(30.10.2014)
La
retribuzione (dei docenti..)
tra valore del lavoro erogato, riconoscimento di status e risarcimento.
di Franco De Anna
Quando si interviene sulla struttura retributiva, e in
particolare se la modificazione interessa uno specifico lavoro (come nel caso
degli insegnanti…), quali che siano le ragioni che ispirano la modificazione,
occorre tenere sempre conto di (almeno) un paio di avvertenze
La struttura e il livello di una retribuzione non sono solo una certa quantità
di risorse e una loro distribuzione tecnica, ma anche (e forse soprattutto) una
sorta di rappresentazione di valori e riconoscimenti sociali che sono attribuiti
a quel lavoro, una rappresentazione dei suoi caratteri intrinseci, sia simbolici
(più spesso), sia reali.
Tale rappresentazione si sovrappone e si dialettizza anche con il “duro” (!?)
scambio di mercato che determina, entro il rapporto di lavoro e la sua
“economia”, l’entità della retribuzione e la sua ripartizione collettiva (il
contratto collettivo di lavoro, per usare la terminologia delle relazioni
sindacali).
L’offerta e chi la rappresenta, su questo particolare mercato che è quello del
lavoro, ha una oggettiva convenienza ad affermare, sviluppare, difendere, la
qualità professionale, la composizione tecnico scientifica, la specificità, del
lavoro offerto. Il suo valore di scambio è condizionato da tali variabili
“oggettive”. E in parallelo dovrebbe tradurre tale “oggettiva” convenienza in
consapevolezza e rappresentazione culturale e sociale.
L’organizzazione sindacale che ha, come funzione originaria e fondamentale, la
rappresentanza dell’offerta di lavoro sul mercato del lavoro ha (avrebbe) dunque
tale oggettivo interesse e deve (dovrebbe) operare su entrambi i livelli: quello
“oggettivo” del contenuto di valore dell’offerta di lavoro che rappresenta e
quello della sua rappresentazione culturale.
Difficile, se ciò è vero, sottrarsi alla logica della valutazione. A tale
rifiuto non può che corrispondere la caduta del valore dell’offerta ed il suo
“appiattimento” anche nella significazione sociale e culturale. La valutazione
dovrebbe invece fare parte fondamentale della cultura di chi rappresenta
l’offerta di lavoro, come uno strumento per dare efficacia alla sua funzione di
contrattazione. L’organizzazione sindacale non dovrebbe “proteggere” dalla
valutazione, ma essere promotrice della “valutazione autentica”-
Naturalmente la rappresentanza dell’offerta di lavoro sul mercato e la
affermazione del suo valore di scambio, si coniugano, almeno nella tradizione
dei grandi sindacati di massa, con la funzione essenziale della difesa e
sviluppo di diritti collettivi e dunque con lo sviluppo sociale complessivo.
Ma, la forza e l’autorevolezza con la quale si esercita tale funzione generale
saranno tanto più rilevanti e decisive nel determinare la dinamica degli
interessi sociali, quanto quella funzione originaria della rappresentanza
dell’offerta di lavoro e del suo valore di scambio sul mercato del lavoro sarà
esercitata con successo.
Mi si perdonerà una affermazione che avrebbe necessità di ben altre
specificazioni: la lotta “per la giustizia sociale” è ovviamente collegata a
quella “per i diritti”, ma non si identifica, nè tanto meno si esaurisce, con
quest’ultima, che ha necessariamente parametri assai più larghi e meno
selettivi.
Di fronte a proposte ( la buona scuola…)
che paiono delineare una riforma anche radicale della struttura delle
retribuzioni dei docenti, ma che si concentrano sul “superamento
dell’anzianità”, credo che sarebbe bene esplorare invece l’intero campo che si
delinea tra le strutture e i caratteri “oggettivi” del lavoro, le sue
rappresentazioni sociali e culturali, le forme acquisite dalla rappresentanza
collettiva dell’offerta e le dinamiche di affermazione del valore di scambio sul
mercato del lavoro.
Ho provato a esplorare i caratteri complessivi del lavoro docente in un
precedente contributo (“Il
lavoro del docente, un mestiere di confine”). Ne riprendo alcune
affermazioni di carattere strutturale relative a caratteristiche di quel lavoro,
per altro tra loro connesse.
Il lavoro docente si sviluppa in
contesto operativo a basso livello di composizione tecnica. Mi riferisco qui non
solo al fatto (ovvio) che il “lavoro vivo”, nella scuola, sia strutturalmente la
variabile fondamentale, ma anche che il “sapere tecnico” messo in campo dal
medesimo “lavoro vivo” non abbia caratteri di “razionalità tecnico scientifica”
consolidata sia perché la “didattica non è una scienza” (meno male…), sia perché
quel lavoro si esercita in una relazione (la relazione educativa) e dunque
sfugge al riduzionismo del principio della “variabile indipendente”.
Per tali ragioni (anche), il lavoro docente ha un basso livello di “ordinabilità”.
Non può essere descritto in un “foglio di lavorazione”, in un “mansionario”
codificato, in un “repertorio” riducibile al paradigma obiettivi-risultati. (su
cui radicare con evidenza “scientifica” la sua valutazione “oggettiva”).
Ciò significa che la concreta erogazione del lavoro docente si esercita in
ambiente di “autonomia professionale” individuale.
Ma tale lavoro “individuale” viene erogato entro un “sistema” che rappresenta un
sottoinsieme istituzionale fondamentale e quantitativamente rilevante, per le
risorse pubbliche che impegna e per la quantità di lavoro che utilizza. Dunque
necessita di “cura economica di sistema” (efficacia, efficienza, economicità),
tanto più significativa in quanto le risorse sono, appunto, pubbliche. La
valutazione del lavoro è perciò un tratto cruciale (etica pubblica)
nell’ottimizzazione dell’impegno di tali risorse. La sua difficoltà tecnica
(vedi sopra) non è alibi, anzi al contrario è sfida scientifica e di ricerca
sociale.
Naturalmente tali elementi strutturali
sono soggetti a trasformazione: per esempio la “composizione tecnica” del lavoro
si modifica anche significativamente con l’integrazione tra didattica e TIC; ma
anche con la “oggettivazione tecnica” del lavoro didattico individuale nel
modello di progettazione e programmazione collettiva.
Tali prospettive di (relativo) consolidamento della composizione tecnica sono
perciò legate sia alla “strumentazione” tecnologia (e ovviamente al suo uso
appropriato) sia alla ricaduta dei prodotti della ricerca didattica, a partire
dalla organizzazione specifica della ricerca (Università e strutture della
ricerca Educativa), sulla concreta attività della scuola. E dunque (terza
condizione) sulla capacità di innovazione applicativa e creativa esercitata
dalla singola scuola (autonomia di ricerca e sviluppo) nell’incorporare tali
prodotti nella progettazione comune.
Entro tali processi incrementa, ovviamente, la possibilità di riportare il
lavoro effettivamente erogato dal docente entro “descrizioni” e “repertori” che
vanno oltre l’autonomia individuale. Ma si tratta, come ovvio, non solo di
processi che vanno attentamente analizzati, ma anche di sviluppi che comunque
non modificano il carattere strutturale delle caratteristiche del lavoro docente
sopra descritte (per qualche opinionista esse significano che il lavoro docente
non può essere valutato..)
L’architettura del sistema di istruzione
(nel nostro Paese) è ancora largamente tributaria al paradigma amministrativo:
piramide di comando centrale, primato del diritto amministrativo (produzione di
“atti”, non di servizi), assimilazione della docenza all’impiego pubblico.
Il compromesso tra i caratteri “non ordinabili” del lavoro docente, e la sua
sussunzione entro il modello sistemico-amministrativo si realizza attraverso la
rigida definizione formale dei “contenitori” spazio temporali (orari, cadenze,
classi, prestazioni burocratiche) e delle “rubriche e tipologie” (classi di
concorso, ordini di scuola, cattedre, distribuzione e gerarchie degli
insegnamenti).
Entro tali “contenitori” formalizzati, il lavoro docente è riconosciuto
“autonomo” (ambiguità reale dell’esercizio concreto del valore dell’autonomia) e
sostanzialmente “individuale” anche se con le correzioni (sempre richiamate ma
spesso con valore più esortativo che cogente..) della “collegialità” (comunque
tra eguali: dunque non “divisione tecnica del lavoro” propriamente detta).
Corollari di tale compromesso sono alcune affermazioni apparentemente
“valoriali” ma in realtà declinate (ideologicamente) a rinforzo del compromesso
stesso. Per esempio la “democrazia” della collegialità (come se un voto tra
eguali fosse la garanzia della appropriatezza della elaborazione
tecnico-scientifica-professionale); e ancora il valore della “continuità
didattica” (in verità l’apprendimento avviene per discontinuità, sia macro che
micro) che in realtà viene agito come sinonimo della “non fungibilità” del
lavoro del singolo docente (per altro contraddetta dalla realtà dell’istituto
delle supplenze: e mi riferisco ovviamente alla sua gestione “storica” e non
proprio commendevole…)
Su tale “compromesso” si è consolidata
la struttura salariale fondata su diversificazioni interne alle classificazioni
formalizzate del lavoro di evidente fondazione culturale e ideologica, ma non
certo strutturale. Basti pensare alle gerarchie tipologiche ed economiche
rappresentate nell’inquadramento del personale, che lo allineano per ordini di
scuola (dunque in parallelo all’Ordinamento) ma non per durata, intensità, e
significato intrinseco didattico e pedagogico del lavoro. (Anzi per qualche
verso in contro gradiente con tali significati: difficile spiegare le differenze
retributive e di durata di impegno tra primaria e secondaria e la stessa
articolazione dell’inquadramento della secondaria, anche tenendo conto
dell’avvenuto superamento della storica differenziazione di titoli di studio. Si
tratta di gerarchie e significazioni culturali e sociali, non di diversi “valori
di scambio” intrinseci dell’offerta di lavoro).
Ma, soprattutto, su tale compromesso si è consolidata la funzione della
anzianità di servizio come unico operatore di sviluppo del valore del lavoro
docente.
Una funzione che è indiscutibile poiché è legata ad un operatore di sviluppo
professionale “oggettivo” che è quello della esperienza e delle “abilità”
esercitate, verificate e arricchite. Ma che non può essere considerata né
“unico” operatore, né “automaticamente” legato allo scorrere del tempo. E dunque
non necessitante di verifica operativa. Il tempo può migliorarci
professionalmente esattamente con la medesima probabilità con cui può logorarci.
La dinamica retributiva esclusivamente e automaticamente legata all’anzianità
configura in realtà una assetto delle retribuzioni che si rappresenta come
“riconoscimento di status” (risarcimento?) piuttosto che come corrispettivo di
valore del lavoro. Un tratto comune nelle pratiche e nelle concezioni del lavoro
nella e della Pubblica Amministrazione.
La storia contrattuale e sindacale (come si è rappresentata l’offerta di lavoro)
è ricca di testimonianze avvaloranti le affermazioni precedenti. Cito solamente
il processo storico di riunificazione della contrattazione del pubblico impiego
(la prima stagione complessivamente coordinata fu nel 1976; la “legge quadro”
che sistematizzava e formalizzava tale orizzonte comune a tutti i dipendenti
pubblici è del 1983). Una fase necessaria di riunificazione (capace dunque di
dare forza allo strumento contrattuale) ma che conteneva i rischi (puntualmente
verificati) di perdita delle specificità, validazione di un gigantesco e occulto
meccanismo di “indicizzazione” (dalle retribuzione dei magistrati, fino a quelle
degli uscieri); assimilazione del paradigma amministrativo anche a lavori e
professionalità caratterizzate dalla produzione di servizi.
In passato si tentò, con varia fortuna e
perizia, di declinare altri fattori (la formazione–aggiornamento; la
diversificazione degli impegni professionali..). Esperienze più o meno
interessanti ma mai capaci di modificare radicalmente la struttura retributiva:
e pour cause… essa è il riflesso di quel “compromesso” che ha attori e
protagonisti consolidati e portatori di consistenti interessi autoriproduttivi.
E’ dunque necessario non limitarsi a indirizzare l’impegno riformatore
sull’automatismo dell’anzianità. Non per voler fare tutto e subito, ma perché le
stesse resistenze al superamento di quell’automatismo vengono mandate fuori
bersaglio solo se l’intera struttura retributiva viene fatta oggetto di
revisione (abilitando altri significati del lavoro). La fase che giustificò la
riunificazione del pubblico impiego è trascorsa, è mutata. Se è necessario
rivalorizzare la specificità e i differenziali, occorre smontare e destrutturare
il quadro, a cominciare proprio dalle articolazioni, differenziazioni e
gerarchie interne.
Forse si ripresenta oggi matura la parola d’ordine che fu in un passato
oggetto di “avanguardismo politico”: la funzione unica docente e la medesima
determinazione del valore della retribuzione come “punto di partenza” e
rappresentazione della unità professionale.
Se guardiamo alle proposte oggetto del confronto in corso, relativamente alla struttura retributiva, e se scontiamo le semplificazioni “buonistenuoviste” di annullamento del peso dell’anzianità ciò con cui è invece ragionevole e giusto misurarsi è un sensato spostamento di peso specifico dall’esclusivismo automatico del fattore anzianità, verso fattori valutabili e misurabili in relazione alla erogazione effettiva del lavoro docente e dunque alla sua quantità, qualità, alle sue caratteristiche, ai suoi risultati. In tale prospettiva anche lo stesso “fattore anzianità” (esperienza, maturazione di abilità e competenze, raffinamento delle esperienze) può e deve entrare come componente di un protocollo valutativo necessariamente complesso e non riducibile a misurazione oggettiva e standard.
La proposta del superamento del
parametro esclusivo dell’anzianità (sarebbe meglio dire il suo
ridimensionamento) si accompagna con l’indicazione di tre campi di
determinazione di “crediti” sui quali fondare la progressione di retribuzione
(altro è la progressione di carriera… e sarebbe già un bene non confondere le
due dimensioni). Rispettivamente i “crediti formativi”, i “crediti
professionali” e i “crediti didattici”.
Naturalmente i “modi per dirlo” possono essere diversi; ma la scelta del termini
“crediti” ha una implicazione semantica che credo sia importante sottolineare
comunque, che se ne condivida o meno l’ispirazione. Il “credito” corrisponde al
riconoscere qualche cosa che “è stato dato”. Non è dunque “uno scatto” o un
automatismo, e neppure un “riconoscimento di status” o a un “diritto”. Il
“credito” corrisponde ad una “erogazione concreta”.
Un sensato sistema di valutazione del
lavoro scolastico dovrebbe essere capace di contenere, dimensionare,
co-relazionare l’insieme di queste componenti armonizzandole e dando a ciascuna
il “peso” specifico con il quale concorre a determinare la valutazione
complessiva.
Definire un protocollo valutativo capace di misurarsi con tale complessità è una
sfida scientifica e politica congiuntamente. La prima necessita di ricerca e di
miglioramento e affinamento progressivi: pensare di arrivare ad uno strumento
perfetto e completo prima di cominciare è un non senso. La ricerca si nutre di
un circuito di sperimentazione, verifica, correzione; che non significa azzardo
o semplicismo, ma la contemporanea umiltà scientifica del non considerare
esaustiva la prova in cui ci si impegna e l’onestà intellettuale della
disponibilità alla sua falsificazione.
La sfida politica è quella della “accettabilità sociale” (che è cosa diversa dal
consenso) di un impegno valutativo che in sé necessita di superare compromessi
consolidati, mettere in discussione interessi stratificati, porre in chiave
interrogativa certezze considerate acquisite.
Una condizione di “accettabilità sociale” in campo di valutazione è quella
rappresentata dal fatto che la matrice della valutazione venga esplorata
completamente e simultaneamente (tutti sono valutati…) E dunque si valuti
l’organizzazione (le scuole), le persone nell’organizzazione (i docenti e non),
i dirigenti (e non solo quelli scolastici) e la “politica pubblica” messa in
campo dal decisore politico e amministrativo. E si faccia ciò con un appropriato
livello di simultaneità, in modo che ciascun interessato non trovi alibi
indicando la priorità di, prima, valutare l’altro.
Ovviamente i tre campi di approccio
indicati per distribuire gli effetti di un protocollo valutativo sulla entità e
struttura della retribuzione non hanno il medesimo livello di complessità
definitoria.
Da un punto di vista teorico è del tutto evidente che i primi due (crediti
professionali e crediti formativi) pongono problemi di definizione di “oggetti”
significativi da osservare e valutare (esperienze professionali
nell’organizzazione scolastica, percorsi formativi attinenti al lavoro docente),
di definizione di metodologie e protocolli di osservazione, di definizione di
pesi e misure da adottare. Ma si tratta comunque di “oggetti” documentabili e
“oggettivabili”.
Sono numerosi ed interessanti alcuni contributi che su questi temi sono stati
proposti anche su queste pagine (penso ad alcuni interventi di Antonio Valentino
o di Stefanel..). Mi limito perciò a qualche esempio critico.
Nel tracciare un protocollo valutativo
sui crediti professionali, sarebbe per esempio necessario far sempre capo alla
singola organizzazione e alla sua cultura organizzativa. Avere svolto esperienze
di “funzione strumentale” può significare cose essai diverse se ciò accade in
una organizzazione scolastica capace di definire e delineare le funzioni
strumentali sulla base di una autentica analisi e autoanalisi organizzativa
(autovalutazione?), oppure in una scuola che “distribuisce” le funzioni
strumentali come attribuzioni convenzionali che “marcano” l’appartenenza allo
staff.
Assicuro che l’analisi e la valutazione sul campo mi hanno spesso posto di
fronte ad entrambe le casistiche che, pure espresse attraverso i medesimi
dispositivi formali (delibere, destinazioni concordate del Fondo ecc..) e dunque
la medesima documentazione, rappresentavano cose assai diverse sotto il profilo
della esperienza professionale (e dunque degli eventuali crediti). Non si tratta
ovviamente di “screditare” alcuna esperienza, ma di definire scale e pesi
valutativi diversi in rapporto proprio con l’organizzazione nella quale si
realizzano e con la cultura organizzativa di cui sono espressione. Non si va “in
automatico”; è necessaria l’analisi valutativa (l’osservazione?) differenziata e
determinata.
Parimenti, nel tracciare un protocollo valutativo dei crediti formativi si
tratterà di distinguere tra formazione come “aggiornamento” per esempio delle
proprie competenze disciplinari (penso a impegni anche individuali di docenti
sulle specifiche competenze e a come certificarli e pesarli) e formazione come
strumento di sviluppo professionale legato alla propria organizzazione e dunque
come fruizione necessariamente collettiva e su progetto condiviso e finalizzato
allo sviluppo della cultura organizzativa di “quel” gruppo. Sono cose diverse,
significati diversi del medesimo termine ”formazione”. Sono entrambe necessarie
e valorizzabili ma fanno ovviamente riferimento a contesti, attori e
protagonisti dell’iniziativa formativa assai diversi tra loro. Il “peso” da
assegnare a ciascuno in un protocollo valutativo sarà anche in tale caso legato
alle specificità della singola e specifica organizzazione ed alla fase di vita
che essa attraversa. In certi casi è assolutamente indispensabile che bravi e
competenti professionisti individuali diano priorità alla necessità di
sviluppare un sensato sistema di significati comuni per funzionare come
“organizzazione”. In altri casi potrebbe invece essere prioritario offrire a
ciascuno la possibilità di approfondire la propria competenza disciplinare. In
altri ancora la combinazione tra i due aspetti.
In un caso e nell’altro ciò che temo è che qualcuno, seduto in viale Trastevere
o a Villa Falconieri, decida non una griglia generale di “parametri” comuni, ma
le specifiche formalizzate di ciascun protocollo. Decida cioè cosa è bene e cosa
è meglio, nella “uniformità” amministrativa, per un sistema la cui pluralità
vive e si divarica (fino a desemantizzare il termine “sistema”) pur all’interno
(o proprio per questo…) della più confortante uniformità normativa, di
regolamenti, circolari, direttive, contratti e forme di finanziamento.
Per la somma di tali motivi e rischi, il
terzo versante (i “crediti” didattici) rappresenta la vera “lente di
ingrandimento” sotto al quale porre ogni proposta che voglia ricondurre gli
elementi strutturali della retribuzione dei docenti sotto lo sguardo
“valutativo”.
Il cuore della valutazione del lavoro didattico del docente non può che
essere infatti la diretta osservazione della sua erogazione.
In un contributo comparso su queste pagine (“Se
140 anni vi sembran pochi…”) ho riportato il testo originale di una
“visita ispettiva” realizzata quasi 140 anni fa nella quale l’ispettore
ministeriali analizzava, commentava e valutava in dettaglio il lavoro in classe
di alcuni docenti. Mi è sembrato e mi sembra, nella sua semplicità e
immediatezza, più efficace di tante analisi nel dimostrare la insostituibilità
della osservazione diretta. L’ispettore era Giosuè Carducci e i docenti quelli
del Liceo Classico di Macerata, l’anno il 1876. Rimando a quell’articolo per
l’esplorazione più compiuta delle implicazioni, del ruolo, delle responsabilità
e dei limiti-rischi che accompagnano ovviamente i vantaggi dell’osservazione
diretta.
Anche per i crediti didattici vale la considerazione del carattere composito del
protocollo e della valutazione. Posto che il nucleo fondante sia, per le ragioni
ricordate, l’osservazione diretta, vi sono altri elementi importanti che possono
eventualmente completare, arricchire e accompagnare tale valutazione.
Innanzi tutto una “documentazione autentica” dei prodotti didattici; ovviamente
non documentazione progettuale, ma “oggetti” didattici provati sul campo ed
accompagnati da report di descrizione della sperimentazione effettiva, dei
risultati verificati, di una loro “applicazione clinica”. (Inutile rammentare
quanto proprio le TIC possano essere strumenti adeguati per la
produzione-coproduzione di simili oggetti didattici).
In secondo luogo il profilo di un “buon docente” potrebbe emergere anche da una
rilevazione di tipo reputazionale, posto che per darne apprezzabile fondamento e
scongiurarne o limitarne deformazioni opportunistiche, occorra ampliare e
diversificare le fonti da interrogare (altri docenti, gli studenti, i genitori,
il Dirigente Scolastico, il personale non docente).
In terzo luogo a completare (attraverso determinazione di opportuni “pesi”) una
valutazione dei crediti didattici potrebbe concorrere l’esito analitico e
documentato di un esercizio organizzato e costante di valutazione tra pari, con
osservazione collettiva del lavoro in classe, come analisi clinica, diagnosi
condivise, impegni migliorativi, le cui risultanze siano poste a disposizione
del protocollo valutativo che determina sommativamente l’apprezzamento del
credito didattico..
Questi tre momenti (come che siano articolati e “pesati” concretamente) di
contorno, rinforzo e conforto all’osservazione diretta dell’erogazione del
lavoro didattico, necessitano, come appare evidente, di analisi ravvicinata e
clinica. Non sono riducibili ad apprezzamento documentario, non esimono dal
rapporto interattivo tra valutato e valutatore.
Rinforzano dunque la consapevolezza di quale sia il vero “fattore limitante” di
un modello di valutazione come quello descritto: la disponibilità reale di un
numero di “valutatori professionali”, adeguatamente formati.
Il lavoro di osservazione diretta sul campo necessita infatti di competenze ed
abilità professionali specifiche. Indicare nel “corpo ispettivo” (la terza
gamba,,) lo snodo di tale problematica è del tutto insufficiente sia sotto il
profilo quantitativo (occorrerebbe moltiplicare almeno per 10 il numero di
ispettori disponibili) sia, soprattutto, sotto il profilo della adeguatezza
professionale.
Si tratta di un “classico” della deformazione semantica amministrativa. Nella PA
(e dunque nel nostro Ministero) la “competenza” non è ciò che una persona “sa e
sa fare”, ma è un attributo di un ufficio o di un profilo di ruolo. Da ciò il
richiamo alla funzione ispettiva. In realtà il ruolo ispettivo non è affatto
automaticamente “competenza valutativa” (anzi). Nulla, nel curricolo
istituzionale dell’ispettore (tanto meno nell’ispirazione dell’ultimo concorso
di reclutamento), è legato funzionalmente allo sviluppo di competenze di
“valutatore”. Devono al contrario essere sviluppate e formate esattamente come
per altri “profili di ruolo” di diversa origine.
Ma c’è di più: un osservatore e valutatore sul campo richiede una formazione
clinica specifica e certificata, ripetuta e ripresa nel tempo; ma deve anche
essere “supervisionato”.
La determinazione dei crediti didattici è operazione complessa dunque, e per la
quale vi sono ostacoli quali-quantitativi che suggeriscono tempi non immediati
né quantificabili con percentuali predefinite (66%… 33%…). Si tratta, come
sempre, di cominciare e di sperimentare con approccio critico-scientifico.
Quanto al sensato governo della tempistica (definizione di un contingente di
valutatori-osservatori sul campo, adeguata formazione e sperimentazione di
protocolli, supervisione..) mi permetto di suggerire che l’accertamento dei
crediti didattici possa avvenire “su richiesta” del docente interessato,
piuttosto che su una predeterminazione di quote percentuali.
Ciò potrebbe consentire la diluizione della tempistica, una più attenta e
meditata costituzione del protocollo, degli strumenti e degli “oggetti” della
valutazione, la flessibilizzazione della ripartizione percentuale della
distribuzione dei crediti traducibili in progressione retributiva.
Infine ciò comporterebbe una corrispondente “pesatura” degli esiti valutativi
rispetto alle altre due componenti del sistema dei “crediti” che hanno un
maggiore consolidamento in “oggetti documentali”, e dunque sui riflessi che
l’insieme della valutazione proietta sulle dinamiche retributive.
Se l’obiettivo, più che condivisibile, è
di abbattere l’automatismo dell’anzianità, occorre, in altre parole, evitare che
si consolidino altri automatismi..Se l’obiettivo è rifunzionalizzare il rapporto
tra retribuzione e qualità del lavoro erogato, occorre che quest’ultima sia
oggetto di valutazione sottratto ad automatismi di quote o di ripartizioni.
Occorre invece un sistema complesso di pesi e combinazioni ovviamente scelti e
determinati in funzione delle priorità e delle finalità dichiarate nella
politica pubblica dell’istruzione che si intende realizzare.
E che sarà, a sua volta, valutata per i risultati che ottiene…