Apollo, Caino, Prometeo e.. le “Nuove Indicazioni”
di Franco De Anna
“Lo studente al termine del primo ciclo, attraverso gli apprendimenti sviluppati a scuola, lo studio personale, le esperienze educative vissute in famiglia e nella comunità, è in grado di iniziare ad affrontare in autonomia e con responsabilità le situazioni di vita tipiche della propria età, riflettendo ed esprimendo la propria personalità. Dimostra una padronanza della lingua italiana tale da consentirgli di comprendere enunciati e testi di una certa complessità, di esprimere le proprie idee, di adottare un registro linguistico appropriato alle diverse situazioni. Nell'incontro con persone di diverse nazionalità è in grado di esprimersi a livello elementare in due lingue europee. Allo stesso modo riesce ad utilizzare una lingua europea nell'uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione: posta elettronica, navigazione web, social network, blog, ecc.. Le sue conoscenze matematiche e scientifico-tecnologiche gli consentono di analizzare dati e fatti della realtà e di verificare l'attendibilità delle analisi quantitative e statistiche proposte da altri. Il possesso di un pensiero razionale sviluppato gli consente di affrontare problemi e situazioni sulla base di elementi certi e di avere consapevolezza dei limiti delle affermazioni che riguardano questioni complesse che non si prestano a spiegazioni univoche. Utilizza in modo sicuro le tecnologie della comunicazione con le quali riesce a ricercare e analizzare dati ed informazioni e ad interagire con soggetti diversi. Possiede un patrimonio di conoscenze e nozioni di base ed è allo stesso tempo capace di ricercare e di procurarsi velocemente nuove informazioni e impegnarsi in nuovi apprendimenti anche in modo autonomo. Ha assimilato il senso e la necessità del rispetto delle regole nella convivenza civile. Ha attenzione per il bene comune e per le funzioni pubbliche alle quali partecipa nelle diverse forme in cui questa può avvenire: volontariato, azioni di solidarietà, servizio civile, ecc. Dimostra originalità e spirito di iniziativa. Si assume le proprie responsabilità e chiede aiuto quando si trova in difficoltà. In relazione alle proprie potenzialità e al proprio talento si impegna in campi espressivi ed artistici che gli sono congeniali.”
(Da “il profilo dello studente al termine del primo ciclo di istruzione – dalle “Nuove” Indicazioni)
L’adolescente “apollineo”.
Confrontandomi con queste parole (esortazioni?) vengo colto da sgomento non sentendomi assolutamente all’altezza di esse, e alla mia età, per giunta, con qualche problema circa il realismo di un possibile (invocato?) miglioramento.
Il secondo pensiero (consolante) è che lungo tutta la mia vita nella scuola non ho mai incontrato questo “Apollo adolescente”.
Il terzo pensiero muove dalla considerazione che si tratti di un esercizio di modellizzazione “idealtipica”. Gli estensori delle Indicazioni si sono misurati con lo sforzo di definire il “dover essere” del “buon “ adolescente a cui traguardare gli sforzi comuni delle “istituzioni formative” e di coloro che vi operano. Le scuole innanzi tutto (la loro specializzazione istituzionale) ma non solo: le “funzioni” pedagogiche della scuola allargano la loro sfera di azione alla società intera; elaborano “valori” e significazione sociale, non solo risultati e diplomi.
Padri e madri dovrebbero guardare ai loro figli attraverso analoga lente di ingrandimento.
Il quarto pensiero si interroga, però, sul “senso” che assume, proprio per questa funzione pedagogica “estesa” tale approccio idealtipico e apollineo. E qui si formulano inevitabilmente domande con risposte complesse e contraddittorie.
Quali significati trasmette questo approccio? Quali interpretazioni a livello dell’organizzazione del sistema (la parte istituita: programmi, ambienti, lavoro, tempi, spazi) si legano alle prescrizioni “idealtipiche”? Quali interpretazioni a livello delle relazioni educative (i processi “istituenti” del lavoro docente)? Quali modelli culturali e professionali?
Non si tratta (solo) di questione “filosofica” (pur fondamentale): se questo è il “polo” attorno al quale si rielabora la significazione del sistema di formazione vi sono inevitabili e consequenziali approcci a questioni eminentemente pratiche.
Due esempi molto attuali e discussi: il primo è la “valutazione” (non le “rilevazioni INVALSI" ma quella che anima quotidianamente la relazione educativa docente/discente), il secondo è la questione BES (che cosa è “speciale” e cosa è “normale” nella relazione educativa?).
Apollo, Dioniso e l’adolescente idealtipico.
Apollo e Dioniso presiedono l’intero percorso della vita di ciascuno, tra composizioni, rielaborazioni, rimossi, formazioni di compromesso, scelte consapevoli e inconscio.
Potremmo naturalmente utilizzare altri riferimenti: l’intera storia della psicanalisi ce ne offre certamente di più efficaci e analitici. Ma qui è sufficiente il richiamo ad antichi miti.
Ma se c’è una “problematica specifica” della dialettica apollo-dioniso è quella della lunga fase di formazione dell’uomo (animale di plasticità unica, animale “neotenico” che mescola precocità e apprendimento permanente, mai adulto e compiuto).
In particolare ciò riguarda l’adolescenza.
L’eccesso è “parte costitutiva” dell’umano. Un tratto specie-specifico direbbe un biologo. La rielaborazione dell’eccesso, la ricomposizione di Legge e Desiderio, costituiscono una chiave di lettura tanto delle storie dei singoli quanto dei miti e riti che organizzano le culture e le società (direbbe un etnoantropologo: stiamo tra Darwin, Horkheimer, Lacan).
Ma per un adolescente “l’eccesso” è l’esperienza quotidiana che accompagna il percorso verso l’adultità.
La rielaborazione dell’eccesso contrassegna il “carattere” specifico di quest’ultima, la fisionomia individuale del soggetto, la sua irriducibilità a “modello”. Il suo divenire “persona” e dunque il suo relazionarsi all’altro (persona, prosôpon = maschera, rappresentazione).
Conservo una fotografia della mia seconda Media (prima della Media Unica) che spesso uso nelle iniziative di formazione. Era l’unica classe mista di tutta la scuola. Ero, come gli altri maschi, in cravatta, e le ragazze in grembiule nero. La scuola di allora, socialmente e culturalmente più che selettiva non si occupava del mio “eccesso”.
Mi valutava nel mio progressivo assomigliare, fin dall’abbigliamento (la cravatta) all’adulto che “avrei dovuto essere”.
Ma “sapeva” delle necessità dell’eccesso…Si leggevano “Le avventure di Tom Sawyer e Hukleberry Finn”… “I ragazzi della via Paal”, Salgari… (Oggi che diremmo: BES o bullismo?). Semplicemente non era la scuola ad occuparsene. La sua “specializzazione” sociale era la “selezione” attraverso la riproduzione “dell’enciclopedia” e dei “comportamenti codificati”.
Operava, anche in quella condizione, una sorta di “idealtipo” di riferimento. Non dichiarato, ma non meno definito di quello elencato nelle Nuove Indicazioni.
La scuola di oggi, nella sua dimensione universale e universalistica, nella estensione della sua funzione sociale in termini di eguaglianza, promozione, cittadinanza, può operare con il medesimo paradigma “apollineo”? Può ignorare, come uno scarto indesiderato, l’eccesso e Dioniso, ed esimersi dalla loro rielaborazione?
Anche in tale caso non si tratta di una domanda di mera “filosofia dell’educazione” (per altro fondata..) ma di un rilievo urgente, “pratico”, che contrassegna l’esperienza quotidiana di chi lavora con gli adolescenti.
Uso la citazione di Recalcati (e Lacan) non come riferimento a “scuola di pensiero”, ma come sintesi efficace di una problematica “pratica”: mai come oggi, nella scuola, i docenti si misurano con la densità della rielaborazione del rapporto tra Legge e Desiderio, a fronte declino del Padre.
E con la varia problematica che gli irrisolti di tale rielaborazione producono nella varia fenomenologia adolescenziale.
E dunque l’idealtipo apollineo non rappresenta (come pensa qualcuno) l’enunciazione di traguardi lontani, ambiziosi e difficili, rispetto ai quali adottare misure adeguate e graduali. Rischia invece di rappresentare “altro da ciò” che concretamente anima la relazione educativa.
E (si tratta di notazione parallela ma isomorfa) di sollecitare alcuni caratteri “tecnici” del lavoro “formativo” dei docenti e di lasciarne in ombra le sensibilità cliniche necessarie alla cura di una relazione diversa da quella segnata da traguardi, obiettivi, risultati.
Il sapere e la conoscenza tra Caino e Prometeo.
Per Aristotele l’uomo è zôion logon ekhon;
La Scolastica medioevale ha tradotto “animale razionale” identificando logos con ratio.
Ma Aristotele dice Zoion: l’anima che sta nella radice della nostra parola “animale” non c’entra, anzi è fonte di equivoci. E anche il termine Logos ha qui un significato diverso e più ricco di quello di “ragione”.
Si potrebbe meglio dire, parafrasando Aristotele, che l’uomo è un animale “simbolico” o meglio, l’uomo è un animale “semantico”, significante. Il che va ben oltre alla “razionalità”
Nella narrazione biblica dio assegna all’uomo la potestà fondamentale di “dare il nome alle cose”, e “in qualunque modo l’uomo avesse chiamato gli esseri viventi quello doveva essere il loro nome”. (Genesi 2,19-20)
Anzi il versetto citato è preceduto da queste parole: “…Dio plasmò dal suolo tutti gli animali … e li condusse dall’uomo per vedere come li avrebbe chiamati…” Il creatore assume perciò per la propria creazione i nomi che ad essa dà l’uomo, la presenta a lui “indifferenziata” e “assiste” a questa opera semantica.
D’altra parte con la raccolta del “frutto proibito” il Libro ci racconta “il Signore Dio disse allora: ecco l’uomo è diventato come uno di noi, conoscendo il bene e il male. Ora facciamo sì che egli non stenda la sua mano e non prenda anche l’albero della vita così che ne mangi e viva in eterno. E il Signore Dio lo mandò via dal giardino di Eden perché lavorasse la terra dalla quale era nato” (Genesi 3, 22-23).
Ancora (e si perdonerà a un ateo come il sottoscritto di usare la Bibbia come riferimento) più avanti nel racconto il mite Abele che accompagna le sue greggi, viene ucciso da Caino (e Dio proclama “nessuno tocchi Caino”, segnandolo perché sia riconoscibile).
La “discendenza di Caino” fonda città, fabbrica attrezzi, e da essa provengono “.il.padre di tutti i suonatori di lira e di flauto… istruttore di quanti lavorano il rame ed il ferro…” (Genesi 4, 17-22).
Topos analogo si ritrova nella figura di Prometeo, sottoposto a supplizio.
“….e chi prima di me scoprì i doni nascosti nella terra, il bronzo, il ferro, l’oro?.. E inventai il cocchio al marinaio, su ali di lino errante per i mari. Mille cose inventai per i mortali…” (Eschilo, Prometeo incatenato, 15-25).
I miti “fondativi” intrecciano il sapere, la capacità di trasformazione della natura, il tratto caratteristico dell’uomo, al peccato, alla trasgressione, all’eccesso, alla “punizione”.
Anzi, si potrebbe affermare che il primo fondamentale “esercizio” della conoscenza (l’assegnazione di significati) è intrecciato all’eccesso (dio stesso riconosce come “nome” delle cose da lui create quello assegnato dall’uomo; si rifà di questa dipendenza condannando l’uomo alla sofferenza ed alla morte, scacciandolo e facendone un “fuggitivo”. Ma così anche Caino).
Certamente Eschilo e Mosè (o chiunque abbia scritto la Genesi) non si conoscevano. Ma rielaborano in forme diverse il medesimo costrutto: la conoscenza è tutt’altro che “modellizzazione apollinea”; l’eccesso (per riutilizzare il termine precedente) non è “lo scarto” di un processo di costruzione del sapere, ma ne è componente intrecciata.
L’invenzione dell’io fa libero l’uomo e lo pone come produttore della storia, e contemporaneamente lo rende permanentemente “fuggitivo” (cacciato) e segnato dallo scarto della sua mortalità.
Su tale intreccio tra l’eredità della filosofia greca e della tradizione giudaico cristiana (le radici della nostra civiltà) si impianta il “mito pedagogico” che permane come riferimento di lunga durata alla base delle realizzazioni storiche concrete che, dal proto illuminismo ateniese ai sistemi di istruzione di massa, si sono “specializzate” nella “formazione dell’uomo” e nella “riproduzione culturale” della società.
Gli ordinamenti e la formazione
L’uomo che esercita il logos, l’io contrapposto al mondo, che si è impossessato del sapere nell’Eden contendendolo a dio, che ha “scoperto” la libertà e lo spirito, che esercita la significazione, e che nella ricerca di una nuova “mediazione” tra io e mondo costruisce la storia, come un fuggitivo che cerchi la meta, è “costitutivamente” incompleto, mancante, mai “adulto”.
Il soggetto della pedagogia è questo soggetto mancante, incompleto, mai compiuto.
La sofferenza dello scarto, dell’incompiutezza, della inevitabilità della morte che accompagnano la scoperta dell’io, della libertà, del sapere, del potere di costruire la storia e l’esercizio del logos, immettono nella dimensione oscura, dionisiaca e “notturna” della psiche, che non si lascia “ridurre” alla “luminosità” apollinea della ragione.
La paideia, l’educazione, nel “mito pedagogico” non si riducono a “istruzione”. Lo sguardo pedagogico non può che dedicarsi anche al buio ed alla oscurità di quello scarto e di quella angoscia e del dolore costitutivo che accompagna l’affermazione della libertà e della adultità del soggetto e che ne costituisce l’incompiutezza. Non può che assumere il valore di “cura”, di “clinica” (chinarsi su..)
O se si vuole, e mi si perdonerà l’ennesima metafora, l’educazione è sempre declinazione di Aufklärung e di Bildung.
Naturalmente sarebbe assai improprio chiedere che entro gli strumenti istituzionali che informano gli “ordinamenti” (come le Nuove Indicazioni) trovassimo un compendio di filosofia dell’educazione.
La dimensione “istituita” dei processi formativi che si sviluppano entro una organizzazione complessa, che impegna risorse economiche ingenti, che mobilita lavoro e professionalità, tempi e spazi dedicati, che riverbera costi e benefici sull’intera formazione sociale, dalla cultura al costume, alla implementazione di sapere e conoscenze nello sviluppo economico, rende necessarie definizioni di obiettivi, misura dei risultati, una “economia” dunque (intesa come necessaria corrispondenza tra mezzi e fini).
Insomma la formazione, come “processo istituente” (il percorso verso la significazione…), accade, a partire dal secolo scorso, entro un “ordinamento istituito” che è parte sempre più significativa della organizzazione sociale.
Da questo punto di vista, dunque, sono inevitabili e necessari i “quadri di riferimento”, i “programmi”, le “indicazioni”.
Rimarrebbe da discutere se abbia senso, e se si quale, la determinazione di essi secondo “modellizzazioni idealtipiche” che rischiano di essere totalmente sganciate dai soggetti reali cui dovrebbero fare riferimento.
Ma le proposizioni precedenti sono altrettanti interrogativi, e radicali, in tale senso e forse sarebbe opportuno cogliere l’occasione del confronto collettivo sulle “Nuove”(!?) Indicazioni, per sviluppare tale discussione.
La dialettica della formazione si sviluppa tra queste due polarità della dimensione istituente (la formazione dell’uomo, la significazione) e del “contenitore istituito” (l’ordinamento, l’organizzazione). La “buona istituzione” è quella capace di offrire alla dialettica istituente lo spazio che ne rispetti ed anzi favorisca la dinamica propria.
E viceversa è necessario che l’organizzazione del processo istituente si misuri con “l’economia dell’istituito” e con la scelta delle alternative tecniche più appropriate.
La precondizione di tale difficile composizione dialettica (che costituisce il sale del “fare scuola”) sta nelle chiarezza distintiva delle polarità indicate, nel rintracciare sempre lucidamente le oscillazioni tra l’una e l’altra polarità che accompagnano tale dialettica.
Oggi temo invece una “cosalizzazione” pedagogica che vede affermarsi una invasione dell’istituito entro la dimensione istituente e un suo sostituirsi ad essa.
Gli artefatti tecnici sembrano sequestrare l’attenzione del confronto professionale e culturale senza che vi sia consapevolezza critica di ciò.
Il curricolo, i cicli, gli obiettivi, le indicazioni, le “competenze”… Si tratta di strumenti essenziali, ma, appunto, strumenti. Sono “tecniche” e dunque “artefatti” rispetto al carattere “istituente” e clinico della formazione.
Ma occupano l’intero spazio del confronto culturale sulla scuola.
Fare il docente è un “mestiere pratico”; come per tutti i lavori “pratici” richiede di avere a disposizione una borsa degli attrezzi ricca e variegata capace di aiutare a risolvere problemi che hanno una dimensione per definizione “non standard” (la persona, il soggetto in formazione).
Non si può né pensare né tanto meno predicare che vi sia “una” tecnica “risolvente” (neppure, o tanto meno, la “nuova scoperta” delle competenze, qualunque cosa significhino) per sua intrinseca superiorità, pena un impoverimento della cultura e della “professione” (ciò che una persona “sa e dà” nel proprio lavoro) del docente.