28.12.2010
Risalire la
china
di Stefano Stefanel
Il Corriere della sera dell’8 dicembre ha titolato: ”Più bravi gli studenti italiani. Le eccellenze in Lombardia”. Il dato più significativo è quello per cui per la prima volta dall’avvio del Programma Ocse-Pisa saliamo e non scendiamo: passiamo dal 33° al 29° posto, che certamente non è un grandissimo passo in avanti, ma perlomeno inverte una tendenza decennale. Inoltre i dati disaggregati dicono che la Lombardia supera il Nord Est e si colloca nella fascia alta delle rilevazioni Ocse, facendo un bel balzo in avanti, e che il Friuli Venezia Giulia è una regione d’eccellenza sia in matematica che in scienze. La Puglia riesce a salire sopra media Ocse, di poco, ma è un risultato eccezionale perché è l’unica regione del sud a farcela. Come sempre avviene tutti vogliono accaparrarsi il risultato, ma ci sono dati interessanti da valutare anche nelle scomposte reazioni politiche. Il Ministero rivendica la bontà della strategia “valutativa” (Invalsi, Voti, Crediti non sanati da riparare, ecc.), l’opposizione la forza insita nel corpo docente e studente. Entrambe le rivendicazioni sembrano piuttosto deboli, perché il meccanismo valutativo è intervenuto sulla dispersione (aumentandola), ma non sugli apprendimenti, migliorati da altri interventi. Mentre la forza insita nella scuola sta convivendo con un malcontento e un’agitazione facilmente percepibile.
C’è una lettura critica che si può fare dei dati e che deve prescindere dalle interpretazioni ideologiche e di parte:
l’inversione di tendenza avviene in un periodo di restrizione delle risorse e di tagli strutturali alla scuola (che non nascono con l’attuale Governo, visto che le scuole oggi vantano crediti con lo Stato che datano dal 2005);
la Lombardia è la regione d’Italia con le scuole private e paritarie di più alto livello, e che hanno più risorse e più aiuto dalla Regione;
i risultati migliori vengono da Trento e dalla Lombardia, cioè dalle Regioni in la regionalizzazione assoluta dell’istruzione è vista come una pratica da attuare (Lombardia) o attuata (Trento);
il Friuli Venezia Giulia è la Regione italiana che maggiormente interviene con fondi propri a sostegno dell’offerta formativa.
Se la scuola reagisce bene alle difficoltà crescenti, credo sia necessario chiedersi perché quando le difficoltà erano minori e le risorse maggiori i risultati erano molto più scarsi. Se la Regione che fa più progressi è quella che maggiormente ha un rapporto concorrenziale tra scuole private/paritarie e scuole pubbliche vuol dire che quel rapporto non nuoce alla scuola pubblica. Se la Puglia ha invertito la tendenza, il Meridione italiano da lì deve partire e non da impossibili tentativi di riprendere il nord.
Tra l’altro i dati Ocse-Pisa definiscono chiaramente quello che è noto a tutti: il sistema scolastico statale è di gran lunga migliore di quello privato-paritario e questo perché il sistema di reclutamento dei docenti da una parte, la disomogeneità delle classi dall’altra creano comunque ambienti di apprendimento migliori di quelli creati da scuole private per lo più confessionali, che hanno come unico contraltare alla scadente qualità dei docenti l’assenza di conflittualità, come se la vita degli adolescenti non fosse comunque migliorata dai conflitti e delle contaminazioni.
Attenzione però: sempre 29simi siamo e dunque non è bene enfatizzare troppo una tendenza, così come non è bene sottovalutarla. Se però questo trend positivo passa come non parlare di scuola più povera, ma più forte? E per cancellare questa equazione cosa bisogna fare visto che farla andare male non avvantaggia nessuno? Credo sia necessario rifare da capo i contratti e concentrarsi sugli obiettivi da far raggiungere ai nostri studenti e non sui diritti dei lavoratori. In questo modo si può far fronte a difficoltà economiche, che non sono solo italiane o nate da sbagliate decisioni governative. Il problema del contratto della scuola è reso ancora più complesso dal Decreto Brunetta, una norma confusa e piena di stranezze e ambiguità, che ha però avuto il grosso merito di rendere meno stagnante il mondo della scuola, ora “preoccupato” da performance, dirigenza e procedimenti disciplinari.
La rincorsa è lunga e difficile perché i dati sono spietati e i primi cinque modelli della scuola Ocse non sono raggiungibili né imitabili: Shangai, Corea del Sud, Finlandia, Hong Kong e Singapore. Sono sistemi scolastici tutti privi di personale ausiliario: cioè tutte le risorse vanno nella didattica. E’ una scelta, non un esempio da seguire. Anche per questo ho detto che quegli esempi per noi non possono neppure essere materia di studio. Pensare a una scuola italiana che non debba dedicarsi allo status e ai diritti degli ata è pensare qualcosa di antistorico, in quanto gli ata sono essenziali alle scuole perché i loro mansionari e i loro profili hanno introdotto per via contrattuale necessità che altrove non esistono. Però l’intreccio di risorse necessarie a garantire didattica e pulizie provengono dallo stesso comparto e dunque si sovrappongono creando condizioni atipiche rispetto al resto del mondo e dunque non comparabili.
In questo momento sarebbe interessante un dibattito sui sistemi regionali attuali e non tanto sulle buone pratiche o le esperienze pilota delle scuole, perché in Italia non c’è la cultura dell’importazione delle pratiche nella propria organizzazione, mentre c’è quella dell’idealizzazione delle proprie pratiche. Credo che solo le conoscenze organizzative reciproche potrebbero aprire a contaminazioni interessanti. La rilevazione dell’Ocse è della primavera del 2009, la prossima sarà nella primavera del 2012 e lì si giocheranno le carte decisive del nostro Paese. Un ragionamento sul sistema dell’istruzione italiano e sui meccanismi di regionalizzazione mi sembrerebbe il metodo migliore per comparare i risultati e le organizzazioni. Il contratto nazionale è ciò che nasconde alcune anomalie e lascia a centri di spesa intoccabili il divario tra misure necessarie e misure di semplice garanzie dei diritti dei lavoratori. Ma senza lavoro non ci sono diritti e l’impoverimento della scuola italiana getta luci sinistre sul futuro. L’Ocse ci sta dando delle speranze, ma non sembra che in gito ci ciano molti che sanno come farle diventare realtà.