ANGELI MONELLI CAMPANELLINI
L'ESTATE DI KIKUJIRO
di Takeshi Kitano
Parlare d'estate può sembrare adesso
decisamente fuori stagione, eppure nell'attuale ventaglio di proposte della distribuzione
italiana, irrimediabilmente insipiente nel periodo natalizio, il film di Takeshi Kitano, L'estate di Kikujiro (Giappone, 1999), porta una ventata di
gelida e divertita originalità all'interno degli scarni e sempre più seriali inviti ad
una visione cinematografica di fine anno, nonostante la presenza di figurette stile
presepe naïf collocate sui titoli di testa.
Vacanze di natale e sulla neve a parte se ne consiglia la visione al pubblico, non a
quello rilassato e pieno di buoni propositi che si accinge a trascinare la famiglia al
cinema solo per abbuffarsi con pranzetti basati su un'unica porzione di "pesce
innamorato", ma a quello interessato a rimuginare, seppur nell'evasione svagata, ai
destini di un'umanità bambina, sempre più disperata nell'affrontare una quotidianità
catastrofica, a cui una solidarietà bizzarra può a volte recare conforto alle perdite
subite, anche a quelle ineluttabili o perlomeno connaturate alla natura umana, di per sé
incostante, volubile, peregrina.
Meravigliosa e tenera la regia
di questo film (la soggettiva dell'occhio della libellula che moltiplica l'inquadratura è
una chicca da non perdere, come le riprese di spalle dei personaggi rigorosamente ad
altezza zen) che porta la sigla di Takeshi Kitano, autore di genere, considerato sinistro
e cattivo, noto all'estero per la produzione di B-movies violenti e sanguinari, affreschi
surreali dell'universo yakuza nipponico, popolato da spari, botte, bulli e scazzottate.
Per un istante, invogliati anche dalle ricorrenze natalizie, si fa in fretta a passare in
rassegna le vite meravigliose illustrate da Frank Capra o le magiche atmosfere de Il
monello di Chaplin, oppure ricordare le moderne avventure di adulto con bambino, ad
esempio Alice nelle città di Wenders, Paper Moon di Bogdanovich, La
vita è bella di Benigni (con il quale si coglie un'altra parentela negli sketches,
che nel caso nipponico sono meno gravati dal peso della storia, ma altrettanto se non di
più commoventi) o Central do Brasil di Salles, eppure il piacere della visione,
al di là dei debiti omaggi tributati alla storia del cinema, trova linfa in una
presentazione tragicomica del tradizionale teatro kabuki giapponese, qui rivisitato in
chiave ironica e giocosa, sgravato dalla noia della ripetizione erudita, forse per
renderlo appetibile ai palati occidentali che ne potranno apprezzare i guizzi delle gag,
degne delle migliori comiche dell'epoca del muto.
In effetti il silenzio e la desolazione
delle strade di Tokyo, svuotate dalla calura, sembrano sovrastare l'estate di Masao
(Yusuke Sekiguchi), un timido ragazzino di dieci anni, che abita con la nonna alla
periferia di Tokyo. La scuola chiude i battenti, gli amici se ne partono per le vacanze,
la squadra di calcio sospende l'attività e lui si trova da solo a fare i conti con la
propria storia di orfano, biografia sempre più comune e diffusa. Abbandonato da un padre,
forse "morto in un incidente" o probabilmente fuggito per deresponsabilizzarsi
da future scelte, e da una ragazza, che scopriremo essersi rifatta una vita con famiglia
regolare a carico, il ragazzino, stanco di consumare i pasti predisposti dalla nonna su un
desco lindo e solitario (sembrano essere le copie di se stessi tanto sono perfetti, come
è usanza esibire nelle vetrine dei ristoranti giapponesi), decide di mettersi in viaggio,
munito di un solo zainetto azzurro corredato di alucce bianche, nel disperato tentativo di
ritrovare la madre. Strada facendo, si unirà a lui Kikujiro (lo stesso regista Takeshi
"Beat" Kitano, il cui viso da mafioso un po' suonato e ebete appare segnato da
autentiche cicatrici riportate a seguito di un incidente), marito di un'amica stravagante
della nonna, un angelo custode particolare, che abbandonerà ben presto il compito
prefissatogli, per cercare non tanto di vegliare sulle azioni del bambino, ma di portare
una ventata di allegria e vitalità in quella triste estate che si va consumando,
dimostrando così una propensione alla regressione all'infanzia che non alla comune ed
asfittica ambizione adulta di aiutare a crescere dando l'esempio, in positivo o in
negativo.
Sulla scia di una musica dolce e forse un
po' sdolcinata s'inizia la parte più interessante e divertente del film, giocata sulle
corde del sentimentalismo, senza mai cadere nella melensaggine, e su siparietti onirici
degni della migliore visionarietà surreale, generati dall'inconscio infantile o
alimentati dalla comicità demenziale di un adulto eccentrico. Il lungo road-movie alla
ricerca delle proprie radici bambine si snoda pertanto tra stupide scommesse alle corse
ciclistiche, giochi spensierati improvvisati in un campeggio con l'aiuto di compagni
incontrati lungo il cammino, altri outsider dall'apparenza cattiva e
malintenzionata, i trucidi motociclisti "Hell's Angels", che in realtà
dimostreranno di possedere un animo infantile e giocherellone (il ciccione e il pelato
fanno parte della compagnia teatrale "Takeshi Guntan" con cui il regista lavora
nei suoi spettacoli televisivi), sogni alimentati da tatuaggi che sembrano prendere vita
su schiene umane o da reminiscenze di spettacoli del teatro giapponese.
E nel silenzio c'è il tempo per ridere,
intenerirsi, farsi venire i lacrimoni agli occhi, ascoltare i campanellini di angeli
azzurri portafortuna, che non hanno il potere di restituire le madri, ma solo quelli di
permettere a solitudini appartenenti a generazioni diverse di incontrarsi, darsi la mano,
proseguire lungo la strada del sogno, camminando facendo il verso a Charlot, un po'
bighelloni, monelli e disincantati.
"Un signore ed un bambino" si presero per mano e andarono insieme incontro alla
sera
L'estate avventurosa consentirà ai due protagonisti di sentirsi accomunati
nell'atteggiamento mostrato nei confronti delle perdite subite: Masao riuscirà ad
intravedere la madre, intenta ad accudire amorevolmente il fratellino nato da un'unione
regolare, ma preferirà scappare via, non incontrarla e fingere di credere si tratti di
un'altra donna; Kikujiro avrà il tempo di concedersi una visita alla madre
arteriosclerotica, ricoverata presso una casa di cura, ma anch'egli preferirà restare ad
osservarla sulla soglia, senza farsi notare. Sarà questa ragione o forse una semplice
stravaganza del destino, che riesce a placarsi non a caso nelle fantasie fiabesche, a fare
del loro sodalizio un'avventura piacevole, magica, di certo indimenticabile in questo
clima di film natalizi.
Nessuna morale della favola. Non si tratta stavolta di un viaggio iniziatico o di un
racconto di formazione: ognuno resta al suo posto, il piccolo rimane piccolo, il signore
un po' ebete saluta bonario, mantenendo la stessa posizione ed il medesimo atteggiamento
stralunato e un po' gradasso di prima della partenza.
"Grazie, signore!
Signore, ma tu come ti chiami?".
"Kikujiro, scemo!".
Buona visione
|