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I problemi della valutazione dopo la legge 169

06.01.2014

Sui pulpiti, le prediche e i chierici di De  Anna
di Antonio Valentino

 

Giuste e sacrosante le argomentazioni di Franco De Anna a proposito delle posizioni e degli appelli, maturati in questi giorni, circa i criteri per la scelta, da parte del Ministro, del nuovo Presidente INVALSI.
Giusta la distinzione tra ricerca pedagogica e ricerca educativa; giusto il richiamo a non fraintendere i compiti e le funzioni del "sistema" della ricerca educativa.
Opportuno e sacrosanto anche sottolineare che la "valutazione" messa in capo all'INVALSI ha come caposaldo le rilevazioni dei livelli di apprendimento attraverso le somministrazioni standard relative a Italiano e Matematica. E, soprattutto,  che queste “non  hanno a che fare con la "valutazione degli alunni", che è invece “prerogativa insostituibile dell'esercizio professionale ( …) del docente”.

Ma veniamo al senso della sua polemica, “puntuta”, come spesso gli capita, contro “il mondo pedagogico”. Reo, a suo dire,  di voler contrastare, nella conduzione dell’INVALSI,  la prevalenza di "economisti" e di "statistici", perché tutto teso - il mondo pedagogico - a far valere la messa in primo piano delle competenze educative, pedagogiche, ecc....
Riconosciuto il valore delle tue considerazioni, ti propongo, ora, caro Franco, un approccio diverso alla questione. Che prende le mosse da aspetti molto concreti con cui è fondamentale, per tutti quelli che operano nel sistema scuola, fare i conti.

In primo luogo osservo che, dietro le posizioni con cui tu polemizzi, non c’è solo il “mondo pedagogico” (che anzi mi sembra decisamente minoritario, se con esso, ti riferisci, come ho pensato, a chi studia e coltiva pedagogia, e non a chi pratica e organizza l’insegnamento).
Dietro queste posizioni, c’è innanzi il mondo della scuola (o  sue parti consistenti); soprattutto dirigenti scolastici (ma anche insegnanti e formatori), impegnati a ridare dignità al nostro sistema scolastico. La cui polemica non penso voglia essere aprioristica contro la presenza prevalente di economisti e statistici nella direzione dell’INVALSI, ma, piuttosto, contrastare modalità operative che in questi anni tendevano a  prescindere dai “luoghi” nei quali e per i quali si svolgono le rilevazioni.
La seconda considerazione si allaccia alla prima. La percezione che il mondo della scuola ha del lavoro dell’INVALSI, conosciuto in questi anni, non è di quelle catalogabili sotto le voci: diffusa condivisione e apprezzamento. L’INVALSI ha continuato ad essere estraneo alle scuole e la collaborazione - che pure non è mancata - è stata sempre considerata dalla scuola come un atto dovuto, di cui non sempre si coglievano senso e prospettiva. E questo perché non è stato favorito un approccio diverso al riguardo.  È  certamente vero che la ricerca educativa  la fa l’INVALSI; ma è innegabile che nelle procedure di rilevazioni - e non solo - centrano le scuole. E la qualità delle procedure molto dipende dal livello di consapevolezza dell’importanza delle rilevazioni e  dalla condivisione (o, almeno, dell’esatta comprensione) degli oggetti valutativi (se non delle modalità di rilevarne la padronanza).
Ora, io penso che un indicatore significativo del declino - passami il termine - del nostro sistema  sia anche il fatto che la maggior parte delle scuole viva in modo marginale un’esperienza – quella delle prove standardizzate - che, con tutti i limiti propri di un “progetto giovane” (non pochi i Paesi europei che hanno cominciato parecchio tempo prima di noi), avrebbe potuto far crescere la cultura valutativa di docenti e dirigenti (non solo riferita agli apprendimenti, ma anche al contesto, ai suoi contenutori, al suo clima, al suo “progetto”). Cultura valutativa diffusa che costituirebbe risorsa importante anche per le stesse  rilevazioni dell’INVALSI.
Quindi non penso che le scuole siano immuni da “colpe” e responsabilità. Anche se, a cercarle più in alto, se ne troverebbero di più attendibili.
Terza e ultima considerazione. L’INVALSI è soggetto, certamente fondamentale, del Sistema nazionale di valutazione. Il senso e il valore delle rilevazioni e delle valutazioni sono in funzione del miglioramento del sistema. E il miglioramento non può che essere riferito alle finalità generali e specifiche del fare scuola, oltre che alle prospettive del sistema. Perché è vero – per limitarmi solo al primo aspetto - che le rilevazioni afferiscono solo ad alcune aree di apprendimento, ma è innegabile come la padronanza in tali aree condizioni, nel bene e nel male, il successo o meno nelle altre materie di studio.
Una interlocuzione dell’intero sistema nazionale col mondo della scuola non può pertanto essere un optional. Essa va non solo voluta (le buone intenzioni, senza gambe,  se le porta il vento) ma anche progettata e perseguita da chi ha interesse e responsabilità al riguardo. E non per allungare i tempi; ma per dare valore a quello che si mette in pentola.
Ognuno deve fare la sua parte (hai  certamente ragione), ma la propria parte la si gioca bene,  “agendo” fino in fondo le proprie prerogative e i propri compiti istituzionali; ma anche – e perciò stesso - conoscendo i propri limiti e le interazioni e collaborazioni di cui si ha bisogno per raggiungere meglio - e possibilmente prima - i propri obiettivi.

Amo pensare che nessuno voglia in questa situazione rivendicare il primato della cultura pedagogica. Ma solo mettere in primo piano le ragioni per cui esiste un Sistema Nazionale di Valutazione. Che sono  quelle di offrire dati e valutazioni attendibili ai decisori politici ai vari livelli (e in primo luogo a quello nazionale); ma anche alle scuole. nel confronto con se stesse e con le altre realtà vicine e lontane.
Tutti siamo consapevoli che il Sistema nazionale di valutazione ha bisogno di una pluralità di risorse, tutte ugualmente importanti e tutte di qualità. Rivendicare primati di alcune competenze rispetto ad altre è insensato, oltre che controproducente. Ma penso, comunque, che a dettare l’agenda, come si dice, non può che essere  la sua “ragione sociale” (come diresti tu): a chi serve e perché. Un economista  può valere quanto un pedagogista, come presidente, se la figura scelta si muove in questa logica e con questa prospettiva.
Ragionamenti, caro Franco, a botta calda sui punti caldi; e soprattutto senza pretese.
Quanto poi alla Storia, beh, lei fa quello che vuole. Forse. Come la storia - quella con la s minuscola che si occupa di ricostruire eventi - continua a  raccontarci. Forse. (“Insegnarci” è termine troppo grosso e impegnativo).
Comunque pensare, almeno  in qualche caso, a cambiarne  il corso,  può risultare, talvolta, addirittura divertente. Non pensi?

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