30.10.2006
Istruzione o formazione ?
Una possibile soluzione per l'obbligo a 16 anni
di Maurizio Tiriticco
Quello che segue è il testo dell'intervento che Maurizio Tirittico ha
presentato il 28 ottobre al Convegno nazionale "Finanziaria e Scuola"
promosso dalla Direzione nazionale dei DS
Ha ragione Dario Missaglia quando dice che manca una nostra seria riflessione sull’elevamento dell’obbligo. Penso di essere una rara avis perché sono tra i pochi che hanno scritto più volte sull’argomento, su "Insegnare", "Notizie della Scuola", sul nostro bollettino.
E’ una questione sulla quale ci dobbiamo cimentare e presto per avanzare una proposta chiara su quello che intendiamo per obbligo di istruzione e soprattutto per gli aggettivi che lo connotano: istruttivo e orientativo, unitario e articolato. Con questi intendiamo sottolineare il primato dell’istruzione, che, se è tale, è anche di per sé orientante purché arricchita da opzioni intelligentemente articolate, le quali però non alterino l’unitarietà dei percorsi.
Su questo impianto altre componenti della maggioranza già avanzano proposte precise, così riassumubili: il biennio obbligatorio può assolversi anche nella formazione professionale regionale, laddove esistono consolidati percorsi che a) hanno dato e danno un valido contributo alla lotta contro la dispersione; b) hanno permesso a giovani, che l’istruzione avrebbe emarginato, di inserirsi positivamente nel mercato del lavoro; c) hanno promosso anche e soprattutto conoscenze e non solo competenze. Sono argomentazioni che hanno una loro validità, anche se si può opporre il fatto che la nostra formazione professionale regionale presenta anche situazioni che non danno piena garanzia di affidabilità.
Se andiamo a ragionare nello specifico, dobbiamo renderci conto che, a proposito della differenza che corre tra istruzione e formazione, esistono tuttora luoghi comuni abbastanza diffusi che vengono da lontano ma che non hanno corrispondenza con la realtà formativa ed occupazionale dei Paesi ad alto sviluppo.
Da molte parti si sostiene che il fine dell’istruzione è eminentemente culturale, "gratuito", per cui i titoli rilasciati consentono una utilizzazione lunga e molto mediata nel tempo, mentre il fine della formazione professionale è quello di erogare qualifiche, a volte conseguibili anche in tempi brevi, da spendere immediatamente nel mondo del lavoro. E si sostiene anche che l’istruzione ha come fine primario la persona, mentre la formazione si propone un’altra finalità, quella di preparare soggetti a seconda delle offerte che il mercato del lavoro avanza in situazioni determinate e non altre; il fine primo non è quindi la persona ma l’economia di cui la formazione sarebbe una sorta di volano regolatore.
Si tratta, però, di argomentazioni parziali ed anche datate. In primo luogo va considerato che nei Paesi ad alto sviluppo, in forza delle applicazioni tecnologiche nei processi lavorativi, riesce sempre più difficile trovare competenze che richiedano soltanto una formazione di breve durata e che non impegnino anche e soprattutto attività intellettuali di tutto rilievo. In secondo luogo va detto che è ormai dalla fine degli anni Settanta che nel nostro Paese la formazione professionale ha considerato centrale nei suoi curricoli di studio anche e soprattutto la persona. Basti leggere attentamente quanto si afferma nella legge quadro sulla formazione professionale, la 845 del ’78 e nel cosiddetto pacchetto Treu (legge 196/97).
Si tratta di tappe che non sono state raggiunte solo in Italia, ma in tutti i Paesi della Comunità economica europea e dell’Unione europea. E’ anche utile ricordare che la formazione professionale è sempre stata al centro dell’attenzione degli organismi comunitari fin dagli anni Cinquanta, quando ancora, invece, le politiche dell’istruzione erano prerogativa esclusiva dei singoli Stati membri. E solo con Maastricht – e siamo agli inizi degli anni Novanta – l’istruzione è divenuta oggetto di attenzione della politica europea. Possiamo quindi dire che la formazione professionale nel contesto europeo ha marciato più speditamente nel suo rinnovamento di quanto non avvenga, invece, nell’istruzione.
Va anche sottolineato che la nostra Istruzione professionale di Stato, quando alla fine degli anni Ottanta lanciò il Progetto ’92, fece una scelta di campo di grande coraggio ed originalità: si adottò quella strategia della progettazione modulare nella convinzione che non può esserci un percorso che sia effettivamente formativo se non è sostenuto e rafforzato da forti input di carattere istruttivo. E non è un caso che l’Istruzione professionale di Stato attualmente rilascia titoli spendibili per l’Università e, con il concorso delle Regioni, qualifiche spendibili nel mondo del lavoro. E non è neanche un caso che, quando si mise mano alla riforma degli esami di Stato, quando si passò dalla maturità alle competenze, l’Istruzione professionale statale costituì un importante punto di riferimento.
Tutte questa considerazioni mi conducono a dire che occorre andare alla progettazione di un biennio obbligatorio che consideri come asse centrale un processo di istruzione che, però, non abbia paura di curvarsi anche ad articolazioni che, con grande approssimazione, possiamo chiamare formative, per il forte impatto che possono avere sui giovani e per l’apporto cognitivo che sono in grado di garantire.
Attenzione! Si tratta di una scelta che nulla ha a che vedere con la scelta che altre istanze della maggioranza avanzano, quella cioè di prevedere che l’obbligo possa conseguirsi sia nel canale dell’istruzione che in quello della formazione professionale. Una scelta di questo tipo lascerebbe intatta quella dei due canali a suo tempo effettuata dalla Moratti, ed è proprio il doppio canale quello che non potremmo assolutamente tollerare e che anzi, dobbiamo liquidare. Anche perché non è vero che in altri Paesi d’Europa esisterebbe tale separazione; esistono forme molto diversificate di interventi che sarebbe opportuno studiare con molta attenzione
Bisogna anche rendersi conto che la proposta di un rinnovato doppio canale non nasce solo dalla convinzione che altri hanno sulla bontà di certi percorsi di formazione anche a fini istruttivi, ma anche dal fatto che la formazione professionale regionale, con l’avvio dell’obbligo di istruzione, viene a perdere ben due anni di formazione, con pesanti ricadute per la sua stessa struttura istituzionale, per i Cfp e per l’occupazione del personale. E sono eventualità che non bisogna affatto sottovalutare. Si deve tener conto che l’innalzamento dell’obbligo comporta anche che l’accesso all’apprendistato e all’alternanza scuola-lavoro si effettui solo al compimento dei 16 anni di età. Si tratta, insomma, di tutta una serie di ripercussioni che debbono essere valutate con intelligenza al fine di mettere in atto attuare tutti i correttivi e le compensazioni del caso.
La formazione professionale regionale potrebbe comunque offrire contributi importanti alle scelte progettuali modulari dei nuovi bienni, purché siano garantite alcune condizioni: a) la titolarità dei percorsi è dell’istruzione, che si avvarrà di tutte le valenze formative ed educative presenti sul territorio, con una serie di iniziative e di accordi a livello di reti di scuole, di Cfp – o meglio di Istituzioni formative autonome – di poli formativi o campus od istituzioni comprensive orizzontali, eventualmente anche in sede di accordi tra Usr e Regioni ed altre istituzioni, enti e agenzie del territorio; b) la definizione da parte del Ministero PI di standard terminali relativi alle competenze che i giovani sono tenuti a conseguire; standard che la formazione professionale regionale sarà tenuta, ovviamente, a condividere per poter dare apporti mirati e concordati in chiave di curricoli integrati.
Si tratta di avviare una operazione ovviamente non facile né sotto il profilo metodologico né sotto quello delle politiche educative in generale. Comunque, nell’ottica della riconfigurazione dell’intero Sistema educativo nazionale di Istruzione e Formazione, alla Formazione professionale regionale dovrebbe essere garantita la gestione di tutti quegli spazi che il novellato Titolo V le ha assegnato e che vanno ben oltre la fascia dei due anni di studio dei giovani sui quali questa non avrà più competenza diretta. Del resto, la stessa legge 53/03 dava una lettura molto parziale di un dispositivo costituzionale che, nella individuazione di due aree di competenza legislativa, non indicava affatto quale dovesse essere l’età dell’accesso all’istruzione e formazione professionale. Insomma, l’istituzione dei nuovi bienni non deve essere né vista né gestita come una sorta di violenza a danno di un settore formativo la cui peculiarità nessuno disconosce e che, invece, deve essere valorizzata per realizzare finalità assolutamente originali per la stessa formazione professionale regionale e per i nostri giovani!
Roma, 28 ottobre 2006
Maurizio Tiriticco
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