04.11.2008
I miei primi quarant'anni
(sintetica storia di 40 anni di riforme della scuola)
di Pasquale D'Avolio
“Quarant’anni da smantellare” questo il
titolo del Corriere della Sera all’intervento del ministro Gelmini di fine
agosto. Sono i miei quarant’anni, ho pensato subito: infatti ho
iniziato proprio 40 anni fa e a maggio ho deciso di porre fine alla attività
di “operatore scolastico” (20 da docente e 20 da Preside) andando pensione.
Mi sono “smantellato” da solo, prima che lo facessero altri.
Non c’è amarezza né rassegnazione in quello che dico: infatti da settembre
sono diventato un “pensionato dello Stato”, ma non mi considero affatto “in
quiescenza”.
Mi si perdonerà questo intervento sul filo dell’autobiografia, che non è
solo la mia ma di quanti in questi 40 anni non si sono limitati a svolgere
onestamente e diligentemente il lavoro nella scuola, ma hanno “preteso” di
cambiare, innovando, il nostro sistema scolastico (e non solo), anche
sull’onda di quel movimento, che prendendo le mosse dal ’68, portò alla
grande stagione delle riforme negli anni 70: una scuola di massa e di
qualità, una scuola “aperta” al futuro, “democratica” nel senso vero della
parola, che superasse le angustie crociane gentiliane che ci portavamo
dietro da decenni. Quarant’anni da buttare? Non credo, anche se a partire
dagli anni 90 in tanti avevamo avvertito che occorreva una nuova “svolta” a
seguito dei cambiamenti epocali di fine secolo, che non bastava battersi per
le “pari opportunità” e che la spesa per l’istruzione andasse
razionalizzata. Il “Libro Bianco” della Cresson insieme al rapporto Unesco
“Nell’educazione un tesoro” furono le nostre guide. Ora torniamo a discutere
di voto di condotta, di pagelle con i voti alle elementari e non si
intravede un disegno riformatore vero che ridia alla Scuola un’anima, come
si dice da più parti.
Un breve excursus storico
Gli anni 70, è bene ricordarlo,
non furono solo gli “anni di piombo”, come spesso si vuole sottolineare, ma
anche quelli delle grandi conquiste civili, della riforma regionalista,
della riforma sanitaria e nella scuola la stagione dei Decreti delegati e
della 517/77, della integrazione degli alunni disabili, del “tempo pieno”
(quello vero, non il “servizio sociale” a cui si è ridotto ultimamente). La
lezione di Don Milani, pur con tutte le contraddizioni ivi presenti e le
incomprensioni o le “infatuazioni” successive (ma molti di noi avevano letto
anche Gramsci con il suo appello alla “serietà” dello studio, che è anche
fatica) aveva dato uno scossone alla Scuola e si stava annunciando la
riforma delle riforme, quella delle superiori, che avrebbe dovuto chiudere
il capitolo gentiliano. A distanza di 40 anni lo “scossone” ce lo sta
portando la Gelmini.
Ricordo il Convegno di Frascati del 70 con i 10 punti per la riforma delle
superiori, le varie proposte di legge (la prima di Raicich del 1973, chi se
la ricorda?) , abortite a più riprese in Parlamento, cosicché ci ritroviamo
oggi a quasi 40 anni di distanza ad avere ancora un Liceo “gentiliano”,
frequentato ancora per la maggior parte dai figli della classe dirigente, e
a dover discutere sul destino della formazione professionale da
regionalizzare o meno. Noi, generazione degli anni 70, non stavamo però
fermi. Mentre nelle elementari e nelle medie, soprattutto in queste ultime,
ferveva il dibattito sulla “programmazione” e sulla scheda di valutazione,
mentre si iniziava il processo di rivisitazione della scuola elementare che
avrebbe condotto, dopo anni di sperimentazione e di formazione
obbligatoria, alla L. 148, quella che è conosciuta come la riforma dei
“moduli”, nelle superiori i docenti più impegnati e motivati erano alla
ricerca di un modello di scuola superiore non più dualistico. Ricordo la
rivista “Sensate esperienze” delle scuole liceali sperimentali. Era la
stagione delle “sperimentazioni” ex art. 3 della 419/74, a volte
improvvisate, non sempre sostenute da adeguato retroterra
didattico-scientifico, ma in alcune punte di eccellenza (Ivrea, Ferrara,
Bologna e altre città) il lavoro di svecchiamento della vecchia scuola genti
liana fu enorme e importante. Tra l’88 e il 94, mentre tramontava la prima
repubblica, ci fu l’entusiasmante stagione del “Brocca”. Ma qualcosa diceva
che il vento stava cambiando. Al Convegno di Fiuggi del 94 sulla
sperimentazione “Brocca” i partecipanti avvertirono che si stava chiudendo
un ciclo.
Dopo la breve parentesi dell’”interregno” (D’Onofrio, Lombardi) iniziò la stagione berlingueriana. Ci si illuse in una nuova “ripartenza”: la grande riforma dell’autonomia con la Bassanini, la riforma dei cicli, i 40 saggi, gli Istituti comprensivi, il Libro Bianco e …. tante illusioni! Forse non sbagliavano gli studenti ad opporsi al disegno berlingueriano sull’autonomia e ad occupare le scuole: la “modernizzazione” promessa restò tale, una promessa appunto, come l’autonomia. Una analisi seria di quegli anni non è stata ancora fatta: a partire dalla “privatizzazione del pubblico impiego”, con annessa pansindacalizzazione della Scuola, alla scelta di abolire (si disse semplificare, ma era una “ritirata”) le schede di valutazione, che chiudeva il grande dibattito sulla valutazione, il tentativo, quello sì “rivoluzionario”, di cambiare gli ordinamenti complessivi (il famoso “settennio”), tentativo osteggiato da tanti ma soprattutto sflilacciatosi nei tempi per colpa anche dei Ministri Berlinguer e De Mauro, fino ad abortire prima che iniziasse; e poi la grande rivolta al “concorsone” (gestita ahimé all’unisono dall’ultrasinistra e dalla destra) e la “conquista” della dirigenza scolastica, l’unica eredità lasciataci da Berlinguer insieme alla “parità scolastica”. Sono questi ultimi due punti a rimanere saldi in seguito. Fu vera gloria?
Il quinquennio morattiano si è consumato nella disputa inconcludente sui “piani di studio personalizzati”, il tutor e il portfolio nel I ciclo e il “doppio canale” nelle superiori, una lotta senza vinti né vincitori. Di Fioroni non giova parlare.
E così all’inizio della nuova legislatura
tutti i nodi veri della Scuola italiana sono venuti al pettine.
Le analisi impietose di studiosi e ricercatori (basti citare i quaderni
documentati di TREELLE) in questi ultimi anni sulla arretratezza della
nostra Scuola rispetto alla scuola europea sono stati bellamente ignorate,
sui dati OCSE a partire dal 2001 pochi hanno riflettuto allora (salvo
“stracciarsi le vesti” oggi), le proposte riformatrici di un gruppo di
“illuminati” di entrambi gli schieramenti non scalfirono più di tanto, il
famoso “gruppo del buonsenso” quasi deriso, e mentre la barca “imbarcava
acqua” la sinistra politica e sindacale continuava a ripetere gli stanchi
lamenti sulle risorse che calavano (mentre i posti aumentavano) e il
programma dell’Ulivo sulla scuola, che pure accennava all’urgenza di una
svolta, veniva accantonato.
Una ricostruzione incompleta e forse eccessivamente critica della politica
scolastica delle forze “progressiste”, me ne rendo conto; ma se se ci
riflettiamo bene non si può non convenire che una buona parte di
responsabilità di questa svolta all’indietro del nuovo governo ricade anche
su una parte della sinistra, in quanti hanno speculato sull’immobilismo e la
difesa corporativa degli operatori scolastici (i sindacati in primo luogo),
con la complicità o la inadeguatezza di chi non ha saputo contrastare come
si doveva la “deriva”.
E così ora ci ritroviamo proiettati all’indietro di 40 anni.
La sfida che ci attende
Ce la faremo a ripartire? Sì, se
non ci limiteremo ad erigere barricate, se sapremo far tesoro degli errori
passati, che non sono colpa del ‘68 (su questo non ci piove) ma di chi non
si è accorto del mondo che cambiava e si è intestardito a difendere
l’indifendibile, convinto che la mission della scuola italiana (quella che
ci aveva animato negli anni 70) dovesse rimanere inalterata, come se il
concetto di “equità” non si potesse sposare con il “merito”, come se la
quantità (aumento delle ore, aumento dei diplomati, aumento degli
insegnanti) bastasse da sola a migliorare la scuola e non si è preoccupata,
se non a parole, della qualità.
Ha ragione la Mancina che in un articolo recente sul “Riformista” invita ad
accettare la sfida della destra: su alcuni punti avremmo dovuto essere noi
“democratici-progressisti” (si può usare ancora questa espressione senza
essere rétrò?) a farci paladini di una svolta che non c’è stata per
l’opposizione intransigente di una sinistra massimalista e per l’immobilismo
di un Sindacato teso a difendere la “categoria” e poco attento agli
interessi generali. Gli sprechi che ancora restano specie in alcuni ambiti,
la “deriva impiegatizia” dei docenti, l’assenza di un disegno riformatore
sul lato della meritocrazia: questi sono i “peccati” non adeguatamente
combattuti. Ma soprattutto una nuova didattica, una formazione “seria” dei
docenti, e il superamento del vecchio “asse culturale”, come si chiamava una
volta; in poche parole una Scuola a livello europeo. Non si può non
condividere il Berlinguer “ultima maniera” (Corriere del 16
settembre) che invita a “entrare nel merito” e il merito è la qualità
dell’insegnamento-apprendimento. E’ questo che chiedono le famiglie e
l’opinione pubblica più avvertita. Basta leggere il risultato di una
indagine del “Gazzettino” su cosa lamentano maggiormente i cittadini del
Nord-esr sulla scuola: al primo posto (25%) è la inadeguata formazione degli
insegnanti. Si può discutere su tale risultato, ma è quanto è percepito,
seppure in una zona particolare dell’Italia.
Una considerazione finale sulla figura e il ruolo dei Dirigenti scolastici.
Colpisce l’affermazione della Aprea nella presentazione del suo ddl
attualmente in discussione al Parlamento. Nella Scuola, si dice, è venuta a
mancare la leadership educativa, rappresentata un tempo da quelli che si
chiamavano Presidi o Direttori Didattici: Non è una perdita da poco, salvo
che la Aprea si limita a costatare il fatto senza proporre soluzioni. La
soluzione della Mancina è invece “una formazione aziendale dei D.S” (sic!)
Il sottoscritto ha trovato la “sua” soluzione: dimettersi prima dell’inizio del nuovo “quarantennio”