verificata
congruenza tra l’offerta formativa e la domanda…
Anche in tal caso il medesimo “scarto” nella filosofia amministrativa. La
tenuta sistemica e le preoccupazioni di comparabilità, in un sistema che
vede operare una pluralità di produttori autonomi, richiede che siano
rigorosamente definite le informazioni essenziali che non possono non
esserci; valorizzando, e rendendo semmai oggetto di valutazione
“esterna”, proprio le espressioni autonome che, rispettando ciò che non può
non essere detto, sviluppino invece fino in fondo la specificità della
propria identità.
Se si leggono le poche righe residuali dedicate alla rendicontazione sociale
nella circolare e se confrontate con l’enfasi che invece si dà alla cosa
nelle dichiarazioni, si avrà la misura anche culturale di tali
contraddizioni: la rendicontazione sociale non è “categoria” di pensiero che
appartenga alla cultura prevalente della Pubblica Amministrazione.
C’è un’ultima
considerazione che prima ancora che disporsi a critica di un protocollo
sottolinea il valore sintomatico di alcune scelte nel rielaborare
significati e valori della valutazione.
Ad oggi il protocollo di autovalutazione offerto a tutte le scuole come
impegno per questo anno, sembrerebbe (ma non abbiamo ancora proposte certe e
anche in tale caso spero di essere smentito) di fatto costruito trasferendo
il protocollo VALES, con piccole modifiche.
VALES è stato oggetto di sperimentazione: bene dunque utilizzarne i
risultati ( e se vi fosse una analisi differenziata e pubblica di questi,
meglio sarebbe).
Ma VALES è un modello di “valutazione esterna”. A quali condiziono, con
quali limiti e con quali significati si traferisce in contesto di
autovalutazione? E con quale validazione “scientifica”? E in particolare che
significato e che cultura autovalutativa si innesta su tale identificazione?
A me pare che anche in tale considerazione si confermino i limiti su
accennati di una concezione e di una pratica dell’autovalutazione come
“modello esterno” e la potenziale collisione con la proclamata
valorizzazione dell’autonomia.