16.10.98
Bambini turchi, bambini italiani: il caso Benetton
Sul "caso" Benetton interviene il nostro redattore Aluisi Tosolini, ben noto ai visitatori del nostro sito come curatore della rubrica sulla educazione interculturale
Non ha certo avuto lo stesso clamore dell'ultima campagna pubblicitaria eppure si tratta di un fatto gravissimo. Di cosa parliamo? Di capi di vestiario a marca Benetton prodotto in Turchia da bambini di età inferiore ai 14 anni. Un'inchiesta, condotta da Riccardo Orizio de "Il Corriere della sera" su indicazione di Dervis Kaplan (numero due del sindacato tessile in Turchia), ha portato prove inoppugnabili.
Di che si tratta? Orizio dimostra che presso la fabbrica Bermuda (che su ordine della Bogazici Hazir Giyim, subcontractor della Benetton in Turchia - 3 milioni di capi l'anno - realizza capi di vestiario per la Benetton) lavorano, per 6 mila lire al giorno, molti bambini.
Da Ponzano (TV) la Benetton si difende sostenendo che non ne sapeva nulla e che bloccherà immediatamente l'appalto. Difesa debole: per sapere bastava infatti visitare la fabbrica (cosa che il contratto di subfornitura permette in ogni momento) non solo per verificare la qualità dei prodotti ma anche quella dei produttori. Legittima allora la domanda di Manuela Cartosio su "Il Manifesto": "chissà perché spetta sempre agli altri scoprire che in aziende a loro (alle imprese italiane, ndr.) collegate lavorano anche i bambini. Si limitano ad accampare garanzie cartacee che aggiungono al lavoro minorile un tocco di ipocrisia planetaria".
Ipocrisia che tocca i vertici se proprio sui problemi (vedi handicap) o sulle prospettive felici dei bambini nel e del mondo si costruiscono rutilanti campagne pubblicitarie. Ha proprio ragione Vincenzo Ruggiero (si veda il volume Economie sporche, Bollati Boringhieri) a sostenere che metodi legali e metodi illegali non sono null'altro che due diverse metodologie e strategie di marketing e che ogni impresa transnazionale adopera ora l'una ora l'altra a seconda delle opportunità. Così si può far lavorare in fabbrica i bambini in Turchia (o "costringere" le puerpere dei paesi poveri del sud del mondo ad usare latte in polvere, come la Nestlè) e poi schierarsi in Italia a totale difesa dei diritti dei bambini stessi (o sponsorizzare scuole, come la Nestlè).
Insomma, oltre alla globalizzazione dell'economia assistiamo anche alla globalizzazione dell'ipocrisia che dopo aver tutto ridotto a merce (uomini e cose) tenta con dispendiose campagne pubblicitarie di ridare valore non mercantile ad alcuni uomini e ad alcune merci. Chiudendo gli occhi a sé ed agli altri sul fatto che tale paradiso poggia spesso i piedi nell'inferno del lavoro minorile.
Aluisi Tosolini