Direzione didattica di Pavone Canavese

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L' intervento dell'ispettore Alberto Alberti

è ripreso (per gentile concessione dell'editore)

dalla Rivista I diritti della scuola

(n. 2 del 15.09.1998)

I diritti della scuola è pubblicata dal gruppo editoriale Petrini

 

La cifra didattica dell’autonomia

La corrispondenza tra l’antinomia tradizione o insegnamento/ricerca
e l’antinomia centralismo/autonomia.

 

Alla ricerca della didattica perduta.

L’idea di autonomia ha segnato da almeno un decennio e segna ancora oggi il dibattito sulla scuola in Italia. Si tratta di un orizzonte ricco di implicazioni, amministrative e non, tutte di grande portata; ma non si può dire che siano, fin qui, state esplorate tutte allo stesso modo. I problemi di gestione dell’unità scolastica, e i rapporti tecnico/giuridici fra gli organi dell’apparato statale e i soggetti forniti di personalità autonoma sono le materie più frequentemente discusse e studiate. Invece quelli connessi alla natura e alla qualità del processo formativo non vengono presi in attenta considerazione. Dei docenti e della loro opera si parla poco e quasi esclusivamente in quanto figure sussidiarie al capo d’istituto, collaboratori o componenti dello staff. Del bambino nell’autonomia non si sente dire nulla.
Anche per questa via, perciò, si rischia di perdere la cifra didattica della scuola.
Per l’attività didattica quotidiana, l’autonomia non può essere uno strumento tecnico/giuridico indifferente. Piuttosto deve rappresentare una sorta di principio motore che innesta diverse serie di eventi formativi speciali. L’insegnante e l’alunno (anzi, soprattutto l’alunno, direi) debbono pur sentirsi coinvolti in un movimento di trasformazione in cui si costruiscono, anche per loro, nuovi ruoli e nuove funzioni.
E non si tratta solo di sensazioni personali. Penso, infatti, che ci sia bisogno di una nuova paideia, di una nuova concezione del processo formativo nel suo concreto farsi, nel momento e nel punto esatto in cui si attua. L’attenzione (non solo del legislatore, ma anche degli esperti in educazione e dell’opinione pubblica in generale) deve spostarsi dagli uffici della direzione/presidenza e della segreteria, all’aula o, meglio, all’aula/laboratorio.
La ricerca della didattica perduta passa perciò anche attraverso l’individuazione di una specifica qualità del processo di apprendimento direttamente riferibile all’idea di autonomia.
Per condurre il mio discorso mi servirò dell’antinomia "ricerca/insegnamento". Non mi riferisco alle tecniche didattiche che sono comunemente designate con tali nomi. Parlo in termini assoluti, per evocare due atteggiamenti mentali di fondo – due modi di concepire il mondo e se stessi – con cui gli uomini si rapportano (a tutto l’universo, ma qui, per chiarezza) alla conoscenza.
In questo senso, lo spirito di ricerca si identifica con la vita e lo sviluppo. é proprio di una mentalità vivace e inquieta che non sta mai ferma nè si accontenta di quello che va facendo. Il suo motore è il dubbio, l’interrogazione. Ubbidisce alla necessità di mettere in discussione tutto o almeno una parte di quello che già conosce, non solo perchè nel profondo è diffidente, ma anche perchè, consapevolmente, teme che l’accumulo e il consolidarsi di contenuti e strutture formali standard, omologati e accettati da tutti, portino alla "sclerosi progressiva degli elementi vitali" di un sapere o di una disciplina. Lo scienziato, il ricercatore, si assume il compito di evitare questo rischio, individua i punti critici in cui il sapere consolidato non regge al confronto con le ondate di movimento e di innovazione che si sviluppano intorno, e tenta di procedere verso nuovi assetti conoscitivi e nuove certezze, in merito a contenuti, statuti, regole (anch’essi, a loro volta, soggetti, in un flusso continuo, a ulteriori processi di innovazione).
L’insegnamento, al contrario, si fonda sulla tradizione e la stasi. Come atteggiamento mentale esprime fiducia e tranquillità. é la sicurezza tipica di chi preferisce basare le sue manifestazioni di pensiero sul già noto, sul certo e stabile, e sente il dovere non solo di conservare memoria di quanto ci hanno lasciato le generazioni passate, ma anche di consolidarlo e perpetuarlo. Come oggetto di studio, qui, il sapere non può non essere dotato di una sua struttura formale organica, ordinato in un sistema gerarchico, sistematizzato, valido in tutti i tempi e tutti i luoghi. Ogni sua branca o partizione presenta un impianto strutturato, con precisi contenuti e "leggi" (epistemologiche, euristiche, ermeneutiche), che sono da accettare nella loro autenticità, in quanto frutto di un processo di formalizzazione di durata plurisecolare.
L’insegnamento diventa il principale mezzo per ribadire nella loro organizzazione specifica le conoscenze acquisite e, mantenendole intatte, consegnarle alle generazioni future.
A ben vedere si tratta di due principi contrapposti che, configurati in termini assoluti, appaiono inconciliabili e dilaceranti, fino alla negazione reciproca: chi insegna giudica "errore" ogni novità, ogni imprevisto; chi fa ricerca non accetta la ripetizione del già noto.
Sappiamo bene che nella vita di tutti i giorni il contrasto non è cos" devastante. Empiricamente troviamo che l’eredità del passato e la ricerca del nuovo non sono inconciliabili tra loro. Essi, anzi, continuamente si incontrano, si confrontano, si scontrano, si integrano, trapassano l’uno nell’altro. Succede in ogni occasione e circostanza. Anche nella scuola, ovviamente. E tuttavia, nella scuola, le due polarità sono per così dire istituzionalizzate: da una parte l’insegnante tenuto a far apprendere oggetti del sapere, nei termini e nei modi che una "tradizione" secolare ha definito, ordinato e consolidato; dall’altra il bambino/ragazzo che rivendica un proprio spazio di libertà, ritmi e misure di attenzione variamente configurati, diritti di trasvolare da un punto all’altro dell’universo affettivo e cognitivo, e, in definitiva, una sostanziale irriducibilità all’ordine stabilito.
L’antinomia "tradizione/ricerca" è il cuore (antinomico) della didattica. Il processo formativo può essere descritto, appunto, come il terreno di scontro/incontro di questi due principi contrapposti, sia pure in modo dialettico.
Tutto questo non è una novità. Da almeno un secolo, il movimento di rinnovamento della didattica che, pur nelle sue molteplici e varie manifestazioni, è tuttavia complessivamente denominato "attivismo" (o scuole attive), ha messo al centro della sua opera, con la scoperta della soggettività dell’allievo, proprio il concetto di ricerca e di scoperta.
Non voglio ripetere le considerazioni che da Dewey in poi si sono fatte in proposito. Voglio piuttosto dire che c’è una certa corrispondenza tra l’antinomia "tradizione (o insegnamento)/ricerca" e l’antinomia "centralismo/autonomia".
Con buona approssimazione si può vedere nel centralismo un modello organizzativo in cui si esprime la concezione della conoscenza di tipo "classico".Per un governo dell’istituzione valido su tutto il territorio nazionale, non si può fare a meno di norme e procedure di portata generale, caratterizzate cioè dal segno dell’uniformità.
Questa uniformità si comunica dal versante organizzativo a quello didattico e formativo. La gerarchia degli uffici si rispecchia in gerarchia di valori. L’insieme dei programmi è centrato sulle materie di studio codificate e universalmente accettate come forme vigenti di pensiero e di comprensione della realtà, a cui tutti sono tenuti a rapportarsi, anche coattivamente (obbligo di studiare, punizioni, bocciature). L’istruzione, l’obbedienza, la conformità, il pensiero convergente ecc. sono valori cardine del potere centralizzato.
Al contrario, il riferimento all’ambito locale, che deve caratterizzare l’esercizio dell’autonomia, appare più congeniale all’idea "romantica" della conoscenza, dove l’educazione è "parte integrante della vita piuttosto che preparazione al mondo degli adulti". L’accento è posto sull’esperienza personale, la creatività, la libertà di ricerca, la scoperta. Si assegna un ruolo formativo determinante al vissuto, la prospettiva di vivere atteggiamenti e valori, situazioni e progetti della vita reale. Più che la cultura accademica, conta la cultura antropologica. La didattica diventa ricerca ed esplorazione dei segni culturali del territorio per rintracciarvi e far emergere creativamente il sapere disciplinare.
In questa prospettiva, il procedere per progetti di indagine appare didatticamente inevitabile.

 

Note

 

  1. Alberto Asor Rosa, Formale/informale, in AA.VV., Formazione e curricolo, La Nuova Italia, Firenze 1994, p. 19.
  2. Da questo punto di vista il sapere viene inteso non nella sua manifestazione formale e sistematica, ma come un processo di formalizzazione, di produzione di forma, nel passaggio da una situazione "informale" ad una struttura "formale", a sua volta assunta come "informale" nella ulteriore ricerca di forma. Cfr. A. Asor Rosa, loc. cit.
  3. "Classico" e, più oltre, "romantico" nel senso descritto da D. Lawton in Programmi di studio ed evoluzione sociale (1973), Armando, Roma 1976.

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