IL
CERCHIO PERFETTO di Ademir Kenovic´, Bosnia, 1997
(produzione franco, olandese, croata, bosniaca e ungherese)
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Scie
di granate che attraversano un cielo cupo, depositando il loro fardello luminoso: siamo a
Sarajevo durante l'altra guerra etnica, non l'ultima (se non fosse per il cartello "Sarajevo
centar" con sullo sfondo un cingolato UN, non si capirebbe la differenza tra
Bosnia, Serbia o Kossovo attuale).
Gli abitanti si aggirano tra le macerie ed i
bivacchi come spettri: sia quelli rifugiati altrove in cerca di scampo, il cui spirito
resta intrappolato a vigilare; sia quelli che cercano di resistere e sopravvivere alla
ricerca di cibo, acqua, sigarette ed alcolici, la cui pelle si rifiuta di cedere alla
paura e ai proiettili vaganti dei cecchini, nonostante il cimitero non abbia ormai posto
per concedere il riposo a tutti i cadaveri.
È un inferno che le riprese dall'alto fanno
pensare ad un girato in situazione, ma al realistico avvicendarsi di edifici che crollano,
strade e piste distrutte, coprifuochi ed incendi, il regista sembra privilegiare la scelta
di affidare a siparietti surreali ed onirici il vero canto di questa tragedia umana,
dedicato alla casa e alla lingua "che non ho più", assenza dichiarata
fin dall'inizio, quando vediamo il protagonista (non a caso fa il poeta di mestiere)
sognare il suo incubo ricorrente: "Se chiudo gli occhi, mi vedo morire impiccato,
non è una buona idea, non è la luce della ragione. Ho una paura, quella di finire appeso
ad una corda, senza il pane dell'amore, senza l'acqua dell'amore, senza l'aria dell'amore,
senza amore. Sono lunghe le giornate senza amore. Senza la luce dell'amore, solamente un
piccolissimo passo e ci si perde nelle tenebre, nelle tenebre
".
E se è vero che la vita è sogno e che i
sogni sono fatti della stessa materia, allora si comprende perché Kenovic´ abbia deciso
di affidare il suo messaggio visivo proprio alla pista onirica: nel film tutti i
protagonisti sognano ad occhi aperti e chiusi, tanto "non si può sognare niente
che sia più brutto della realtà".
Il poeta Hamza sogna treni, fili elettrici che
si incrociano, gallerie che lo portano in riva al mare, ma anche qui arrivano le granate a
mettere in fuga la gente; il piccolo Adir sogna di pescare un mucchio di pesci e per la
gioia fa pipì a letto (le altre volte gli capita per il panico provocato dalle bombe);
Kerim, il fratello più grande, immagina di raccogliere nel fiume enormi pacchi aerei, ma
perde una scarpa e rischia di morire annegato, eppure nel sogno, lui sordomuto, riesce a
sentire il canto degli uccelli. |
E poi tra un sogno e l'altro si è indaffarati, affamati,
stanchi ed impegnati a sopravvivere. Nonostante ciò si ha il tempo di scoprire il valore
del fato, che porta le due storie ad unirsi casualmente, per creare nuove famiglie ed
intimità, fare coraggio, provare solidarietà ed affetti sconosciuti: i due bambini,
rimasti orfani, ospitati presso la casa del poeta, vengono in qualche modo adottati da
lui, che, pur avendo nostalgia della moglie e della figlia (che hanno preferito andarsene
in Croazia con falsi documenti dai nomi cattolici), si intestardisce a restare, a non
bruciare i libri nonostante il freddo, a tracciare cerchi perfetti su un foglio bianco
quando le mani prendono a formicolare, nel tentativo di lottare nelle tenebre; i due
piccoli rifugiati si affezionano ad un cane ferito ad una zampa, che, pur zoppicando su
una sorta di carrozzella (un vero miracolo meccanico con le ruote), deciderà di unirsi a
loro nella fuga in trincea, incontrando la morte a causa di un altro sparo cecchino e
accompagnando così nel viaggio senza ritorno lo sventurato Adir.
Si impara anche a muoversi di corsa in città sotto i colpi
del nemico: "Ho visto i cetnici con i miei occhi, non hanno la testa!",
dirà Adir ad un'amica nel rifugio antiaereo, perché di loro, nascosto sotto il letto, ha
potuto vedere solo le gambe; "Non si è cetnici per il nome, ma solo perché si
ammazza!", spiegherà Hamza ai due bambini dubbiosi sull'identità del nome
dell'amico Marko, che cercherà inutilmente di aiutarli ad attraversare la pista
dell'aeroporto, per andare verso la libertà, che in questo caso si chiama Germania.
Ci si industria a sbarcare il lunario ed allora, quando si ha
una "fame da lupi", tutti gli stratagemmi sono utili: la magia del poeta
consiste nel trovare in casa tutti i nascondigli delle provviste escogitati dalla moglie,
siano essi dietro a libri ("Ecco perchè non vanno bruciati") o dentro
lo sciacquone, nonostante le scorte non siano infinite; la meraviglia basta a riempire gli
occhi, ma non la pancia, sbirciando dietro un reticolato il ballo natalizio
dell'ambasciata francese ("Non sono bosniaci, sono francesi e distribuiscono
pacchi a tutto il mondo: se dai una mano ad un bosniaco, si sa che poi lui si prende tutto
il braccio!..."); la mancanza di cibo spinge a tentare di rubare un volatile
nella popolata piccionaia del vicino egoista e senza cuore, che finirà per essere
distrutta ed incendiata dall'ennesima bomba.
Il volto disperato di chi ha deciso o dovuto restare a
Sarajevo non ha timore a mostrare anche il suo lato nascosto, fatto di paure, invidie,
liti per accaparrarsi l'acqua o per trovare legna da bruciare: ad un vecchio, quando
l'ultima pianta del cortile verrà abbattuta, non resterà che premere il grilletto e
suicidarsi, ad indicare la fine appesa ad una simbolica speranza. Quella stessa fine che
Hamza, ubriaco fradicio, scambia per liberazione siglata Nato: una festa che mostrerà
fulmineamente la sua faccia illusoria ed ingannevole.
La poesia prende voce, nonostante il venir meno di case,
presenze ed affetti ed anche Kemir, indurito dall'esperienza (ha trovato la forza di
ammazzare a bastonate il cetnico che gli ha ucciso il cane e di sparare ad un altro in
procinto di far fuoco su Hamza), imparerà a tracciare il suo cerchio sulla lapide del
fratello morto, per ricordare e congelare nella perfezione di quel disegno geometrico
l'orrore e la violenza della guerra, che solo la morte cancellerà definitivamente.
Solo la morte: l'unica a non distinguere tra vincitori e vinti. |
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Niente può più succedermi,
nè di bene né di male.
Non mi resta altro che contare
i giorni
come un umile soldato,
senza grandi differenze tra il
loro significato e l'intensità.
Bisogna accettarlo ed
ammetterlo
senza drammi.
Lei verrà
e mi prenderà tutto,
dopo avermi preso la carne e le
ossa:
la mia matita con il cuore di
grafite sul tavolo,
la mia intelligenza,
la mia anima,
il quadro appeso al muro,
la musica che rischiara la
stanza,
le lacrime,
la paura,
l'aria satura di polline
e dopo le tenebre, le tenebre,
le tenebre, le tenebre ...
(poesia di Abdulah Sidran
recitata dal poeta nell'epilogo del film) |
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