(23.09.2014)
“Supermercato della speranza” e “congiura della reazione in agguato”
di Franco De Anna
In un intervento su queste pagine, molto ampio e argomentato,
trovo un singolare costrutto fondativo al commento sul documento del
Governo sulla “buona scuola”.
Si propongono due “postulati” che starebbero alla base di quella analisi. Il
primo consiste nel fatto che (sintetizzo) il compito della scuola sarebbe quello
di preparare al mondo produttivo, rinunciando ad obiettivi di eguaglianza
sociale e concentrandosi sulle “eccellenze”. Il secondo “postulato” (di
conseguenza) è che lo Stato si “ritirerebbe” dal compito di “produrre” la
risposta al diritto di cittadinanza all’istruzione, lasciando aperto il campo a
soggetti vari (scuole autonome, imprese, volontariato, fondazioni ecc…).
Curiosamente si qualifica lo Stato come garante della cittadinanza come “super
partes” (!?).
Aggiungo, di mio, un terzo “postulato”: l’autonomia scolastica sarebbe il segno
di tale tendenza, per altro in atto da quasi un ventennio, di decostruzione del
sistema pubblico dell’istruzione. La mia aggiunta accomuna questo intervento ad
altro (autorevole) già comparso in questo sito. (vedere interventi di
Bottero e di
Boscaino)
Si tratta di opinioni, rispettabili come tutte; ma inviterei gli autorevoli
interlocutori a verificarle non con il personale convincimento (l’ho sempre
detto da vent’anni…) ma con quanto accaduto in questi ultimi 15 anni: la
politica scolastica e l’amministrazione hanno chiuso progressivamente ogni
spazio aperto con il Regolamento dell’Autonomia. Le definzioni curricolari si
sono addensate in “indicazioni (programmi) nazionali”; le risorse per la
progettazione locale si sono progressivamente e drasticamente ridotte; la
flessibilità del personale è stata ricondotta a determinazioni “statistiche”
(classi, classi di concorso, precariato); l’erogazione delle risorse e le regole
contabili e finanziarie si sono progressivamente rese più vincolanti e
centralizzate…Potrei dire ai miei interlocutori che combattendo l’autonomia come
pericolo per il sistema effettivamente hanno vinto… Ma mi risulta difficile
sostenere che il “sistema” da tale vittoria abbia ricavato vantaggio alcuno. Si
interrogassero sugli alleati (palesi e occulti) che hanno trovato per strada in
tale battaglia, forse potrebbero sottoporre le loro opinioni a produttiva e
onesta verifica.
Mi incuriosisce però, nell’intervento che ho letto con attenzione, il fatto che
le proposizioni richiamate siano state indicate come “postulati”. Proposizioni
non dimostrabili, dunque, che reggono l’intera argomentazione successiva.
Naturalmente ciascuno può dare ad una propria opinione il valore di “postulato”
e procedere di conseguenza alla costruzione di un intero “sistema”, di una
propria “geometria”. Ma certo non siamo tutti abilitati a pensarci come Euclide,
o Riemann, o Lobacevskij. E comunque occorre misurare il proprio “sistema” con
la realtà: se devo costruire una casa è meglio usare la geometria euclidea; se
devo formulare teorie sull’universo dovrò rassegnarmi ad ipotizzare parallele
che si incontrano o divergono…o un infinito che si curva. I muri di casa li
preferisco in squadra.
Certo ammettere che tali proposizioni (postulati) sono “indimostrabili” è
sensato. Ma poiché siamo in contesto di dibattito culturale e politico, non ci
si può esimere dall’assumere responsabilità anche rispetto alla formazione delle
opinioni altrui, del confronto e del dialogo: siamo nell’assemblea, sul terreno
della doxa dunque.
Prendo a occasionale testimonianza
l’ultimo documento prodotto da un Ministro (politicamente a me assai lontano)
come la direttiva per il sistema di valutazione. Quest’ultimo sarà finalizzato
a:
- Riduzione della dispersione e dell’insuccesso scolastico
- Riduzione delle differenze tra scuole e aree geografiche nei livelli di
apprendimento
- Rafforzamento delle competenze di base degli studenti rispetto alla situazione
di partenza
- Valorizzazione degli esiti a distanza (il futuro degli studenti NdR) con
attenzione all’Università ed al lavoro.
Non commento la direttiva in quanto tale (lo farò forse in altro contesto). Ma i
postulati richiamati dianzi sembrano contraddetti alla radice, se stiamo alle
intenzioni dichiarate del Ministro. Mi si dirà “son parole…”. Esattamente come i
“postulati”. Si dovrà guardare ai fatti.
Per esempio: se la dispersione e l’insuccesso scolastico hanno tale rilevanza,
significa non che qualcuno vuole rinunciare al valore dell’istruzione come leva
dell’eguaglianza sociale, ma che il nostro sistema non ha tali caratteristiche e
non da oggi, ma almeno da trent’anni, e non ostante il forte centralismo statale
della gestione.
Ma nei fatti nuovi da produrre: la lotta alla dispersione consisterà
nell’abbassare l’asticella (come è stato in questi anni) o si esprimerà in una
serie combinata di strumenti come insegnamenti e gruppi di apprendimento per
livello, recupero effettivo, tempi e spazi di apprendimento e insegnamento
finalizzati… Insomma fatti che mettono in discussione (anche radicale) gli
assetti organizzativi (e anche ordinamentali): classi, orari, classificazione
del lavoro docente, tempi e spazi.. Se è così benvenuti nella discussione “vera”
e nella battaglia politica “vera”.
Altrimenti possiamo ritirarci frustrati, rabbiosi e discettanti, a considerarci
vittime della “congiura della reazione” liberista e privatista.
I diritti di cittadinanza (in particolare l’istruzione) e lo Stato.
Sono stato allevato nell’idea che la
cittadinanza fosse il “percorso” (cultura, formazione, adultità) che conduceva
il soggetto allo “Stato”. Una concezione “ottocentesca” organica allo
Stato-nazione e comunque attraversata da non poche contraddizioni. Ho imparato
poi che, nella fase storica della progressiva obsolescenza di quel modello di
Stato, la cittadinanza assume una dimensione “plurale.
Lo Stato non la “riassume e satura”. Lo Stato è la “cornice”, l’intelaiatura che
“ospita” la dinamica reale della società, la dinamica di interessi, speranze,
aspettative, capacità di auto organizzazione che la “società civile” esprime. La
nostra stessa Costituzione è animata da tale attenzione alle dinamiche reali
della società civile. Inoltre, e proprio per questo, la Costituzione afferma il
progressivo impegno a superare le differenze e gli ostacoli all’ effettivo
esercizio dei diritti. In questa dimensione progressiva non è affatto “super
partes”.
Nella dimensione plurale che la cittadinanza assume oggi, inscrivo una
“cittadinanza societaria” capace di “comprendere e ospitare” quella pluralità di
interessi e capacità di autonoma organizzazione, ma anche per esempio una
“cittadinanza europea” (se vogliamo sia qualchecosa di più di un a esortazione).
Ma che dire di un dettato costituzionale che afferma che la Repubblica è
formata dallo Stato, dalle Regioni ecc… Lo Stato è “una” componente.
Temi di grande discussione certamente. Ma certo non una invenzione “neo
liberista”. Se non si comprende la realtà profonda di tale dimensione
problematica in questa fase storica non si comprenderà neppure lo spessore reale
che ha per esempio la questione ius soli/ius sanguinis… rimarremmo
prigionieri (quale che sia la posizione che assumiamo) del livello di
discussione (?!) praticato dai movimenti populisti. (la Scozia referendaria ha
uno ius soli consolidato. E il Veneto?)
Per aggiungere altri elementi problematici alle semplificazioni (“postulati”)
sul rapporto pubblico-privato-cittadinanza-Stato che non sembrano tenere in
consapevolezza avvertita i mutamenti radicali che dalla fine degli anni ’70 (la
fine dell’età dell’oro..della crisi fiscale dello Stato, delle convenienze dei
modelli di welfare) hanno investito quel rapporto, si provi il lettore a
riflettere non solo sulla disarticolazione frammentazione della stratificazione
sociale (non sono finite le “classi”, ma si sono moltiplicate le faglie e le
dislocazioni sociali che attraversano anche le classi) ma sulla “schizofrenia
sociale” indotta da tali mutamenti.
Un individuo è (almeno) cittadino, lavoratore, consumatore, risparmiatore. E in
ciascuna interpretazione, radicalizzata fino a darsi forme di rappresentanza
specifica (si pensi alle associazioni di consumatori) declina spesso
contraddizioni con le altre rappresentazioni.
Per esempio, lavoratore titolare di una previdenza integrativa si troverà oggettivamente interessato alla speculazione finanziaria nella quale il suo “fondo pensioni” si cimenta per realizzare il massimo interesse dell’azionista. Come “lavoratore” potrà trovarsi in conflitto con una legislazione ambientale che vincola l’operatività della impresa in cui è impiegato; come consumatore potrà vedere di buon occhio le potenzialità di consumo conveniente offerte dalla grande distribuzione che distrugge contemporaneamente il tessuto artigianale dei centri storici. Come risparmiatore troverà conveniente e più semplice impegnare i propri risparmi nell’acquisto di debito pubblico e dunque essere interessato a suoi rendimenti elevati, mentre da cittadino dovrebbe volere il contrario. Oppure sarà incentivato all’investimento immobiliare che è storicamente origine di una deformazione di mercato e di gestione perversa del territorio (ma da cittadino denuncerà la cementificazione..). E si tratta spesso della medesima persona che forse partecipa ad altrettanti “comitati” di quartiere o associazioni di scopo. Se non ci si misura con la realtà di tali stratificazioni che nella attuale fase storica frammentano radicalmente il corpo sociale, parlare di cittadinanza è null’altro che una “astrazione indeterminata”. Giustappunto: un gioco di “postulati”.
Valore pubblico e Pubblica
Amministrazione
Ma la identificazione, sovrapposizione e riduzione tra Stato e cittadinanza
finisce per favorire il rischio di un equivoco che spesso rimane implicito, tra
lo Stato e la Pubblica Amministrazione, identificando quest’ultima come il
“presidio” del “valore pubblico”.
Pensare che il carattere ed il “valore” pubblico del sistema di istruzione si
fondino sulla garanzia della sua gestione affidata alla Pubblica Amministrazione
ed ai dispositivi del Diritto Amministrativo, significa predicare il “valore
pubblico” come una dimensione “ontologica” e non come un obiettivo da
perseguire. E, per essere drastici, dimenticare che oggi la battaglia e
l’impegno per affermare il carattere pubblico dell’istruzione passa proprio
attraverso la capacità di destrutturate e ristrutturare la macchina
amministrativa statale, che mortifica, deprime, rende disfunzionale, inefficace
e non produttiva la “gestione pubblica” del “servizio pubblico”.
Chi agita lo spettro (il “postulato”) della privatizzazione si tranquillizzi: la
scuola privata (quando non seria: gesuiti e salesiani hanno insegnato a fare
scuola in tutto il mondo) insegue qualche beneficio (spesso miserabile)
ammantandolo di alte parole (le “libertà di scelta” per esempio, pure citata dal
Ministro) ma né aspira né soprattutto è in grado di porsi obiettivi di gestione
di sistema.
Il sistema di istruzione non è accerchiato da imprese che aspirano ad assumerne
la gestione, ad accollarsi finanziamenti, a “piegarlo” ai propri interessi…
Semmai se c’è un carattere specifico del nostro sistema di impresa è la sua
indifferenza e la sua assenza nel destinare risorse alla formazione. Le grida
sulla “privatizzazione” oltre che irrealistiche finiscono per assumere la
funzione di “liberare le volpi” perché si dia inizio alla caccia… La caccia alla
volpe è assolutamente indifferente alla preda.. Serve solo ai cani per abbaiare
e ai cavalieri per dare mostra delle loro abilità ippiche. Nel dibattito
politico il ricorso alla “caccia alla volpe” è un espediente ricorrente e nel
quale cascano in molti e tra i più entusiasti nel cavalcare appresso ad una
preda insignificante, lasciando il campo libero sulle cose davvero importanti.
(Vi vengono altri esempi attuali?)
E mentre paventiamo la privatizzazione dell’istruzione, la macchina
amministrativa macina i diritti entro i suoi ingranaggi “neutrali” e “super
partes” del Diritto Amministrativo e del suo “manuale operativo” (vedi un mio
contributo su questo sito “Insegnare: un mestiere di confine”, specie seconda
parte).
Ma qui sta anche il limite del “supermercato della speranza”: quale che sia il
valore reale delle proposte sulla “buona scuola” attorno alle quali si sta
discutendo, posto che si arrivi a tradurle in effettiva “azione politica”, a chi
verrà affidata la realizzazione? Alla Pubblica Amministrazione che conosciamo,
anche se depurata, come si vorrebbe, dalle 100 procedure da semplificare e
abolire? Io penso che il vero “crogiuolo” ove convergono tutti i problemi che
ogni disegno di rinnovamento deve affrontare stia in Viale Trastevere.
E costituisce, per la scuola, il riflesso di una questione più generale e di
valore storico politico per il nostro Paese e per il “modello” di Stato che si è
andato costruendo dall’Unità ad oggi : il carattere del “compromesso e dello
scambio” tra politica e Amministrazione.
Non è riflessione che si possa affrontare qui: mi limito ad una provocazione. Il
lettore si provi a rintracciare il segno della cesura costituzionale ( l’unica
nella nostra storia, quella del 1948: il Fascismo non modificò lo Statuto
Albertino..) nell’assetto della Pubblica Amministrazione. Non lo troverà;
troverà solo la continuità, gli aggiustamenti, le sovrapposizioni aggiunte. E’
una vera e propria “questione nazionale” si sarebbe detto una volta…
Dei grandi apparati del welfare la
sanità se ne è liberata attraverso il regionalismo (cadendo in altre trappole ma
se non altro con il conforto di costruire anche eccellenze di servizio
pubblico). La previdenza si è “aziendalizzata” con l’INPS (ma conservando per
molto tempo un intreccio di corporazioni e privilegi). Le politiche del lavoro
(gli uffici del lavoro un tempo dipendenti dal Ministero) riconoscono il
fallimento e il dover ricorrere a “esternalizzazioni”. L’istruzione è invece
rimasta legata alla “piramide” ministeriale, alle circolari, alle ordinanze,
alla eguaglianza formale del diritto amministrativo (conta la produzione
“dell’atto”, non del servizio effettivo). E’ rimasta legata ad una “catena di
comando” centralizzata e “algoritmica”, come se l’algoritmo amministrativo fosse
davvero capace di controllare e plasmare e governare la realtà complessa di un
sistema a vocazione “universalistica” come l’istruzione e distribuito
capillarmente nel Paese.
E’ mia opinione che il “segno” del rinnovamento reale (non il supermercato della
speranza, anche se apprezzo la speranza) sarà misurabile solamente a partire
dalla destrutturazione di Viale Trastevere.
E tuttavia… Racconto spesso un aneddoto giovanile: la sala del Ministero che un
tempo (una vita fa..) ospitava le sedute del Consiglio di Amministrazione (c’era
anche questo…) oggi si chiama “Sala dei Ritratti” perché appesi alle sue pareti
ci sono i ritratti a olio dei Ministri della Pubblica Istruzione, da Casati fino
a Croce, Gentile compreso. Poi si smise di “eternarli”, anche per mancanza di
spazio. Nelle noia delle riunioni mi trovavo spesso a contarli e ricontarli,
perdendone il conto… Sono infatti, se non sbaglio, cinquantaquattro e coprono un
arco temporale dal 1860 di poco più di sessanta anni. Stando alla durata media
di ogni Governo, chi ha davvero realizzato la politica scolastica del Paese? Chi
ha garantito la continuità necessaria? Il potere politico? Lo stesso Gentile,
che pure ha lasciato segno ancora oggi indelebile nella scuola italiana, è
durato non più di un triennio.. Dunque la Amministrazione ha governato. O
meglio: quel compromesso tra potere politico e potere gestionale amministrativo,
nel quale un potere manifesto (quello politico..) comunque vincolato ad una
dimensione pubblica (gli elettori, i cittadini..) si confrontava, nella sua
evanescenza, con un potere reale, ma non manifesto, che governava davvero “le
cose e le persone”, ma non ne rispondeva. “Potere senza responsabilità”.
Ci abbiamo provato con l’autonomia, a
cominciare a intaccare e destrutturate la “macchina” (e con l’ipotesi connessa
funzionalmente di “valutazione dei dirigenti”). Ma evidentemente gli ostacoli, i
nemici, e le alleanze improprie (Gli apparati amministrativi sono in grado di
costruire convenienze collettive che intrecciano i grandi vantaggi del grande
burocrate con i piccoli interessi dell’usciere..) sono stati più forti.
Soprattutto più forti di un “potere politico” debole, a volte incompetente e a
volte minato da nemici interni (nella scuola un Ministro innovatore come
Berlinguer fu abbattuto da “fuoco amico”).
Perciò capisco il tono dell’intervento di Maurizio Tiriticco al quale mi
accomunano alcune (solo alcune..) idee e lunga esperienza nella scuola: il
rischi del maquillage, rispetto allo spessore dei problemi è tanto più elevato
quanto i problemi stessi vengono mascherati da altro.
Il problema fondamentale è: quali che siano gli elementi innovatori che
“passeranno”, chi li metterà in opera? Viale Trastevere? Dirigenti che sono
passati attraverso “tutte le stagioni” e sempre “realizzando gli obiettivi”
(come da modelli di valutazione dei dirigenti amministrativi che premiano
tutti…)?
Lo scelgo perché è uno degli elementi di
discussione che misura il grado di accordo più elevato (anche per le immissioni
in ruolo del precariato che vi sono connesse).
Quale è il “nocciolo duro” dell’organico funzionale? In una scuola si calcola il
monte ore complessivo di tempo scuola degli alunni; si calcola il monte
complessivo del tempo di lavoro dei docenti; si stabilisce un sensato rapporto
tra i due. Nella scuola primaria l’operazione è evidentemente più semplice; più
complessa ma non impossibile nella secondaria.
Il valore del rapporto tra le due grandezze, grande o piccolo che sia, darà la
misura della flessibilità e “funzionalità” organizzativa della gestione del
personale. (E sarà anche indicatore dell’impegno economico necessario).
Le complicazioni: se adottiamo un criterio da Pubblica Amministrazione, il tempo
scuola degli alunni sarà misurato dalle durate degli insegnamenti (materie,
discipline.. ecc..) previste negli “ordinamenti”. E il tempo di lavoro dei
docenti sarà quello previsto nei contratti, e dettagliatamente specificato e
ripartito secondo la “classificazione” del lavoro prevista nel “manuale
operativo”.
In deroga a tali approcci “statistici” della Amministrazione scolastica, sono
contemplate alcune flessibilità operative previste dalla Autonomia (i moduli
orari, il lavoro per gruppi, ecc..) Ma comunque contenuti entro la
parametrizzazione statistica “invalicabile” (classi, alunni, classi di concorso,
cattedre di insegnamento, programmi..).
Altre deroghe vengono da “accidenti” organizzativi come le supplenze. Se inglobo
anche tali “accidenti” potrei convenire di far assumere a quel rapporto un
valore diverso dall’unità, in modo da disporre di risorse in più rispetto al
fabbisogno “normale”. E’ quello che è previsto nelle proposte che stiamo
discutendo e che trova il conforto di un obiettivo “politico” di grande
rilevanza (e consenso) come quello di assorbire i precariato.
Ma si tratta di semantica ridotta dei termini”Organico Funzionale”, sia per il
numeratore che per il denominatore del rapporto che lo misura.
Infatti da un lato andrebbero inserite l’insieme della attività connesse
all’apprendimento e che non sono riducibili all’assistere alla lezione in classe
(ma questa è l’immagine amministrativa del fare scuola, con buona pace dei
richiami pedagogici e culturali che le stesse circolari ministeriali infiorano);
l’altra voce del rapporto (il tempo di lavoro dei docenti) dovrebbe misurarsi
con il superamento della classificazione del loro lavoro attraverso i puri
parametri tradizionali delle classi di concorso, degli orari delle cattedre (si
pensi a quanto appena accennato sul come si combatte e vince la dispersione
scolastica…), del mero rapporto tra docente e classe…
Ci sono tre strade possibili da scegliere: la prima è accettare benevolmente (ne
va dell’esaurimento del precariato) la declinazione ridotta del significato di
organico funzionale. Condizioni politiche e di politica del personale
comporteranno un “di più” di personale rispetto al rapporto 1:1 tra tempi di
lavoro dei docenti e tempi di scuola dei discenti. Vedremo come impiegare tali
risorse, ma è certo che intanto tamponiamo le supplenze e qualche “progettino”
strada facendo darà dignità pedagogica. Va bene, non mi scandalizza. Ma per
favore smettiamo di discettarne. Semmai semplifichiamo la cosa con una drastica
iniziativa che riguardi la “classificazione del personale e le sue
diversificazioni interne (livelli di scuola, classi di concorso, consistenza
della cattedre, orari di lavoro, e, perché no? Differenziazioni retributive
senza giustificazioni se non il passato. Curioso: temiamo di differenziare il
personale, ma accettiamo che un docente di secondaria guadagni di più di quello
dell’infanzia, il cui lavoro è più che prezioso per dare senso a quello del
primo.) Ma è in vista qualcuno che voglia affrontare la questione?
La seconda strada prevede che la stessa Amministrazione si misuri con una
specificazione dettagliata delle attività con le quali complessificare sia il
tempo scuola degli alunni, sia i tempi di lavoro dei docenti. Una
regolamentazione e un repertorio consolidato sia su un versante che sull’altro
(si va dal recupero, alla digitalizzazione, ad una espansione di alcune
discipline ecc.. e, per i docenti dalla articolazione di figure, allo sviluppo
della formazione, al mentoring). Nulla da eccepire se non che si convalida in
tale modo un modello di “formalizzazione” delle classificazioni e dei repertori,
entro i quali l’approccio “amministrativo” è prima o poi deformante e tende a
conformizzare profili e livelli, al di là della realtà operativa della specifica
organizzazione.
C’è una terza strada che consiste nell’affidare all’autonomia scolastica, alla
sua gestione, alla sua progettazione, alla lettura e padronanza dei propri
bisogni e scelte formative, il compito di riempire di contenuti lo scarto del
valore del rapporto tra tempo scuola degli alunni e tempi di lavoro dei docenti.
Fissato quel parametro (grande o piccolo che sia: dovrà ovviamente tenere conto
dei costi) la flessibilità intrinseca sarà affidata alla autonomia (ed alla
responsabilità) della scuola.
Corollari di tale strada sono un rigoroso sistema di valutazione (ci sono costi
e risorse sia finanziarie che umane coinvolte) e un qualche grado di
flessibilità nella scelta e gestione del personale necessario.
Ma qui si levano le grida alla privatizzazione… A me preoccupa più il fatto che
la selezione del personale è attività professionalmente qualificata e delicata.
Le antiche sperimentazioni “speciali” (ITSOS) lo facevano. Allora l’interessato
faceva il colloquio con il Comitato Tecnico Scientifico. Ma oggi nessun Preside
è stato formato adeguatamente per tale compito. Se smettiamo di inseguire le
volpi se ne può discutere, ma per favore: nel caso la profondità è meglio del
perimetro.