20.12.2008
C’era una volta la
compresenza e non solo…
di Riccarda Viglino
Quando nacque la compresenza fu perché tutti noi che avevamo contribuito in
diversi modi alla nascita del Tempo Pieno a scuola, l’avevamo fortemente
voluta. Il Tempo Pieno era infatti stato chiesto a più voci (insegnanti,
famiglie, soggetti sociali), per garantire le stesse condizioni a tutti per
apprendere, per offrire un’opportunità anche a quegli alunni che non erano
“Pierino del dottore“ e manifestavano una certa difficoltà a seguire i
programmi della scuola tradizionale che proprio per i Pierini erano stati
pensati. Si trattava in generale di “quelli del doposcuola” che avevano
avuto fino ad allora soltanto questa sorta di “ghetto” scolastico come
risposta istituzionale ai loro bisogni formativi.
La sfida diventava invece con il tempo pieno, quella di costruire un modello nuovo di scuola che offrisse a tutti più tempo per imparare, essendoci accorti tra l’altro che il tempo dell’insegnamento non corrispondeva a quello dell’apprendimento, ma si trattava di un tempo più dilatato e disteso, personale.
In quest’ottica avere per alcuni
momenti due insegnanti compresenti all’interno dell’orario di classe apriva
quindi un ventaglio di possibilità per personalizzare davvero
l’apprendimento attraverso la creazione dei laboratori, le attività di
classi aperte i lavori di gruppo e gli interventi individualizzati e di
sostegno. Le classi aperte in particolare offrivano la risorsa di quattro (o
più) insegnanti con specifiche attitudini e competenze diverse da utilizzare
per l’apprendimento e la crescita di tutti. Ben prima che si scoprisse la
"pédagogie differenciée" si interveniva quindi in modo flessibile sul tempo
scuola commisurandolo ai bisogni di ciascuno attraverso pratiche didattiche
diverse che prevedevano momenti di differenziazione simultanea e successiva
delle attività didattiche.
Certo tutto ciò prevedeva un’organizzazione didattica precisa e puntuale che
interessava anche la scelta di spazi, materiali e strutture, il
coinvolgimento di soggetti esterni come biblioteche, associazioni culturali
e musei, ed in certe realtà nacque la figura del coordinatote del Tempo
Pieno che aveva la funzione di sostenere la complessità di questo processo
di programmazione didattica ed organizzativa che rappresentava un’altra
novità sfidante. Per fortuna eravamo giovani ed abituati ad immaginare il
nuovo. Molti di noi avevano insegnato e si erano formati nei doposcuola e
davvero questo contenitore orario si riempì di idee e pratiche didattiche
che sperimentavamo e verificavamo insieme ben prima che le ore di
programmazione diventassero un obbligo di servizio.
Poi man mano che il tempo pieno diventava modello prevalente di scuola,
almeno in molte aree del "triangolo industriale", perdeva via via la sua
carica innovativa di laboratorio didattico per trasformarsi qualche volta
ahimè in un “tempo lungo” di scuola abbastanza tradizionale che delle
origini conservava soltanto l’apparato orario. E le ore di compresenza
servono, come spesso accade, per sostituire i colleghi assenti, coprire i
buchi orario o essere distribuite “ a pioggia” su tutte le classi in un’
ottica bipartisan di dubbia equità.
E’ proprio questo apparato di “orario garantito” che spesso oggi sento
reclamare a gran voce per assicurarsi in qualche modo che “qualcuno si
occupi dei bambini” e gli adulti siano liberi di far altro ( lavorare?
produrre? ma non ci stanno dicendo che c’è “la crisi “ occupazionale? )
La difesa della compresenza mi sembra un tentativo onorevole di riagganciare al presente in qualche modo, quell’idea originaria di scuola, ma davvero da sola non basta; occorre riaffermare con forza che a scuola si fa cultura, ricerca pedagogico didattica, si innova e si crea e per fare questo ci vogliono risorse economiche ed umane di qualità che vanno richieste da tutti a gran voce, con uguale determinazione. E rifondare i presupposti didattici, organizzativi e strutturali del Tempo Pieno coinvolgendo tutte le risorse ed i soggetti con i quali l’autonomia scolastica consente di interagire, sostenendo con chiarezza che un paese che non ha cura della propria scuola non ha cura del suo futuro. Le scuole non sono depositi di bambini (il triste depobimbi di Momo) e non bastano certo quattro ore di servizio in più degli insegnanti per garantirne la qualità.