25.10.2011
Dimensionamento e organizzazione
Franco De Anna
Premetto di essere totalmente
d’accordo sia con quanto scrive Stefanel,
sia con l’ispirazione di fondo dalla quale muovono le sue osservazioni.
Il “dimensionamento” è, all’origine, un processo reso necessario dalla
stessa istituzione dell’autonomia scolastica. La novità radicale costituita
dall’autonomia comportava infatti la individuazione delle dimensioni
ottimali che questo nuovo “ente pubblico” (tale è la scuola autonoma)
avrebbe dovuto assumere per svolgere il ruolo previsto e per farlo con
“efficacia, efficienza, economicità”.
Non si dimentichi che proprio la proliferazione degli enti pubblici (quello
che Sabino Cassese chiamò “l’entismo”) ha costituito storicamente uno dei
fattori di inefficienza e di spreco che per anni hanno aumentato i costi
della macchina pubblica italiana, ne hanno opacizzato il funzionamento, lo
hanno allontanato da sensate procedure di controllo e di rendiconazione.
La scelta che fu fatta allora di caratterizzare le istituzioni scolastiche
autonome come “enti pubblici”, creandone diecimila nuovi in controtendenza
con lo sfoltimento che era ed è in opera dai tempi di Massimo Severo
Giannini, come strumento di bonifica della Pubblica Amministrazione, (una
scelta discutibile, non obbligata, e che avrebbe avuto altre opzioni
possibili..) doveva essere accompagnata da preoccupazioni e iniziative che
almeno ne individuassero dimensioni tali da consentirne una gestione
efficace ed efficiente, oltre che aderente alle funzioni istituzionali.
I parametri che allora si individuarono (600 alunni) corrispondevano in
realtà ad una sorta di “media” della realtà, e non, come sarebbe stato
necessario, ad un effettivo accertamento delle dimensioni ottimali per una
“impresa” come la scuola.
Per inciso: sappiamo individuare tali dimensioni ottimali per qualunque
impresa in qualunque settore (sono infatti diverse da settore a settore: una
impresa petrolchimica ha dimensioni ottimali diverse da una per esempio di
minuteria meccanica). Ma non esistono studi seri per individuare quelle
ottimali per la scuola? E perché? Provare a rispondere alla domanda con
qualche onestà intellettuale e non con richiami a specificità
autoassolutorie….
Pur tuttavia per oltre dieci anni abbiamo lavorato sostanzialmente in deroga
a tali indicazioni dimensionali, già per sé discutibilmente al ribasso.
Una deroga assunta sia dall’amministrazione scolastica sia dalle Regioni che
progressivamente hanno acquisto le competenze relative.
Oggi si grida, e giustamente, al potenziale esproprio di tali competenze
contenuto nei recenti provvedimenti governativi. Ma mi chiedo quante e quali
Regioni in questo decennio hanno predisposto, con l’autonomia giustamente
rivendicata e sacralizzata dalla riforma costituzionale, un effettivo
progetto di pianificazione territoriale del servizio scolastico.
Se dieci anni vi sembran pochi…
Oggi i nodi decennali vengono al pettine sotto l’incalzare della “crisi
fiscale” dello Stato, per altro preannunciata almeno dalla metà degli anni
’80, e “arricchita” da tutti gli altri elementi di crisi maturati negli
ultimi anni di delirio finanziario. E si sa, se al pettine giungono nodi
intrecciati da tempo, sempre più doloroso sarà il scioglierli.
In realtà le proposte avanzate hanno il medesimo difetto della deroga
utilizzata per (non) affrontare il problema negli anni trascorsi: la
“cecità”.
Lo dico sempre ed anche stavolta: la cecità con cui l’amministrazione
“taglia” è identica a quella con la quale l’amministrazione “spende” (o ha
speso).
E’ ovvio che una organizzazione di
1500 alunni non è la stessa di una di 300 alunni. Ha ragione, su questo,
Antonio Valentino. Ma quale vogliamo, la prima o la seconda? E nel caso
siamo, come Stefanel, per apprezzare le “economie di scala” (da tutti i
punti di vista che lui elenca) per una scuola “più grande”, a quali
condizioni organizzative?
Come ovvio ad un ampliamento delle dimensioni quantitative non può che
corrispondere una "complessificazione" della struttura organizzativa. Ma in
quali direzioni?
Vi sono elementi di “cultura organizzativa” che, sotto tale profilo, non
sono specifici della scuola, ma condivisi da ogni organizzazione: la
struttura ed il contenuto della ripartizione dei compiti decisionali ed
operativi; il carattere della direzione; il carattere della comunicazione
interna; i repertori di ruoli e declaratorie professionali necessari.
Troppo lungo, qui, riprenderli tutti. Mi limito a citarne tre e sempre sotto
il profilo problematico.
Il primo è quello sul carattere
della direzione. Quale profilo per il ruolo del dirigente scolastico?
Qui uso il termine “profilo di ruolo” con la semantica propria utilizzata
nel pensiero organizzativo: il profilo di ruolo non è una “declaratoria
formale”, sancita normativamente e dunque “erga omnes”, come quella che si
può reperire in un bando di concorso. Il “profilo di ruolo” è ciò che
l’organizzazione si aspetta da chi vi opera. Quella specifica
organizzazione.
Io trovo di grande interesse le esercitazioni di riflessione, per esempio,
sulla “leadership pedagogica”. Ma intanto occorrerebbe rispondere alla
domanda: cosa ci si aspetta da un dirigente che sia responsabile di una
struttura di 1500 alunni, di oltre un centinaio di persone che, a vario
titolo vi operano, di un certo numero di sedi locali, di un “prodotto” che
risponde ad un diritto fondamentale di cittadinanza e che dispone di un
interlocutore immediato costituito dalla comunità locale di riferimento?
Intorno all’anno 2000, con l’innovazione costituita dall’autonomia, gli allora Presidi e Direttori furono coinvolti in una grande (e positiva) stagione di riflessione professionale che fu la premessa per la loro trasformazione in Dirigenti Scolastici.
A mio parere dovremmo organizzare
una stagione simile, contrassegnata dalla modificazione dimensionale
“dell’impresa scuola”, se avessimo il coraggio di non ritrarci semplicemente
in una trincea tesa a “limitare i danni” (e con una oggettiva e progressiva
ritirata) e a rinviare i processi.
Occorrerebbe avere il coraggio di “rilanciare” immettendo “intelligenza di
pianificazione territoriale” entro un meccanismo di taglio strutturale il
cui difetto fondamentale è la “stupidità quantitativa”. E su tale
intelligenza rilanciare sulla figura e sul ruolo del Dirigente Scolastico,
con le necessarie iniziative sia di elaborazione culturale che di
formazione.
La seconda considerazione riguarda
la complessificazione della struttura gerarchica e di suddivisione dei
compiti di direzione che il mutamento dimensionale comporta.
Nessuna organizzazione sensata regge una struttura a due livelli: un
“dirigente” ed uno strato orizzontale di “pari”. Tanto meno se i “numeri” si
amplificano.
Certo esistono le figure delle funzioni strumentali, dei collaboratori, dei
“vicari”. Costituiscono l’esperienza fatta sul campo in questi anni, ma sono
segnate inevitabilmente dal paradigma organizzativo primario (il dirigente e
il “gruppo di pari”). Ne sono segnate per meccanismi di individuazione (le
deliberazioni del “gruppo di pari” mistificate da “democrazia” e invece
spesso segnate da dinamiche collettive non proprio esemplari); per processi
di consolidamento professionale; per incentivi e riconoscimenti, economici e
non.
Consolidare e “rendere organici” i livelli organizzativi “intermedi”e le
responsabilità connesse in funzione di una organizzazione ampliata e
complessificata.
Del resto, detto tra parentesi, la leadership consiste sempre nella
“gestione del potere”. Negare tale dimensione è solo cercare la foglia di
fico. Come si gestisce il potere rappresenta il carattere, la miseria o la
nobiltà della leadership. Un leader che sappia saggiamente distribuire il
potere lo esercita al massimo grado. E un leader che sappia individuare e
“trarre a sé” la leadership pedagogica (che la eserciti lui stesso o che,
più realisticamente, la individui in un o in un gruppo di docenti) sarà
effettivamente tale.
La terza questione riguarda la
gestione delle risorse. Il dimensionamento (se fosse sensatamente opera di
studiata pianificazione territoriale e non “taglio lineare”) dovrebbe
costituire l’occasione per rivedere profondamente i modelli di gestione.
Dalle risorse umane a quelle economiche.
Per esempio, rispetto alle prime, sfruttando completamente le potenzialità
contenute nello stesso Regolamento dell’autonomia e raramente o mai
utilizzate: chi impedisce, per esempio in un istituto comprensivo o
omnicomprensivo, come lo vorrebbe Stefanel (e sono d'accordo), l’uso
“verticale” della professionalità docente ?
Perché le competenze particolari di un maestro non possono essere utilizzate
nel corso della media, quando siano utili? Perché un professore di inglese
della media non può essere utilizzato per l’inglese della elementare invece
di ritrovarsi con maestri che hanno fatto un corso di inglese di 300 ore e
che al massimo hanno imparato l’inglese ma certo non ad insegnarlo? E che
dire “dell’organico di rete” la cui possibilità è per altro delineata nello
stesso regolamento dell’autonomia?
Per quanto attiene alle risorse
economiche la stagione del dimensionamento potrebbe essere anche quella del
superamento di molti dei caratteri del regolamento contabile e finanziario
delle scuole che assimila la loro gestione a quella del Bilancio dello Stato
e ai suoi vincoli formali.
Di nuovo il richiamo al Regolamento dell’autonomia e, a questo proposito, al
dichiarato (e mai rispettato) carattere “budgetario” del finanziamento delle
scuole e della gestione delle loro risorse.
Vi sono anche qui responsabilità e
corresponsabilità complesse. Tutti sappiamo, per esempio, che, da
quest’anno, gli esiti della contrattazione di istituto vengono delegati, per
la loro gestione, al superiore Ministero stesso. Insomma, le “parti”
contrattano e decidono localmente. L’applicazione di ciò che contrattano
viene rimandata a Roma.
Gli esiti sono certamente i medesimi (a parte il sacrificio di flessibilità
di cassa degli Istituti). Ma il “vulnus” anche simbolico all’autonomia mi
pare evidente. Non ho sentito un neppur flebile lamento da parte sindacale.
(Semmai sollievo per l’alleggerirsi relativo dei compiti di segreteria)
Non faccio il sindacalista (da tempo) e neppure sono membro di una associazione professionale della scuola. Ma credo che, in una fase di “stretta” delle risorse, comunque la si governi, o “alla Tremonti” o “alla opposizione” (!?), sia triste strategia quella di “concordare gli arretramenti” progressivi ed ineliminabili (scuola contro pensioni? pensioni contro occupazione giovanile? Giovani contro tickets sanitari? Muri di Pompei contro prezzo del cinematografo?….).
Bisogna sparigliare le carte, e
saperlo fare. Rilanciare cambiando il gioco.
Per esempio: massimo rigore nella ricerca del risparmio scambiato con
massima dilatazione delle potenzialità dell’autonomia. Uno scambio
possibile. Ma questo è, con tutta evidenza, un problema “squisitamente”
politico.