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LA BUONA SCUOLA OGGI: Documenti e interventi su  "Piano Renzi" (settembre 2014)

(12.06.2015)

La dialettica e il dispositivo
di Franco De Anna

 

L’amico Reginaldo Palermo qualche tempo fa mi segnalò un articolo di Igor Piotto comparso su Insegnareonline, dal titolo fortemente coinvolgente: “La scuola autoritaria come dispositivo educativo“.
Mi chiese se fossi disponibile a elaborarne un commento per il suo “mitico” sito Pavonerisorse.it.
Ho esitato a lungo a rispondere a  tale gentile invito per un “grappolo” di ragioni che spero si dipanino nell’argomentare successivo.
L’interesse che mi ha suscitato l’articolo sta nel fatto che,  in una fase in cui il dibattito sulla e per la scuola si muove tra sussulti e grida, false piste e dirottamenti, frustrazioni rabbiose e ansie autentiche per il proprio futuro da parte di tante persone, (scusandomi della citazione  “La volpe, la lepre e lo scopone scientifico”), l’autore adotta  un approccio a questioni fondamentali di filosofia dell’educazione.
Significativo, in proposito, il richiamo a Foucault ed alla sua analisi del ruolo pervasivo del “dispositivo” entro la società strutturata e saturata di economia, tecnica e scienza, nel determinare e controllare lo sviluppo del soggetto, la sua emancipazione e autodeterminazione, l’esercizio della sua soggettività, la declinazione del sapere in termini di potere di controllo.
Si tratta, come noto, di un approccio critico-analitico di grande trasferibilità a diversi contesti dalla analisi storica, a quella sociale, antropologica, psicologica.
La strutturazione del “dispositivo” da un lato “cosalizza” le istanze del soggetto e della sua libertà.
Così la cura delle sua salute (fisica e mentale) diviene declinazione sistematica della malattia e del suo trattamento; così i rapporti sociali regolati dal diritto si oggettivizzano nei codici e nelle norme strutturando la contrapposizione tra Giustizia e Diritto (per la verità contrapposizione antica…. Antigone insegna). Così la ricerca della “salute mentale” clinicizzata diviene manuale diagnostico…
Ma accanto e parallela a tale “cosalizzazione” la costruzione e pervasività del “dispositivo” diviene condizione del potere e del controllo. L’apparato che organizza modernamente la risposta ai bisogni soggettivi, non solamente deriva nella “cosalizzazzione” dell’umano coinvolto, ma si offre come strumento pervasivo, e spesso occulto/occultato nella sua stessa “veste razionale”, per instaurare e consolidare il potere di controllo. E tale “funzione” si esercita non necessariamente attraverso apparati esplicitamente repressivi, ma riplasmando consenso, consumi, opinioni, “modi della vita”.

Non è naturalmente questa la sede, e neppure il sottoscritto è interprete adeguato, per ricostruire una disamina complessa di tale approccio. Segnalo unicamente il fatto che per Foucault come per altri autori citati nell’articolo che sto commentando (da Bourdieu a Deleuze) l’istanza di partenza della  rigorosa applicazione della analisi razionale (illuminismo di approccio) si riflette con inevitabile sgomento nei suoi esiti di negazione della sua effettiva esaustività. E’ la deriva “neonicciana” che ha caratterizzato gran parte del pensiero (almeno la parte più significativa ed interessante) della seconda metà del ‘900.
L’uso rigoroso dell’analisi razionale rivela l’effetto perverso della “costruzione razionale del dispositivo” come strumento del potere di controllo. La “razionalità” pure utilizzata come essenziale strumento analitico e “disvelatore”, si rivela alla conclusione del percorso analitico, prigioniera/imprigionata della libertà del soggetto. Per inciso: l’ultimo Foucault rivela fino in fondo la consapevolezza di tale dramma/contraddizione.

Mi scuso del riassunto, un poco tirato pei capelli. Ma provo, con parole altre, a trasferire l’approccio sul piano che più direttamente investe la problematica della formazione e “quindi” del sistema di istruzione. Provo a proporre categorizzazioni più usuali e più usate (almeno dal sottoscritto), ma parallele alla argomentazione foucaultiana.
Io ripeto spesso che la formazione (bildung) è processo “istituente”. Rappresenta il percorso di “soggettivizzazione” attraverso il quale il soggetto/individuo/persona assume la piena autonomia nella podestà di “assegnare significati”.
Ho volutamente unificato termini come soggetto/individuo/persona, che hanno valore assolutamente distinto e diverso, in una unica dicitura perché la necessaria distinzione si colloca in una fase successiva e più approfondita di elaborazione. Per ora assumiamo la loro provvisoria intercambiabilità.
La formazione come processo “istituente” (l’autonomia nell’assegnare significati) ha una immagine di “originaria purezza e libertà” (come la vorrebbe Foucault) nella Bibbia.
“E il Signore Dio formò dalla terra tutti gli animali dei campi e tutti gli uccelli dei cieli e li condusse dall’uomo per vedere come li avrebbe chiamati; e in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ogni essere vivente, quello doveva essere il suo nome” (Genesi 2,19).
L’uomo che vive nella felicità del paradiso terrestre ha qui la potestà “naturale” nel dare il “nome alle cose” e quello che sceglierà, così sarà.
Sappiamo, stando al racconto biblico, come andò in seguito: immerso nella felicità “naturale” del paradiso terrestre, l’uomo scelse la “libertà” mangiando il frutto proibito, e mettendo fine alla felicità naturale. La maledizione di Dio e la cacciata segnano i parametri della civiltà umana: “lavorerai la terra.. partorirai nel dolore… mangerai pane col sudore del volto… “.

Interessanti i passi che segnano il delitto di Caino e la punizione di Dio: “Ecco tu oggi mi scacci da questa terra e io mi nasconderò alla tua vista, e sarò vagabondo e fuggiasco per la terra e chiunque mi incontrerà potrà uccidermi” Il signore gli disse “però (però, NdR) chiunque ucciderà Caino sarà punito sette volte” (Genesi 4,13-15).
E la discendenza di Caino enumera “i costruttori di città”, il capostipite “di tutti quelli che suonano la cetra e il flauto” e il “forgiatore di ogni sorta di strumenti di bronzo e di ferro” (Genesi 4,18-21)

La storia della civiltà umana, in altre parole, è la storia di una “cacciata”, la storia di un continuo inseguimento della felicità perduta, della lotta dell’uomo con Dio per riconquistare quella “sapienza naturale” della assegnazione dei significati
Ma mentre gli uomini si moltiplicavano e crescevano si dissero “Costruiamoci una città e una torre la cui cima giunga fino al cielo e facciamoci un nome per non essere dispersi sulla faccia della terra”. Ma il signore disse.. “Scendiamo laggiù e confondiamo la loro lingua, affinché l’uno non comprenda il parlare dell’altro” (Genesi 11, 3-9)
La “condanna” costringe alla costruzione di una “seconda natura” attraverso la propria opera, il proprio lavoro, la propria fatica, la propria intelligenza. I significati non sono più perfetti e disponibili naturalmente al cospetto di un dio incuriosito e disponibile (ciò che l’uomo ha nominato sarà il nome delle cose da dio create…) vanno invece ri-trovati nella seconda natura, imperfetta perché ricostruita nella libertà e nella condanna che ad essa corrisponde..
Se si ha la pazienza di confrontare gli elementi del mito biblico ( e finanche le parole) con quelli, per esempio del “Prometeo incatenato” (Eschilo)  non sfuggiranno gli echi e i rimandi tra miti costruiti in contesti storici ed epocali  assai diversi: dal popolo sempre in fuga degli ebrei, alla civiltà della filosofia e della polis dei greci: sembrerebbe proprio che  tutto ciò risuoni nel substrato profondo della “costituzione” antropologica dell’umanità.

Perché un ateo come me propone la lettura della Bibbia (e partendo da Foucault..)?
Trovo nel testo biblico una forza metaforica fondamentale nella descrizione della “condizione umana” e della contraddizione di fondo che struttura l’antropologia.
La civiltà, i prodotti della razionalità, il trasferimento della razionalità in tecnica, la tecnica come strumento di ri-costruzione di una seconda natura,  sono segnati dalla contraddizione di fondo: sono l’esito della “cacciata”, accompagnano il “fuggitivo”, sono segno della lacerazione. Il marchio di tale lacerazione segna indelebilmente le stesse conquiste che la costruzione della “seconda natura” comporta.
Si prolunga la vita degli uomini, se ne curano le malattie, la tecnica produce “protesi” sempre più efficaci per dominare la realtà e alleggerire la fatica, i “significati” si riproducono e apprendono “artificialmente”, le “regole” (i diritti) sembrano attenuare l’arbitrio nei rapporti attorno “alla torre di babele”. Ma tutto ciò comporta la sovracostruzione di artefatti, di dispositivi che, mentre accentuano la “produttività” di questa “seconda natura”, ne incorporano, celandoli e confondendoli fin nell’intimo dei meccanismi, il “peccato originale”, e ancor più, quello di Caino. Oggi diremmo la sopraffazione, il potere di controllo, il sostituirsi violento al favore di dio…il voler essere come dio…

In questa lettura del libro delle origini (meglio: uno dei libri delle origini, ma le convergenze con altri miti, per esempio Gilgamesh, sono ancora più rivelatrici..) ciò che risalta è il carattere “fondativo”, originario, della alienazione. Come se essa fosse un gene caratterizzante la specie che produca volta volta, nei diversi teatri storici il “fenotipo” corrispondente a quello specifico contesto: così Marx che vede nel lavoro il processo di umanizzazione dell’uomo incontrerà l’alienazione sotto la forma della espropriazione di esso entro il rapporto sociale del capitale….
Cosi Heidegger (e quanti allievi…!!) la rintraccerà nel dominio della scienza e nella tecnica… Così Freud nella “indecidibilità” (o  addirittura improponibilità) della verità-identità del soggetto… Così Foucault e i tanti citati nel testo che vado commentando.
Il contributo fondamentale che ciascuno di loro ha dato è quello di riportare entro lo specifico “fenotipo” analizzato (dai rapporti di produzione, alla psicologia del soggetto..) la declinazione del carattere “genetico” dell’alienazione che accompagna la condizione umana.
Il rischio è invece che chi guarda al loro pensiero si fermi al “fenotipo” e proietti quella “condizione umana” iscritta nel genoma in una “crociata” contingente diretta al contesto ed all’ambiente che impedirebbero la liberazione. E’ tentazione comune e risaputa, cha va dall’uomo naturaliter buono e rovinato dalla civiltà, al suo contrario dell’uomo cattivo che ha bisogno del  potere che lo controlli.

Una ultima citazione biblica. Giacobbe lotta per tutta la notte  con l’angelo, anzi con dio stesso (Genesi 32, 23-33) E non molla. Ne esce sciancato, ma vincitore. “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con dio e con gli uomini e ne sei uscito vincitore”. E mentre lottava avvinto all’avversario, e non lo lasciava andare,  Giacobbe gli dice “non ti lascerò se non mi avrai benedetto”.  In altre parole combatte perché “si dica bene di lui”…
C’è metafora più potente (nella nostra cultura. Credo vi sia traccia assimilabile  nel mito di Gilgamesh..) della “formazione” dell’uomo, del valore e significato della cultura, della “fondazione” dell’impresa umana? La vittoria dell’uomo su dio è segnata dalla “sciancatura”, dalla ferita (chissà se il Voltaire che rifletteva sul dolore irrimediabile e “sragionevole” del terremoto di Lisbona non avesse intuito proprio questo…); e la lotta è per ”essere benedetto” dall’avversario, non per odio nei suoi confronti.
E contemporaneamente l’esito della lotta vittoriosa è l’acquisizione di una dimensione identitaria sociale e collettiva ”da ora in poi ti chiamerai Israele”. La formazione compiuta (bildung) è in dimensione sociale, non individuale. La consapevolezza della sciancatura che accompagna la “costituzione” del soggetto richiama certamente il legame tra formazione e “contemplazione delle cicatrici” che ritroviamo in Adorno, e ancora prima in Tommaso per il quale la formazione è “Forma hominis juxta propria principia”… dunque congiuntamente realizzazione dell’uomo e “potatura di allevamento”.

Per tornate al ragionamento sulla scuola: il processo “istituente” del soggetto (la podestà nell’assegnare significati) fuori dal cospetto di Dio (qui siamo…) diventa parte di quel faticoso costruire che impegna le generazioni di Caino e che trasforma la natura, crea “dispositivi”, fonda città e inventa la scienza e la tecnica, nella avventura di fuggiaschi e scacciati che cercan la strada del ritorno, dei lottatori con l’angelo per essere benedetti, degli “sciancati”. Dei costruttori di torri dispersi dalla perdita dei significati comuni e condannati alla fatica frustrante di ricostruirli…. La formazione, l’istruzione diventano “imprese” come la costruzione delle città. L’opera grandiosa che rideclina nel suo profondo la ricerca del fuggiasco e del cacciato.

Dunque quel processo “istituente” nella stessa crescita della civiltà umana, si ricolloca entro la dimensione  e il disegno “istituito”. Diviene impresa, “sostituzione di dio” al cospetto del quale originariamente si assegnavano i “nomi alle cose”, e dunque “marchiata” della alienazione costitutiva.
Il carattere “istituente” della formazione del soggetto, nella società dei “discendenti di Caino”, accade entro una impresa, una struttura, un contenitore “istituito”. E ciò, fuor di metafora, è tanto più vero quando si guardi alle società moderne dopo la prima e soprattutto la seconda rivoluzione industriale. Il processo “istituente” si rielabora entro un contenitore “istituito”, un “dispositivo”, appunto, e non, o non solo nella ineffabilità della relazione educativa con il maestro.

E tale dialettica costituisce l’humus fondamentale della attività di chiunque operi nella formazione in modo responsabile e consapevole: rielaborare permanentemente (e faticosamente) quella dialettica (forse occorrerebbe ricordarlo a Recalcati..)

Il “passaggio dialettico” è collocabile proprio all’inizio dell’età moderna. Nel pensiero pedagogico greco è la città che costituisce “l’ortopedia del cittadino” (Protagora). I grammatici correggono lo stilo sulla tavoletta ma l’educazione è affidata alla città.
I “sistemi di istruzione” della  modernità nascono dalla storia dei “collegi dei Gesuiti”, cioè la ricostruzione artefatta di una “città virtuale”: entro tale “dispositivo” si “industrializza” la riproduzione culturale (della classi dirigenti, all’epoca). E non si pensi ad una evidenza di autoritarismo e sopraffazione che caratterizza il “dispositivo”… Nel Collegio gesuitico si avvalora l’esperienza formativa della “noità”, si sperimentano tecniche didattiche di valorizzazione delle competenze individuali… (dare sempre una occhiata alla “Ratio Studiorum” la regola dei Gesuiti, prima di magnificare nuove strumentazioni didattiche… si pensi p. es. alla “disputatio” che oggi rieditiamo come innovativa solo perché si dota di strumenti digitali…).
Del resto se si torna a leggere Gramsci (come fa l’autore che sto commentando) si ritrova proprio l’ipotesi di strutture collegiali/convittuali.
Qui importa rilevare che il sistema di istruzione, quanto più è allargato e strutturato, quanto più investe l’universo delle generazioni, e quanto più si “specializza” nell’assicurare la riproduzione culturale sociale, tanto più consolida dispositivi, artefatti organizzativi, attraverso i quali si “cosalizza” il processo formativo e la sua dimensione “istituente”.

Naturalmente riconoscere tale alienazione di fondo, tale dialettica costitutiva tra istituente e istituito non significa avvallare e ritenere equivalente ogni “dispositivo”. Ma quale è (a mio parere ovviamente) l’approccio fondamentale per affrontare positivamente e in termini progressivi tale dialettica? (inevitabile anche solo per il fatto che i sistemi organizzati hanno bisogno di risorse..)

Se la dimensione istituente si sviluppa all’interno di inevitabili strutture istituite (inevitabili nella società contemporanea… certamente finirà, ma come il capitalismo, si sa, ha i secoli contati…) il principio fondamentale di salvaguardia dall’effetto di alienazione del “dispositivo” è che i suoi contenitori strutturati siano i più flessibili possibili garantendo il ragionevole dipanarsi ed esprimersi di quella dialettica cui è affidato il processo di costruzione del soggetto.
Il nostro sistema di istruzione nella sua stratificazione storica ha “aggiunto” la sua funzione sociale di “sistema di cittadinanza” allargato all’universo delle generazioni (la scuola di massa), a quella storica elitaria, mai affrontando una destrutturazione/ristrutturazione legata ad un progetto politico esplicito, lasciando si sovrapponessero istituti, strumenti amministrativi, regole, gerarchie implicite ed esplicite. Si configura oggi come un “dispositivo” caratterizzato da “rigidità” sia amministrative che culturali, sia organizzative che valoriali. Gli esempi sono così numerosi che se ne tralascia inevitabilmente qualcuno. Mi limito da elencare. Il primato del Diritto amministrativo che tutto riduce a “formalismo” di atti, indipendente dai processi reali. La classificazione del lavoro che si esercita entro il dispositivo in tassonomie rigide che celano gerarchie culturali interne: la scala di valore (a partire dalle retribuzioni…) del lavoro formativo dall’infanzia alla secondaria superiore (esattamente inversa rispetto alla problematica di formazione del soggetto).
La classificazione delle competenze dei docenti entro una tassonomia che riflette rigidamente una “architettura” della enciclopedia codificata (e in via di tramonto) delle “discipline.
L'epistemologia del sistema è l’epistemologia delle classi di concorso. Le cadenze temporali e spaziali del lavoro di formazione entro contenitori pseudo tayloristici (le ore di lezione, le classi, le aule..). Il dispositivo è caratterizzato da una grande rigidità e da una conseguente inevitabile “cosalizzazione” dei processi
Ma, come si sottolineava in precedenza, la portata alienante del “dispositivo”, dell’istituito, si insinua ben all’interno dello stesso processo istituente: l’esempio fondamentale è quello del curricolo.
Esso è l’artefatto fondamentale attorno al quale è “istituito” il processo di formazione fin nel suo intimo. Rispetto alla “produzione” di sapere, alla “ricerca” il curricolo è “prodotto metabolizzato”.
Il soggetto nella sua evoluzione sta di fronte ad esso confrontandosi con un artefatto.
Non può che essere così, ovviamente, se il sistema (il dispositivo) deve assicurare socialmente la riproduzione dei significati.
Ma la formazione, si è detto, è l’acquisizione della autonomia nella assegnazione dei significati, e dunque nella potenziale alterazione di quelli ereditati.
Più è denso metodologicamente e in termini di contenuti il curricolo, più tale dialettica viene mortificata, e il dispositivo manifesta la sua funzione alienante, ben celato dietro la “obiettiva” riproduzione dell’enciclopedia.
Se si ricostruisce la storia della metodologia curricolare (nel nostro paese in sostanza dalla seconda metà degli anni ’70) si possono mettere in luce aspetti assai curiosi che molto possono insegnare circa la portata di quella dialettica. Un esempio per tutti: tra i sostenitori più decisi della metodologia curricolare troviamo alcuni dei movimenti innovativi che più di altri avevano sposato la causa dell’istruzione di massa (tra i quali il CIDI che edita la rivista di cui stiamo commentando un articolo). Se ne comprendeva, e giustamente, la potenzialità di maggiore efficacia ed efficienza dell’insegnamento, di un dimensione più collegiale (la programmazione didattica, tanto predicata..).

Ma, e questo è il pendolo della dialettica, non se ne comprendeva la struttura artefattuale, l’essere parte del dispositivo inserita nell’intimo del processo formativo e dunque con un elevato potenziale alienante. Finchè agìta da docenti entusiasti e attenti, impegnati nell’impresa di riforma, la metodologia curricolare opera come leva rinnovatrice. Ma in altre condizioni storico-professionali…diventa strumento che sembra legittimare la conservazione e il carico selettivo.
Si guardi alla vicenda del lunghissimo processo di ridefinizione di quelle che sono state chiamate “Indicazioni per il curricolo”. Le contraddizioni che presentano sono istruttive: la premessa “moriniana” è smentita dal fatto che si mantiene la frammentazione per discipline; Si mantiene l’ordinamento frammentato dall’infanzia alla primaria alla secondaria di primo grado (si mantiene il “dispositivo” stratificato storicamente); si complicano linguisticamente le categorie interpretative per esempio coniando “i traguardi per le competenze”; si elencano, per esempio,  le caratteristiche di uno studente in uscita dalla secondaria di primo grado formulando una sorta di “ritratto idealtipico” di un adolescente inesistente, ma al quale dovrebbe traguardarsi il soggetto reale…(un esempio di dispositivo autoritario? Consiglio di rileggere quel capitolo delle indicazioni.. )
Mi sembra che tutto ciò smentisca alla radice, profondamente, il principio base: la dialettica del processo formativo di carattere istituente rispetto al contenitore istituito e organizzato nel dispositivo, può essere rispettata e promossa se i contenitori dell’istituito si caratterizzano per flessibilità e adattabilità, non recidendo spazi tempi dinamiche del processo istituente e, nel contempo, assicurando strumenti operativi efficaci ed efficienti (a partire dal lavoro docente).

Potremmo, utilizzando la chiave concettuale proposta ripercorrere analiticamente tutti gli aspetti del nostro sistema di istruzione, ma non è certo qui il caso.
Personalmente ho guardato alla autonomia delle istituzioni scolastiche proprio come ad una possibile cesura rispetto alla rigidità e stratificazione del sistema. Un punto di partenza che avrebbe dovuto/potuto innescare il processo di destrutturazione/ristrutturazione sia degli apparati che dei significati.
Ho visto in questi anni un processo di transizione incompiuto, contrastato  non solo da avversai inevitabili (e i in qualche modo necessari nel dipanare tale dialettica) come quelli insediati in Viale Trastevere, ma anche, paradossalmente da parte del movimento e della opinione democratica nella scuola (non a caso il Ministro della autonomia fu abbattuto da fuoco amico..).
Ho visto predicare la necessità della riforma della scuola è contemporaneamente il mantenimento della rigidità dell’apparato in chiave “difensiva”: comunque entro l’apparato si riproduce una più o meno larga distribuzione di protezioni e difese. L’innovazione è sempre destabilizzante. E una riforma sulla quale siano tutti d’accordo è solo cosmesi.
Ho visto consolidarsi una sorta di schizofrenia politica che in nome della necessità di una “vera” riforma, preferiva il mantenimento della realtà esistente.

Io non ho proprio nulla da difendere del Disegno di Legge in discussione: penso che il suo nocciolo sia la immissione in ruolo del personale e che attorno ad esso si sia strumentalmente e improvvidamente costruito un mix cui si è enfaticamente applicata l’etichetta di “riforma” (la caccia alla volpe..).
Penso che alcuni provvedimenti di cui si parla sarebbero in gran parte riconducibili al Regolamento dell’autonomia che (cosa rara per molti dispositivi normativi) conserva potenzialità ancora largamente inesplorate. Ma capisco che immettere risorse umane entro il “dispositivo” e nelle quantità di cui si discute, lasciando apparentemente intatto il dispositivo stesso sia un poco come spendere risorse per una automobile scassata. E allora si cerca almeno di “creare movimento”.
Ma, detto questo (miserie, da entrambe le parti,  della politica politicata) e a prescindere dallo schieramento politico contingente, ritrovo in quel dibattito sintomi pericolosi e testimonianze di “veduta corta” che mal dispongono verso processi di effettiva innovazione che comunque necessitano della lunga durata.

La “frustrazione ringhiosa” è cosa diversa dalla opposizione. Lo sforzo di comprensione analitico che può e deve alimentare lo sguardo critico, è cosa diversa dal porre le proprie opinioni come “postulati” e poi cercare “le prove” su singoli aspetti delle opinioni avverse (per esempio: Renzi è interprete del capitale e delle istanze di privatizzazione – postulato;  e dunque aumenta il potere dei Presidi –prova. ?!).
E’ con dispiacere che vedo l’articolo che ho lungamente commentato muovere nella stessa direzione: la strumentazione critica che rileva la funzione strutturalmente alienante del “dispositivo” (di qualunque dispositivo rispetto ai processi costitutivi della soggettivizzazione)  mutuata da una serie di autorevoli pensatori, invece di volgersi alla analisi e denuncia dell’esistente e della sua permanente deriva  “cosalizzante” del processo di formazione, è utilizzata per sostenere il carattere autoritario di “quelle” proposte sedicenti riformatrici… Uno spreco di scienza.
Non metterebbe conto neppure sottolineare tale mortificazione, se non vi si aggiungesse una contraddizione che tanto acuto osservatore non può ignorare: in nome di quella analisi non solo si convalida inevitabilmente l’esistente (come se, non ostante i guasti, fosse comunque migliore di un futuro incerto), ma si finisce contraddittoriamente per sostenere elementi che appartengono proprio alla sfera del “dispositivo”. Due esempi: si richiama la necessità del contratto di lavoro. Giustamente, come ovvio. Ma se c’è uno strumento che ha carattere inevitabilmente “cosalizzante” è proprio il contratto, a meno che non lo si reimposti aumentandone i caratteri di flessibilità operativa, di erogazione entro contenitori non irrigiditi e segmentati… Sono questi gli indirizzi strategici? Non mi pare, anche se amerei essere smentito… Il carattere istituente del processo ed il richiamo al contributo “creativo” del docente riprecipitano nella tabellizzazione meticolosa di ore di insegnamento, non insegnamento, programmazione, cattedra..classi di concorso.. ecc.. ecc..

Secondo esempio: assicurare al quel processo istituente, permanentemente in pericolo di mortificazione nel “dispositivo”, il “docente giusto al posto giusto”. Un problema fondamentale, cui noi rispondiamo tradizionalmente con strumenti di tipo statistico “oggettivo” (“cose”, non persone).Voti nei titoli di studio, anni di anzianità, cattedre e classi di concorso. Un impiegato dell’amministrazione con tale strumentazione distribuisce le “persone giuste al posto giusto”.
Certo può darsi che ciò sia inevitabile, in assenza di altra strumentazione; ma predicare che tale strumento sia l’unico è altra cosa.. Un conto è dire che non sappiamo fare altro, un conto è sostenere che ciò che sappiamo fare sia la cosa giusta…
Non sono per “la chiamata” (ammesso che qualcuno lo sia: molti invece ne agitano il fantasma…); ma le graduatorie invocate come una garanzia!… ma garanzia di chi? E ogni altro possibile strumento è invece figlio della egemonia mercantile e privatistica? Ma davvero?

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