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LA BUONA SCUOLA OGGI: Documenti e interventi su  "Piano Renzi" (settembre 2014)

(06.01.2016)

Un docente indaffarato
di Franco De Anna

Sono colpito dalla proliferazione di elaborazioni e proposte che si misurano con l’obiettivo di riconfigurare il “lavoro” del docente e soprattutto con l’istanza del “modellizzare” che accompagna molte di esse.
Quasi a dovere descrivere quale dovrebbe essere il “buon docente” attraverso una opportuna declaratoria di impegni e funzioni e dunque di “padronanze” tecniche, enumerabili in una compiuta “scheda” o in potenziale “foglio di lavorazione”.
Si tratta di elaborazioni assai diverse e qualitativamente non confrontabili: cito solamente quelle di maggior interesse segnalando gli articoli di Giancarlo Cerini sulla “formazione in servizio” e gli schemi proposti sul medesimo argomento da Maurizio Tiriticco.
E ancora le elaborazioni circa la “didattica per competenze” (segnalo solo intervento sempre di Giancarlo Cerini  e quelli dell’amico Tiriticco, troppo numerosi per specifiche citazioni).
Collaterali alla problematica del (ri)definire il lavoro dei docenti sempre di Maurizio Tiriticco il “Poveri insegnanti. Troppe sigle e poca didattica”  e l’interessante “Analfabetismo di partenza” sulle prospettive proprio della scuola digitale.
Ma attorno a contributi di tale levatura vi è una “nube” di interventi, commenti, proposte, rivendicazioni ecc. Tutte dirette a ri-vedere, ri-scrivere, ri-formare il lavoro degli insegnanti.

L’analisi delle riflessioni e delle proposte  degli autorevoli colleghi citati mi porterebbe a riconoscere di essere sostanzialmente e in qualche caso pienamente d’accordo con le loro argomentazioni, ma devo sinceramente riconoscere che mi rimane un sostanziale fondo di malessere e di “presa di distanza” irrisolta.  Per tentare di far emergere tale retro pensiero, provo a sviluppare qualche argomento, raggruppando la riflessione attorno a tre questioni: l’essenza pedagogica fondamentale del lavoro docente; le sue varie dimensioni e strumentazioni tecniche; il riflesso particolare che la digitalizzazione proietta sugli elementi precedenti.

La dimensione pedagogica.

Il lavoro del docente ha un ineliminabile “cuore pedagogico”, Naturalmente tale cuore può “funzionare bene”, assistere e ispirare il lavoro concreto: ma può anche verificarsi qualche insufficienza cardiaca o anche semplicemente impossibilità di reggere alla fatica del lavoro stesso.
Ma se vogliamo caratterizzare l’impegno dell’insegnare, a monte di ogni definizione funzionale, di ogni foglio di lavorazione, di ogni tecnica operativa, occorre richiamare tale dimensione, e mantenere esplicito riferimento ed ispirazione ad essa.
Quale che sia la scuola di pensiero pedagogico adottata, Docere significa sempre, qualunque sia la disciplina di insegnamento, qualunque età abbia il discente, misurarsi e impegnarsi nella “relazione educativa” e saper cogliere di essa tutte le plurime dimensioni da esplorare.

La relazione educativa è infatti e contemporaneamente: una relazione uno-a-uno. Una relazione uno-a-molti. Una relazione molti-a-molti.
Tale pluralità relazionale è declinata su entrambi i referenti della relazione: tanto sul fronte del docente (che deve saper esplorare tale pluralità padroneggiandone la dinamica) quanto del discente che su tale dinamica deve “imparare” ed esercitare progressive capacità di “padronanza”.
Ma la relazione educativa è una relazione “asimmetrica” e tale asimmetria si proietta sull’intera pluralità relazionale prima ricordata.
Come tutte le relazioni asimmetriche anche quella educativa è “intrinsecamente dolorosa” (il dolore della fatica, ma non solo..), nel senso che essa “forza” lo scambio tra i soggetti della relazione, incanalandolo entro scopi, finalità, consapevolezze che non sono guidati dalla reciprocità di un comune “principio di piacere”, ma da scopi, finalità, traguardi da raggiungere, rispetto ai quali da un lato della relazione vi è effetto di padronanza, dall’altro lato invece tale padronanza è in fieri, in costruzione e in alcuni momenti assolutamente inconsapevole.
Il “dolore” di tale relazione, come per tutte le relazioni asimmetriche necessita di “cura”, necessita di “clinica”.
Uso qui il termine “clinica” nel suo etimo originario (kliniké tèkné) ovvero “l’arte di curare chi è a letto”, con l’avvertenza che il letto non è solo il luogo della sofferenza o della malattia, ma anche del riposo e…di altro. Vorrei scongiurare ogni approccio patologico: la sofferenza della relazione educativa non è “malattia” ma “fisiologia della crescita”, fatica dello stretching necessario all’apprendimento. Dunque “clinica” è, in questa accezione, “chinarsi su chi giace” e prendersene cura.
Naturalmente poiché stiamo parlando non di un “precettore” individuale, ma di un docente che opera in una organizzazione collettiva e con un “pubblico” di discenti, tale approccio di cura non si limita alla relazione uno-a-uno (dimensione radicale, mai accantonabile pur nella fatica che comporta) ma si estende alle altre dimensioni. Ovviamente l’estensione di tale approccio alla relazione educativa su “multipiano” restituisce l’immagine di complessità che ha il lavoro del docente.
Non posso in questa sede approfondire l’analisi, ma mi pare evidente che entro tale estensione si possano trovare “iscritte” molte suggestioni che spesso sono articolate separatamente e segnalano grappoli di “competenze” che il docente dovrebbe avere: da quelle comunicative a quelle del “reggere la rappresentazione d’aula” a quelle del “coordinare gruppi”. Sono però convinto che l’appropriato “dimensionamento” di tali competenze sia condizionato e acquisti appropriata fisionomia e contenuto, dalla assunzione di quella radicale e fondamentale scelta “clinica”.
Del resto alle radici stesse del pensiero pedagogico la dimensione plurima a collettiva della formazione integrava l’anima stessa del rapporto maestro-allievo. La dimensione della “noità” alimenta la relazione educativa attraverso una “clinica” che è altrettanto fondamentale di quella dedicata alla relazione uno-a-uno. E, almeno per la nostra tradizione, quella noità si compie nella dimensione formativa della polis (in altre culture il rapporto maestro-allievo è monodimensionale ed “ineffabile” la sua proiezione: penso alla tradizione buddista ma anche a quella del Talmud)

Tutto ciò significa che naturalmente si può (e si deve) cercare di “imparare” a fare il docente, acquisendo competenze specifiche e analiticamente individuate (come fanno i colleghi citati precedentemente nei loro lavori) ma che vi è una condizione di fondo, sulla quale si iscrivono e acquistano senso tali apprendimenti professionali, costituita dalla dimensione clinica, la cui acquisizione è qualche cosa di più e di diverso dall’apprendere da qualche manuale.
In altre parole io comprendo lo sforzo di definire una sensata “formazione in servizio” ma vorrei che fosse chiaro che essa non sa, ne può, sostituire un percorso formativo di accesso (che solo una cattiva approssimazione qualifica come “iniziale”) che non può che essere assai complesso e declinare congiuntamente formazione, apprendimento, esperienza guidata, motivazione, adeguata e paziente supervisione…
In modo non dissimile altre professioni “di cura” come il medico o lo psicoanalista…
Il capitolo “formazione iniziale” della docenza fa parte di una storia piena di tristezza politico-istituzionale che non voglio riprendere. Mi limito a ricordare un concorso di responsabilità che hanno accompagnato quelle squisitamente politiche e che investono l’Università, la scuola stessa, le organizzazioni collettive della cultura scolastica.
Ciascun soggetto con le proprie convenienze che, tra conflitto e mediazione, lasciano ancora sostanzialmente aperto il problema fondamentale: quale formazione per i docenti, capace innanzi tutto di rispondere a quella dimensione pedagogica e clinica che costituisce il fondamento del loro lavoro? E quale accertamento, selezione, supervisione necessari ad assicurare il buon funzionamento del “cuore pedagogico” della professione…
Certo capisco che occorra lavorare in permanente “mediazione” e ammiro i colleghi che ne hanno la pazienza; ma l’insufficienza della formazione iniziale dei docenti, in particolare nella dimensione clinico pedagogica, “trascina” l’impegno della formazione “in servizio” su un terreno improprio nel quale si vorrebbe tentare di porre rimedio alla prima (ma la formazione in servizio sarebbe altra cosa..). Con l’aggravante che il problema si sviluppa e si riproduce nell’arco temporale della carriera di un docente (e in molti casi ciò significherebbe non “formazione  ma “riconversione”).
Ma, reciprocamente e proprio per ciò, occorrerebbe mantenere la soglia critica sufficiente a non confondere una “toppa” (anche se ben ricamata) con un “vestito nuovo” e a non lasciar cadere l’urgenza per una formazione iniziale appropriata, anche se ciò significa impegnarsi in un progetto che darà risultati spostati nel tempo, (E si sa, purtroppo, la politica pubblica attuale ha spesso il difetto oggettivo della “veduta corta”).

Il cuore e le tecniche

Per qualcuno la didattica è la “pedagogia in atto”. Semplifico così, attraverso un improponibile costrutto gentiliano, una sovrapposizione impropria che vedo in opera in tanti tentativi di ri-scrivere il profilo del docente a partire dalla definizione di tecniche e strumenti, che appartengono alla didattica, non alla pedagogia.
Considero il “mestiere del docente” come quello di un buon artigiano, sicché son più che convinto che sia indispensabile che la sua “borsa degli attrezzi” sia la più ricca e pertinente possibile, in modo che nel suo lavoro possa affrontare una pluralità di problemi non sempre prevedibili e standardizzabili. Quindi ben venga ogni innovazione tecnica, ogni esplorazione nell’uso di strumenti diversi, ogni “adattamento” tecnico-strumentale.
Ma, proprio per tale complessità, occorre che si abbia sempre una acuta e critica attenzione nel distinguere la dimensione dello strumento (e la sua “artefattualità”) dalla dimensione della clinica.
Per esempio: la metodologia curricolare è un artefatto rispetto al processo di apprendimento; i programmi di studio ( e non diversamente le “indicazioni”) sono un artefatto rispetto alla ricerca che alimenta la produzione del sapere; la programmazione didattica è un artefatto rispetto allo sviluppo cognitivo e affettivo del soggetto in formazione…
Potrei continuare l’elenco. Mi limito a utilizzare, dilatandola, una affermazione del vecchio Skinner.
Il padre del comportamentismo, dell’istruzione programmata, finanche delle macchine per apprendere e cioè dello sviluppo della dimensione tecnica dell’insegnamento-apprendimento, affermò un giorno che “Un docente che possa essere sostituito da una macchina…. Se lo merita..”
Mi limito a ricordare che nella storia degli ultimi quaranta anni del nostro sistema di istruzione abbiamo conosciuto diverse “ondate” di tecniche proposte come “strumenti risolutivi” ed evoluti per il lavoro docente.
Il richiamo alla metodologia curricolare, per esempio, e l’approccio, “mediato” con la cultura pedagogica “nazionale” (la programmazione collegiale), alle tecniche del  mastery learning, nella seconda metà degli anni ’70 ha accompagnato lo sviluppo della “Media dell’obbligo”.
Per anni (e dunque una intera generazione di docenti) ha operato una sorta di “identificazione” tra tale tecnica e l’efficacia dell’apprendimento avvalorando lo scambio “concettuale” tra processi di apprendimento e tassonomie di obiettivi. (l’artefatto prende il posto del processo reale).
Ci fu poi lo sviluppo della didattica per moduli; poi una varietà di strumentazioni alcune direttamente “inventate” per l’occasione (UDA, OSA, et all.) che non trovavano luogo nella letteratura internazionale e nel Thesaurus europeo dell’educazione, ma sollecitavano un impegno “innovatore” dei docenti per caratterizzare una riforma sé dicente “epocale” della scuola” italiana (in quel caso la legge 53/2003).

Ciascuna di queste proposte tecniche ha ovviamente il suo campo di efficacia e di sviluppo possibile, così come i suoi rischi di inappropriatezza e di inefficacia (come tutte le strumentazioni tecniche) e non è qui il caso di analizzarle. Voglio solo sottolineare due elementi: il primo è proprio legato alla insufficienza della formazione pedagogica dei docenti nel nostro sistema di istruzione,
In tale contesto l’artefatto tecnico si carica più facilmente di valore risolutorio e occulta la funzione pedagogica. Si avvalora cioè l’ipotesi acritica che i problemi della formazione si risolveranno entro le ricette rielaborate in quella padronanza tecnica.
Il secondo elemento è la deriva alla reiterazione: quando la speranza che l’artefatto tecnico sia in grado di risolvere le problematiche della relazione educativa e della sua clinica viene smentita da risultati di apprendimento sempre meno soddisfacenti, ci si rivolge ad altra strumentazione di cui si avvalora il carattere “innovativo” e risolutorio.
E poiché il nostro sistema di istruzione non solo presenta risultati scarsi nel confronto internazionale, ma, soprattutto, inficiati da una variabilità interna inaccettabile, che falsifica ogni dichiarazione della “scuola di tutti e di ciascuno” riducendola a giaculatoria ideologica, la ricerca di “tecniche risolutorie” si carica di inappropriatezze, contraddizioni, reiterazioni “innovative”.
Mi limito all’esempio della problematica delle “competenze”. Ho già detto altrove (mi limito a citare Come valutare le competenze e Voti e competenze  la mia convinzione che si tratti di un costrutto desunto dal contesto della cultura di impresa nel quale è utilizzato per la classificazione e la selezione del personale (rinvio alla notevole letteratura della cultura di impresa in proposito, ma anche alla origine dell’affermarsi di tale problematica a livello della Unione Europea). E ciò non significa la preclusione del misurarsi con l’ibridazione tra culture diverse, anzi.
Gli ibridi sono di grande interesse evolutivo. Ma ad una condizione: che siano fertili.

E, fuor di metafora, ciò non si controlla se non si alza il livello dell’impegno critico a verificare applicazioni, scambi, condizioni operative pertinenti nel passaggio tra un contesto e l’altro.
La didattica per competenze, la valutazione delle competenze non sono la soluzione, sono il problema.
Solo due esemplificazioni: la definizione, ripetuta come un mantra, di cosa sia la “competenza” (sintesi personale di abilità, esperienza, conoscenze, attitudini) ci dice che la scuola dovrebbe misurarsi con alcune variabili che non sono in sua padronanza.
Sono infatti le conoscenze il terreno tradizionale della scuola. In alcuni contesti si riesce a sviluppare la “scuola dell’esperienza”; tenue la capacità di intervenire su attitudini (spesso la scuola non è in grado neppure di scoprirle nei suoi alunni, osservati con il filtro della lente delle definizioni istituzionali; che si tratti di programmi o di “indicazioni”); scarsa la possibilità di promuovere abilità (il loro sviluppo richiede esercizio pratico ripetuto).
Naturalmente ciò non significa rifiutare l’approccio, ma invece avere sempre ben chiaro di cosa si tratti ed evitare di pensare a soluzioni precostruite (delle buone schede?) ma di quali problemi si pongono nella rilevazione e nell’apprezzamento delle competenze (per non parlar di “valutazione)
La seconda esemplificazione ricorda che quella “sintesi personale” di conoscenze, esperienze, attitudini, abilità, richiede, anche solo per  sua “descrizione”, l’uso di strumentazioni anche complesse di carattere psicodiagnostico.
Questa è l’esperienza di chi nella grande impresa evoluta rileva e valuta le competenze nei contesti di selezione del personale (almeno nelle alte qualifiche: si veda una ricca  pubblicistica sulle metodologie da Assesment Center nella letteratura di impresa)
Potrei qui limitarmi a sottolineare che, con ciò, l’argomentazione ritorna circolarmente alle prime affermazioni  relative all’approccio clinico della professione del docente: per operare davvero didatticamente (non con cosmetici…) utilizzando con appropriatezza la categorizzazione di “competenza” occorre esercitare una piena padronanza della clinica della relazione educativa. Occorre misurarsi cioè con una formazione pedagogica che è invece il punto debole della cultura professionale dei docenti. Ma allora: da dove è più utile cominciare?

Ma, soprattutto mi preoccupa una impropria estensione di tale costrutto (e degli strumenti per la sua rilevazione e apprezzamento) a fasi della formazione ancora densamente presidiate dai processi evolutivi e di crescita del soggetto: Un conto è descrivere e valutare le competenze in uscita dalla scuola superiore, dalla formazione professionale, o dalla Università.
Descrivere le competenze (con quella accezione di sintesi sul substrato soggettivo) per uno studente del primo ciclo significa a mio parere estendere impropriamente una “tecnica” fino a sovrapporsi alla dimensione pedagogica, nella illusione di ridurre quest’ultima alla compilazione di una “scheda” consolidata nelle sue “voci”, e “inchiodare” invece un soggetto in evoluzione ad una descrizione sincronica del suo profilo, smentibile anche solamente dopo pochi mesi di sviluppo.

L’inevitabile ascesa della digitalizzazione

L’istanza dello sviluppo della “scuola digitale” come frontiera dell’innovazione del sistema configura oggi una “nube” di sollecitazioni che vanno dagli animatori digitali, alla diffusione dei tablet, alla problematica del coding, ecc..ecc.
Anche su questo tema, per una esplorazione più ampia rimando a pubblicazioni passate presenti in questo sito 
Mi limito qui a considerazioni essenziali alle quali poter “appendere” i grappoli di riflessione proposti circa il fondamento essenziale della pedagogia nella configurazione del lavoro del docente.
Vorrei preliminarmente scartare la facile classificazione tra apocalittici e integrati. Nella mia giovinezza l’estremità del regolo calcolatore che sporgeva dal taschino della giacca era il segno della mia appartenenza al mondo tecnico-scientifico. Con tutta la considerazione (tecnico-scientifica ma anche estetica) della semplice “forza” del trasferimento delle scale logaritmiche su un sistema di cursori che garantiva potere di calcolo, non mi sognerei di riproporne oggi il ruolo nell’uso professionale. Si tratta di un “fossile” e come tale va considerato. Semmai avendo cura che non scompaia la “scienza dei fossili”. Ricordo che solamente la sopravvivenza di “cultori dei fossili” garantì nel Rinascimento la riscoperta di preziosi fossili di pensiero scientifico del periodo ellenistico che il Medio Evo aveva seppellito per secoli.
Qui il problema non è di discettare sulla “appropriatezza” e “convenienza” dell’uso di tecnologie, prodotti e strumenti del digitale, quanto di definire e decidere, e qui stata la difficoltà, ciò che è necessario nella padronanza “dei cuccioli per imparare a cacciare nella foresta”. (Uso tale metafora sbrigativa per sintetizzare la mission della formazione).
Posto che lo sviluppo tecnologico e la sua pervasività e diffusione, la sua velocità e la facilità d’uso dei suoi strumenti, relegano al ruolo di “fossili” molti dei contenuti tradizionali dell’insegnamento/apprendimento, la domanda non riguarda il “potere professionale” di quegli strumenti, ma il corredo di abilità e capacità che comunque sono funzionali allo sviluppo dei cuccioli perché divengano adulti e autonomi, anche se non verranno usate nel proseguo del loro sviluppo.
Insomma: saper usare un compasso o una riga, e non solo tracciare sullo schermo di una LIM un segno corrispondente, che la macchina riproporrà come cerchio perfetto o come retta, serve alla crescita del cucciolo anche se non farà mai l’architetto e se facendolo non userà mai compasso e riga? Memorizzare gli algoritmi di calcolo delle quattro operazioni o della radice quadrata è importante per lo sviluppo, anche se poi qualunque macchinetta digitale potrà farlo per lui? Scrivere in corsivo (vedi ricerca di Benedetto Vertecchi) è condizione di padronanza linguistica, anche se in futuro il cucciolo adulto  userà normalmente la tastiera?
Le domande fondamentali sono, come si vede, totalmente “pedagogiche” e la risposta “tecnologica” è spesso solo un modo per non rispondere ad esse, perché son difficili…
Gli stili di apprendimento (o le forme dell’intelligenza) sono molteplici: li polarizzo a due estremi, per non fare il verso a Gardner.
Da un  lato l’approccio sequenziale e analitico; dall’altro quello simultaneo e sintetico. Tra queste due polarità un ricco repertorio di combinazioni che potremmo sempre scoprire, con “attenzione clinica”, nei nostri alunni, ciascuno nella sua combinazione personale e soggettiva (di nuovo le “competenze”). Quale la combinazione ottimale? Molto, molto difficile rispondere… Ma certo la tradizione della scuola privilegiava il primo approccio (sequenziale e analitico) e ad esso dava il valore fondamentale dello strumento della conoscenza. Il secondo (simultaneo e sintetico) era proprio degli artisti, un poco “divergente e sospetto”.

Gli strumenti della digitalizzazione enfatizzano invece l’approccio simultaneo e sintetico. Comprimono l’intervallo tra stimolo e risposta ad un livello tale che l’analisi non trova modo e spazio. Inoltre la velocità di scelta delle alternative rese possibili riduce l’analisi stessa ad una scelta binaria (pensate al copia incolla o alla facilità di modificare gli assemblaggi semplicemente variandone i componenti con effetto quasi istantaneo). L’analisi dell’errore così importante nella scuola tradizionale ne viene annullata. Per un docente attento (e clinico) è facile verificare tutto ciò se sa superare la semplice soddisfazione della bellezza del “lavoro finito” dei suoi discenti.

Difficile rispondere alla domanda precedente su quale sia la combinazione ottimale di “stili”; ma certamente una risposta la scuola non può ignorare: la valorizzazione delle “combinazioni soggettive” tra diversi stili di apprendimento dei discenti è una finalità fondamentale della formazione; ma, a maggior ragione, la sfida della formazione e dell’apprendimento non potrà che essere lo stretching al quale tutti i soggetti devono sottostare: misurarsi con lo/gli stili meno “spontanei”. Il noioso alunno a cui è caro l’approccio analitico e sequenziale e vorrebbe sempre lavorare da solo, dovrà misurarsi anche con il pensiero creativo e provare la collaborazione con gli altri. Esattamente come altri stili dovranno piegarsi alla analisi logica ed alla sequenzialità della scrittura e del calcolo algoritmico.
Vorrei solo aggiungere che l’enfasi all’approccio sintetico e simultaneo è proprio dell’uso dei devices digitali; ma la digitalizzazione in sé è, al contrario, il prodotto del processo inverso: la scomposizione analitica del reale condotta su dimensioni sempre più discrete.
La capacità tecnologica di “ricombinare” la scomposizione analitico digitale ricostruendo una immagine della realtà indistinguibile da quella che percepiamo “analogicamente” è “problema nel problema”. Chi governa tale ricombinazione effettua il massimo di trasformazione della realtà ripresentandola come “identica”. Ma il percorso interseca la problematica della padronanza concentrandola in chi è in grado di compiere la prima parte del percorso e mortificandola per l’utente finale che si misura con la ricostruzione virtuale con la quale interagisce comunque sempre “come previsto”, per quanto ricca e creativa possa sembrare tale previsione.

Gli strumenti della digitalizzazione sviluppano un circuito mano-occhio-cervello fortemente compresso e selettivo. L’uso della mano è specializzato in “due dita che sfiorano e toccano” ma mai stringono e impugnano e battono (come faranno i cuccioli ad imparare a cacciare?). Il pensiero è vincolato a ciò che l’occhio vede sullo schermo
Inutile ricordare che la civiltà dell’uomo nasce e si sviluppa dalla interazione tra un cervello “ridondante” e una mano “non specializzata” capace cioè del massimo di adattamento.
Non posso certo rinunciare alla “potenza” che le “protesi” digitali consentono di esprimere. Ma la domanda si ripropone: come riequilibrare, nell’itinerario dello sviluppo l’acquisizione di una forma hominis juxta propria principia (giusto per citare S. Tommaso)

Domande squisitamente pedagogiche dunque, che vengon prima dei tablets. Il che non significa che occorra aspettare di avere le risposte prima di adottare i devices, ma che occorre invece consideraci impegnati in un laboratorio di massa dalla cui sperimentazione si possano sensatamente validare innanzi tutto tali domande pedagogiche (prima di quelle tecnologiche..).

Per la verità una risposta è già possibile seppure su altro piano: non possiamo rispondere sensatamente sull’effettivo valore pedagogico di certi strumenti applicati ai processi di apprendimento, ma certamente sappiamo già che essi implicano una modificazione anche radicale degli ambienti di apprendimento. Ambiente, e cioè spazi, tempi e relazioni.
Il digitale, esplorato appropriatamente in chiave di clinica pedagogica richiede modifiche fondamentali nei “contenitori spaziali e temporali” del processo di insegnamento/apprendimento e nelle “declaratorie e classificazioni” dei contenuti dell’insegnamento.
Allora, forse, l’occasione vera non è “l’animatore digitale” (pure utile), ma lo smontaggio di una incastellatura organizzativa e professionale che declina una obsoleta enciclopedia (le discipline, le materie…) con una altrettanto obsoleta epistemologia (delle classi di concorso…) e con un modello pseudo taylorista di organizzazione del lavoro (aula, ora di lezione, classe..).

Infine non è possibile decidere sulla portata pedagogica del digitale se non affrontando anche una problematica di dimensione collettiva: pur scontando pervasività e diffusione delle tecnologie e del loro uso, quali “gerarchie” culturali operano socialmente nel determinare differenziazioni e comando? Possiamo anche assumere un atteggiamento possibilista sul tramonto della padronanza della lingua scritta sotto il profilo didattico. (vedi il testo di Tiriticco citato). Ma se nella gerarchia sociale tale padronanza è discriminante la mission pedagogica non può non tenerne conto.

Ricordo una mia vecchia battuta: nella nostra storia i “nativi” son sempre stati oggetto di schiavitù, persecuzione o  relegati nelle riserve… Magari esaltandoli, ma cosa vogliamo davvero fare con i “nativi digitali”?

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