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Direzione didattica di
Pavone Canavese |
19.03.2011
DSA e
autonomia
di Stefano Stefanel
Il rapporto tra
Disturbi specifici dell’apprendimento e autonomia scolastica è
una delle più chiare emergenze della scuola italiana, perché tocca il
rapporto tra competenza didattico-educativa e diagnosi medico-specialistica.
Col termine “emergenza” indico due cose diverse:
-
l’emergenza
(o emersione) della consapevolezza che i Disturbi specifici
dell’apprendimento (DSA) sono una caratteristica di molti alunni;
-
l’emergenza
nella gestione dei DSA a fronte dei comportamento dei docenti spesso di
semplice matrice negazionista (“la dislessia non c’entra nulla col suo
disimpegno”, “è distratto”, “non fa i compiti”, ecc.).
In
questo settore i Dirigenti scolastici sono quelli che stanno forzando il
“muro di gomma” dell’incomprensione, per affrontare in modo adeguato queste
due emergenze, ma i vari ordini di scuola “resistono” davanti a due
“evidenze” difficili da negare:
-
i DSA
ci sono e sono rilevabili anche se non sono certificati;
-
la
certificazione indica una direzione all’autonomia didattica, non impone
comportamenti o valutazioni.
La
questione cioè rientra nel cattivo rapporto tra docenti e autonomia
scolastica, ritenuta invasiva in alcuni campi e troppo poco impositiva in
altri. Così molti docenti attendono “ordini” e “obblighi” per la gestione
dei DSA, riducendo così un problema didattico in una ennesima questione
burocratica.
Credo
sia importante, in primo luogo, collocare la dislessia dentro i DSA non come
disturbo primario, ma come disturbo più facilmente individuabile. Questa
distinzione è di valore primario in quanto un disturbo facilmente
individuabile ne nasconde spesso altro di più difficile lettura. Ma
disgiungere la dislessia dagli altri disturbi (disgrafia, discalculia,
disattentività, iperattività, ecc.) significa chiudere il proprio orizzonte
davanti al primo ostacolo visibile. Inoltre va anche osservato che mentre la
dislessia è un disturbo abbastanza accettato in quanto tale, disgrafia,
discalculia e disturbi attentivi vengono spesso derubricati a disordine o
disattenzione. Credo quindi sia necessario collocare il ragionamento sulla
dislessia dentro quello più vasto dei DSA, al fine di affrontarli tutti in
modo organico.
Nelle
scuole che dirigo un insegnante è referente per i DSA e gestisce il
monitoraggio su tutti gli alunni certificati. Inoltre tiene i rapporti con i
genitori e con i certificatori. Ho cercato di gestire a livello di sistema
l’emergenza e la novità, perché ritengo che la parcellizzazione non aiuti a
comprendere quanto la recente legge 170 dell’8 ottobre 2010. Il
lavoro è difficile e trova molto ostacoli, ma l’aver dato veste
istituzionale chiara alla gestione dei DSA non facilita coloro che
vorrebbero minimizzare o disconoscere il problema.
La
lentezza però delle fasi formative e l’attaccamento di molti docenti,
soprattutto di scuola secondaria, alla certificazione, non permettono di
elaborare vere strategie d’insieme per entrare nel problema DSA e ricondurlo
alla sua naturale apertura verso strumenti di supporto affinché l’alunno non
abbia a subire conseguenze eccessive da una problematicità facilmente
assorbibile. C’è l’idea che solo se certificato un alunno è toccato dai DSA,
mentre il disturbo esiste anche senza certificazione e prima lo si “prende
in mano” e meglio è.
L’alunno ha bisogno di interventi organici e sistematici, non di un certo
buonismo o di una “comprensione” che conclude nella valutazione tutta
l’attenzione verso i DSA. E soprattutto non ha bisogno che i DSA vengano
affrontati attraverso ordini di servizio, obblighi o adempimenti, come
troppi docenti tendo a chiedere. Questo presuppone una notevole formazione e
la comprensione che la soluzione di problemi didattici ed educativi non è
mai di tipo medico. La corsa alla certificazione dell’handicap delle scuole
italiane non indica un desiderio di integrazione, ma una volontà palese a
spostare sul versante medico i problemi didattici o educativi. Spostare
tutto questo sui DSA porta solo complicazioni e non soluzioni. Se un alunno
ha la certificazione ai sensi della 104/92 per lui si approva un Piano
personalizzato che spesso è lontanissimo dalla didattica di classe. La cosa
grave è che molti docenti definiscono alcuni alunni “non certificati”, ma
poi li trattano da normodotati. Se lo stesso alunno avesse una
certificazione avrebbe una personalizzazione, dato che non ce l’ha deve
seguire un “programma” che l’insegnante stesso sa non essere in grado di
seguire.
La questione dei DSA è una delle questioni che possono cambiare la scuola
italiana se affrontata nel modo giusto. E’ necessario però agire a livello
di sistema e quindi partendo dall’organizzazione scolastica e non solo dalla
sensibilizzazione dei singoli docenti. L’autonomia scolastica trova nella
gestione degli alunni con Disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) uno
dei suoi banchi di prova più inediti ed interessanti. Questo perché scopre
che la sua tendenza burocratica non aiuta nella soluzione dei problemi, a
cominciare da quello delle certificazioni, che nel caso dei Dsa è demandata
a specialisti che non necessariamente operano nelle Asl, nei Distretti o
negli Ambiti sanitari o nelle strutture deputate al supporto dell’handicap.
Questo crea in molti dirigenti e docenti una sorta di “sindrome da
certificato”, che fa focalizzare l’attenzione sul soggetto certificatore e
non sull’alunno certificato. La burocrazia italiana non vuole arrendersi e
comprendere che l’autonomia scolastica è stata pensata ed organizzata per
diminuire consistentemente la burocrazia, concentrando risorse e attenzioni
sui problemi e sulle loro risoluzione e non sulla creazione di
documentazioni formalmente ineccepibili, ma spesso inutili. Davanti ad un
caso di disturbo non si può sottilizzare sul soggetto che lo ha certificato,
arrogandosi la capacità di decidere se il soggetto è competente o meno, ma
bisogna agire professionalmente per dare all’alunno il maggior supporto
possibile.
Gli alunni con DSA richiedono diagnosi sintetiche e corrette fatte
dalla scuola dal punto di vista didattico, anche senza supporto medico. La
separazione tra diagnosi medica e diagnosi didattica permetterà alla scuola
di intervenire anche sui disturbi minimi, in forma tempestiva, e ad attivare
interventi più consistenti anche di tutela valutativa davanti a diagnosi
mediche. Questo è un punto dirimente: se si attende la certificazione anche
davanti ad un distuirbi palese ci si ferma all’involucro burocratico e non
si va nella sostanza didattica. La diagnosi “medica” è di competenza di
coloro che professionalmente sono abilitati a farla, la diagnosi didattica è
di competenza della scuola. Pensiamo poi agli stranieri con famiglie
disagiate o povere e al loro rapporto con certificazioni mediche complesse:
sembra quasi che un albanese o un ghanese non possa venir aiutato dalla
scuola se la sua dislessia non viene certificata, anche la sua famiglia non
sa neppure di cosa si stia parlando (spesso anche per insormontabili
problemi linguistici).
E’
importante che la scuola progetti interventi che garantiscano all’alunno
affetto da DSA di raggiungere comunque gli obiettivi propri della scuola che
frequenta e di consolidare apprendimenti duraturi. La complessità dei DSA
richiede interventi trasversali e sistematici, che difficilmente possono
avere una consistenza disciplinare. La multi e pluridisciplinarietà sono la
base di partenza ovvia per lavorare attorno ad una persona che convive con
difficoltà nate da disturbi non invalidanti. Credo che il metodo migliore
per entrare nella dimensione di un alunno con DSA sia quello di cercare di
portare il suo disturbo a contatto in primo luogo con la vita reale e non
con i programmi scolastici. Per imparare a leggere forse sono meglio testi
impegnativi, ma di cui il soggetto percepisce immediatamente l’importanza e
la portata, piuttosto che testi che prevedono ampi spazi di memorizzazione
ed astrazione. Credo che un dislessico si trovi più a suo agio con la
spiegazione su come si usa un I’Pad o un I’Pod che con una poesia o un testo
narrativo complesso. Così ritengo che l’alunno toccato dalla discalculia
debba essere orientato a calcolare costi e ricavi visibili legati al suo
patrimonio personale, prima di essere messo a contatto con formule difficili
e astrusi calcoli mnemonici. E questo credo sia necessario farlo sia in
presenza di una diagnosi medica, sia in presenza di una diagnosi didattica,
dunque solo documentale, della scuola.
Interessante sarebbe poi verificare se i “registri” attraverso cui
si cerca di insegnare le lingue comunitarie in Italia (ascolto, lettura,
scrittura, comunicazione orale) non siano troppi anche per un alunno non
toccato dai DSA. Io credo che un dislessico o un disgrafico almeno uno dei
quattro registri citati lo possa padroneggiare bene, magari anche solo per
osmosi. D’altronde la selezione delle metodologie sta alla base
dell’autonomia scolastica e come tale dovrebbe essere coniugata nella
redazione dei curricoli d’istituto. Nel caso delle lingue comunitarie si
assiste comunque ad una divaricazione tra lo sviluppo delle certificazioni
linguistiche europee e le valutazioni di conoscenze e abilità italiane, che
non collocano la lingua straniera nel semplice spazio della sua veicolarità.
Nel caso dei DSA l’approccio con le lingue o è di tipo solo veicolare o
diventa un semplice elemento di dispersione.
Credo
sia necessario concentrare il lavoro dei dipartimenti delle scuole
secondarie e delle programmazioni delle scuole primarie sulle scelte
selettive e non sull’assemblamento di saperi. In questo momento i DSA si
stanno frangendo su un’interpretazione spaesata dell’autonomia scolastica:
molte scuole sono come il protagonista del Deserto dei Tartari di
Dino Buzzati, perché attendono ordini che non arrivano mai. Affrontare i DSA
con ordini o diagnosi mediche è una questione priva di senso che l’autonomia
didattica dovrebbe spazzare via, ma se qui ne stiamo parlando vuol dire che
l’obiettivo è lontano da essere raggiunto. La scuola degli adempimenti
avrebbe dovuto da molto tempo cedere il passo alla scuola dell’autonomia (e
della governance), ma l’emergenza DSA mostra tendenze a burocratizzare, a
rendicontare, a descrivere, e poche procedure snelle ed esportabili per
intervenire.
Credo sia necessario agire in termini di “rubrica e
ricerca-azione”, non in termini di diagnosi e prognosi, perché la “scoperta”
dei DSA se vissuta correttamente può diminuire una delle cause della
dispersione. Se mi sarà possibile in un prossimo intervento approfondirò il
rapporto tra rubrica e ricerca-azione, che io vedo particolarmente efficace
nella gestione degli alunni con DSA.