Direzione didattica di Pavone Canavese

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L' intervento di Paolo Guidoni
(docente all'Università di Napoli)

è ripreso (per gentile concessione dell'editore)

dalla Rivista I diritti della scuola

(n. 18 del 1.06.1998)

I diritti della scuola è pubblicata dal gruppo editoriale Petrini

 

Per non giocare a far finta

Qualcosa su cui riflettere, prima di entrare in argomento: un nodo problematico comune al breve documento dei 7 Saggi sui Saperi di Base, alla complessa documentazione sui lavori della Commissione dei 40 e al Progetto di Riforma dei Cicli.

In nessuna di queste sedi si è voluto affrontare l’argomento-scuola a partire da un’analisi della situazione esistente: nei suoi aspetti caratterizzanti, nelle loro correlazioni, nelle conseguenti prospettive di difficoltà e potenzialità, quando si voglia mettere mano a cambiamenti non di pura facciata.

Perchè, dopo decenni di incuria e prima di avventurarsi in qualsiasi cura, la scuola italiana non è risultata degna neanche di un onesto "libro bianco"? (Tipo quelli che nei paesi "civili" precedono e accompagnano riforme anche meno radicali di quelle di cui c’è oggi bisogno, per voltare pagina; tipo quello che proprio in questi giorni ci ha informato sui guai e sulle carenze dei nostri acquedotti o delle nostre ferrovie, e delle conseguenti necessità e priorità di intervento, e dei necessari processi di cambiamento e ricostruzione, da progettare e finanziare su un arco di dieci anni).

Si tratta di un modo di procedere scientificamente, culturalmente e pragmaticamente inadeguato (rispetto a qualunque modello di scienza, cultura o prassi a cui ci si voglia riferire). Anche perchè subito produce e induce atteggiamenti (che emergono già in tutti i documenti, e subito nei diversi commenti) per cui direttamente si discetta e si argomenta a proposito di principi, e di fini, e di metodi, e di architetture; condivisibili o meno, ma comunque del tutto non significativi se non associati a una presa d’atto realistica sia delle potenzialità esistenti da valorizzare e utilizzare per configurare il cambiamento, sia dei nessi causali deformanti su cui è necessario intervenire per renderlo possibile. Se davvero si vuole che qualcosa cambi. (Forse può valere la pena di ricordarsi che "non c’è nulla che un governo detesti di più che essere bene informato sulle situazioni perchè ciò rende il processo decisionale assai più lungo e complesso". Ma se J.M. Keynes (1937) parla di governi, la stessa osservazione può ovviamente valere per un ministero, per un provveditorato, per un circolo, per un collegio di istituto, per un team di classe... o, perchè no, per un’assemblea di "saggi").

Già la situazione della nostra scuola, oggi, com’è?

Nella valutazione complessiva (variamente circostanziata negli ultimi anni dai rapporti internazionali) viaggiamo dalle parti del ventesimo posto fra i paesi "sviluppati" (di solito, ma non sempre, subito prima della solita Grecia); mentre fra i diversi segmenti di scolarità appaiono comparativamente migliori quelli della scuola primaria.
Ma cosa sappiamo, oltre a questo, della nostra scuola elementare?
Nella inchiesta "A righe e a quadretti" il Censis, per incarico del MPI, ha accuratamente documentato – due o tre anni fa, dopo le recenti riforme – una situazione a dir poco preoccupante, ben corrispondente, d’altronde, a quella che direttamente emerge dalla (scarsa e mal finanziata, e totalmente ignorata) ricerca e sperimentazione sul campo. Un simile documento avrebbe potuto essere oggetto di approfondito esame e allargato dibattito in un paese "normalmente" interessato al proprio futuro; ma, come dice P. Crepet , "siamo un paese che non ama i suoi figli" quindi, ovviamente, neanche i loro insegnanti; soprattutto siamo un paese che non tollera di guardarsi in nessuno specchio.

In estrema sintesi, dunque: in quinta elementare, su semplici prove di lingua e aritmetica, il 75% dei ragazzi/e risulta "a rischio" – il 25% addirittura "a grave rischio" – rispetto ad una competenza minimale, comunque necessaria per proseguire il percorso di acculturazione; d’altra parte il contributo principale alla varianza dei risultati – da solo equivalente a tutti gli altri contributi – è definito dall’appartenenza ad una stessa classe. In altre parole: alla fine delle elementari la nostra popolazione scolastica è già "strutturata" in livelli di competenza e potenzialità che ben poco hanno a che fare con le (pure ovvie) differenze individuali, ma che sono sostanzialmente correlati – al di là di tutti i (pure ovvi, e documentati) "motivi sociali" – alla singola figura di insegnante con cui i ragazzi/e hanno la ventura di imbattersi in prima elementare. (Di diversi altri importanti aspetti dei risultati dell’inchiesta non c’è spazio per discutere in questa sede.)

Quale riqualificazione culturale dei docenti ?

Un simile (onestamente, disastroso) stato dei fatti sembra dunque in primis correlato al prevalente livello di professionalità posto in atto nella mediazione (o non mediazione) culturale, e questo potrebbe indurre ad un atteggiamento di (cauto) ottimismo: se i guai dipendono dalle persone, significa che – volendo – ci si può fare qualcosa. (Attenzione: "dipendere" vuol dire "essere correlato a"; ma non c’è niente di più ipocritamente inutile di quel precipitoso assegnare ogni "colpa" agli insegnanti, pur così spesso di fatto ridotti a cieche guide di ciechi, intorno a cui si esercita e si articola tanta parte della critica ai processi dell’istruzione).

A questo proposito ci sono diversi aspetti della professionalità docente che vale la pena di riconsiderare a fondo se si vuole veramente "un forte investimento negli insegnanti"; e alcuni sono prioritari.

C’è innanzitutto un problema di cultura personale – e di personale gusto per la cultura, a cominciare dagli ambienti della scuola dell’infanzia ed elementare. Perchè, se è pur vero che, alla donabbondio, "uno il gusto non se lo può dare", figuriamoci se in queste condizioni può "darlo" (stimolarlo, mediarlo, indirizzarlo) ai ragazzi/e che ha intorno. D’altra parte, in quanto addetti ai lavori, andiamo predicando a destra e a manca che la cultura è in sè un valore e un mediatore di valori; ma allora, siamo in grado di interrogarci su questa insidiosa forma di anoressia sociale per cui non solo tanti dei ragazzi/e che crescono rifiutano (rivomitano, spesso) ciò che secondo noi dovrebbe essere per loro vitale, ma molte delle stesse persone che pure sono responsabili del loro fisiologico "nutrimento" culturale finiscono così spesso per rifiutarlo a livello personale, talvolta fino a forme di vero e proprio masochismo? Cosa c’è di profondamente sbagliato nel modo in cui la cultura si "offre" ai nostri figli e ai loro insegnanti? Prima del necessario "gusto per l’insegnamento", del sacrosanto "piacere che viene dal far conoscere, far discutere, far costruire sapere", non potrebbe essere necessaria una primaria esperienza di personale gusto per un personale apprendere, un personale piacere nel conoscere, nel discutere, nel costruire il proprio sapere? Da che razza di originaria violenza socioculturale sono bloccati e distorti tutti quelli che non riescono a vedere la loro professione come "socialmente e culturalmente desiderabile", e che di conseguenza neanche volendo riescono a convincere i ragazzi/e che "capire si può", che capire è bello, divertente, arricchente, intrigante... anche se, come per tutto quello che vale, si fa un po’ di fatica?

Si chiede ora giustamente "lo stimolo per un confronto iniziale e un impegno continuo di elaborazione, sul piano culturale e didattico, da promuovere in tutte le sedi possibili (l’editoria scolastica..., l’università e i centri di ricerca, gli insegnanti)...".

D’accordo. Ma sono decenni che l’editoria scolastica, l’università e i centri di ricerca, gli stessi insegnanti, si trovano irretiti e collusi in un mostruoso circolo vizioso: quello per cui la sistematica produzione e diffusione di materiale didattico fra banale e indecente è demagogicamente sostenuta dalla scusa che questo è esattamente quanto richiede il "mercato"; puntualmente composto, per la maggior parte, da persone che, culturalmente abbrutite sotto diluvi di "quindicine" e di "guide" e di "sussidiari", coerentemente insegnano con modalità fra banali e indecenti. Il tutto condito e ribadito da decenni di "aggiornamento" avvilente, magari sul come si possa "valutare" quello che comunque non si è in grado di insegnare con efficacia; o da intere biblioteche di libri e articoli di "didattica", perfettamente inutilizzabile e inutilizzata appena fatto l’esame o il concorso; il tutto puntualmente materializzato in quelle valanghe di schede o assimilati fra cui si dibattono le "programmazioni", sotto cui si spegne ogni residua voglia di "sapere" da parte dei ragazzi.

Per esempio. Giustamente i Saggi fanno riferimento alla necessità di "liberare l’insegnamento delle scienze sperimentali dalle modalità, spesso pedanti ma soprattutto acritiche, seguite da buona parte dei testi didattici". D’accordo. Ma sarebbe bene ricordare che tali testi sono (stati finora) scritti, prodotti e adottati giustappunto all’interno del circolo vizioso di cui sopra; e che i rischi di pedanteria e d’acriticità nelle scienze sarebbero ancora maggiori se si tentasse di trasformarne l’insegnamento, che deve avere nella dinamica fra modi di essere del mondo e modi di pensare il suo referente ineliminabile, in "un positivo dialogo con altri campi di conoscenza... in prospettiva storico-epistemologica". E così via. Se non si spezza il circolo vizioso, in modo condiviso, deliberato e progettuale – e sarà difficile e costoso farlo – di certo non ci si sposta da dove si è.

(A volte mi domando come facciano gli amici insegnanti a non ribellarsi, tutti insieme, a una servitù della gleba culturale che in qualche modo li forza a far male il loro lavoro: ribellarsi, magari usando del loro enorme potere virtuale sui ragazzi/e con cui passano la maggior parte della loro vita. Ma, forse, dopotutto far finta di spiegare e far finta di capire, far finta di insegnare e far finta di imparare, far finta di insegnare a insegnare finta cultura, far finta di valutare e controllare... far finta, in definitiva, è così più comodo – per tutti e per ciascuno).

Guardiamo in faccia i risultati di ricerca

Il motivo principale per cui i ragazzi capiscono o non capiscono a scuola, a parte i frammenti di cultura assorbiti per "immersione" sociale, è sostanzialmente il modo in cui le cose sono loro spiegate. Il motivo principale per cui gli insegnanti spesso non sono in grado di mediare il capire è, d’altra parte, il fatto che loro stessi non hanno capito abbastanza a fondo, almento tanto quanto sarebbe necessario per aiutare altri a capire. E, di nuovo, questo accade per il motivo principale che chi dovrebbe spiegare agli insegnanti i "nuclei fondanti" sia dei diversi "saperi" fattuali, sia dei "saperi sul sapere", non è stato in grado di farlo originariamente in maniera efficiente e efficace, nè è in grado di farlo diffusamente in sede di "formazione permanente" della professionalità.

In questi giorni è diventato di moda stracciarsi le vesti perchè i nostri ragazzi/e sono risultati, in un ennesimo confronto internazionale, particolarmente incompetenti in matematica di base: per cui "un’attenzione particolare e profondamente innovativa sul piano metodologico va riservata all’insegnamento della matematica, che attualmente registra, soprattutto a partire dall’attuale scuola media, il maggior numero di fallimenti...". E, puntualmente, qualcuno si leva a esigere "più tempo per la matematica" nella scuola media ed elementare – magari fin da quella dell’infanzia. Vediamo. Siamo in una situazione di fatto in cui nella scuola elementare e media la quasi totalità del tempo e delle energie nominalmente dedicati alla formazione "scientifica" (formazione ad un rapporto cognitivo e valoriale corretto con la realtà naturale, che è praticamente assente dalla nostra scuola di base con enorme pregiudizio culturale e sociale) è malamente risucchiata da vani tentativi di "insegnare almeno un minimo di matematica"; ovviamente, in nome di un ipotetico valore formativo e culturale taumaturgicamente attribuito alla stessa matematica in quanto tale.

Signori. Passare anni a tentare di insegnare (di imparare) quello che non si è messi in grado di insegnare (di imparare) in modi umanamente gratificanti è di per sè deformante, oltre che frustrante: come una incomprensibile condanna a vita. D’altra parte il "pensiero matematico" è assolutamente essenziale a una crescita culturale non deforme, è fortemente automotivante, è creativo...: se appropriato e non subìto, se sostanzialmente aggiustato a tutti e non strumentalizzato alla segregazione fra dotati e negati. E puntualmente la ricerca conferma che quella competenza aperta allo sviluppo che non si ottiene "normalmente" al termine della scuola media, o in quinta elementare, può essere "normalmente" raggiunta in quinta – o in seconda: purchè la mediazione culturale sia mediazione, e non condizionamento; purchè si rompano certi schematismi di presentazione e di percorso spesso imposti proprio sulla base di presunti "nuclei fondanti" da trasferire direttamente dalla disciplina all’insegnamento. Signori. Il motivo principale per cui i ragazzi/e non capiscono la matematica (o la fisica, o la chimica, se è per questo), e in gran parte escono dalla scuola di base con l’impegno di rifiutarla, temerla, odiarla per il resto della loro vita, sta nel modo in cui di solito si pretende di impostare l’insegnamento della matematica (o della fisica, o della chimica). Senza "andarli a prendere là dove sono, trovando strade adatte a portarli dove li vogliamo portare" (L. Wittgenstein).

Attenzione. Non si tratta di becera polemica antimatematici: il problema è grave in quanto, appunto, identico per la fisica, e per la chimica, e per le altre "scienze" (per quanto meno "praticate" della matematica ); e correlato a profonde difficoltà di semantica e sintassi nel controllo della lingua naturale – fino ai "linguaggi informatici"; e presente, in modi via via più radicali, a tutti i livelli scolastici. Se possibile, allora, cerchiamo di prevenire, con serie discussioni dalla parte della cultura e di chi deve appropriarsene e di chi deve garantirne la mediazione, il ripetersi delle penose risse sulle ore di cattedra che hanno marcato gli infausti programmi Brocca. Si dovranno, certo, "rifare" i programmi: ma nessuna cosiddetta "esigenza disciplinare" dovrebbe aver titolo di imporsi (di proporsi) senza una approfondita e articolata analisi delle ragioni dei suoi attuali fallimenti, cognitivi o motivazionali o curricolari che siano; e dei modi previsti per venirne a capo.

Cercando un quadro dei saperi di base

Il primo problema, quindi, così per la matematica come per tutte le altre "scienze", sembra proprio quello di uscire dall’equivoco e dalla mitologia dei "nuclei fondanti". Da un lato le discipline "esistono", e sono culturalmente strutturate-strutturanti-inevitabili, almeno fino a quando continueremo a ragionare con la testa che abbiamo, adatta alla vita che viviamo; di più, le discipline sono cognitivamente "naturali", proprio in quanto non date a priori, ma costruite a posteriori attraverso la lenta e complessa evoluzione culturale umana. D’altro lato il ragionamento disciplinarmente strutturato, se pur naturale, non è certamente spontaneo nè "autopoietico", ma deve essere "artificialmente " (socialmente) raccordato alle dinamiche cognitive individuali attraverso una efficiente mediazione culturale: rispetto a cui risultano cruciali non tanto i "nuclei fondanti" delle discipline in quanto storicamente definite, ma i nuclei fondanti del pensare stesso, in quanto capace di articolarsi in "modi di guardare" e in "strategie" risonanti nei confronti del reale, complessivamente e analiticamente considerato. Modi di guardare (e di fare, pensare, parlare, rappresentare, formalizzare...) rispetto a cui le discipline stesse rappresentano una codificazione simbolica pragmaticamente strutturata per la massima efficacia ed efficienza d’uso – non certo per la massima efficacia ed efficienza di un primo approccio alla loro comprensione.

In altre parole. La forma disciplinare della presentazione didattica non è, oggi, affatto ottimizzata allo spiegare e al capire, specialmente quello "ad alto valore aggiunto" (il problema non è solo italiano); e la constatazione vale sostanzialmente per tutte le aree di insegnamento. La ricerca "costruttiva", rimettendo in gioco le relazioni fra epistemologia, cognitività e motivazioni, dimostra che è possibile fare grossi passi avanti nell’ottimizzazione della mediazione, alzando al tempo stesso il livello degli obiettivi di base: e questo in modi semplici anche se non univocamente definiti, ma comunque abbastanza radicalmente diversi da quelli di solito in uso (quindi agevoli per chi deve imparare, faticosi per chi deve insegnare). La ricerca "applicativa", d’altra parte, insiste sulla possibilità (necessità?) di "forzare" la metodologia didattica senza mettere in discussione i percorsi disciplinari tradizionali, a costo di assorbire nello sforzo sempre maggiori energie e/o di prevedere un "forte alleggerimento dei contenuti disciplinari". In un caso e nell’altro i costi (in fatiche umane, strutture, soldi, tempi soprattutto...) saranno inevitabilmente molto alti, se non si vorrà giocare ancora a far finta: sembrerebbe perciò responsabile invitare tutti a prenderne atto; e anche a predisporre e discutere pubblicamente quei piani particolareggiati (eventualmente alternativi) senza cui qualunque riforma è vuota – o avventuristica.

E non è forse per caso che il documento dei 7 Saggi, dopo essersi annunciato come "quadro dei saperi di base che tutti i giovani devono solidamente possedere alla fine della formazione scolastica obbligatoria... entro il quale mettere alla prova una nuova modalità di articolazione dei programmi e approdare alla fissazione di standard formativi..." si rivela poi così elusivo e sfuggente – banale, scusate – proprio sul piano dei cosa e come e perchè di fondo dei diversi "saperi".

C’è da fare ancora, prima di approdare a un "quadro" plausibile, un percorso certamente duro, complesso e articolato, probabilmente rischioso, di sicuro controverso: discutiamone allora, esplicitamente, in termini di condizioni, costi e benefici sulla base di progetti realistici e argomentati, senza mettere, possibilmente, il carro delle future verifiche davanti ai buoi delle necessarie scelte e strategie di azione possibile, in vista di "traguardi" espliciti e condivisi.

Per concludere

Come sempre, il mondo è pieno di atteggiamenti che si proclamano "ottimisti" e di altri trasparentemente "pessimisti". Vorrei dire: agli "ottimisti" di professione, di fare attenzione a non affogarsi – soprattutto a non affogare il prossimo – per l’ennesima volta in una melassa di generiche buone intenzioni e superficiali buone frasi fatte: che, proprio per non volersi guardare intorno per non dover accettare tutta la fatica che c’è da fare, rischiano di cementare ulteriormente quell’osceno far finta collettivo che strangola le nostre scuole – riformate o no; ai "pessimisti" per scelta di sopravvivenza, che in realtà quasi tutti i pur mirabolanti obiettivi sparsi al vento dagli "ottimisti" sono di fatto accessibili – spesso, se si prova onestamente, anche ben di più: purchè si decida, insieme e in un circuito di coerenza abbastanza largo, che vale la pena di investire le energie e fare le fatiche necessarie e sufficienti – soprattutto, che si vuole uscire dai circuiti autostabilizzanti del condizionamento e dell’omertà.

A tutti, comunque, buon lavoro e buona fortuna.