16.11.2008
Pensare oltre
Da dove arrivano i mali
della scuola ?
di Antonio Valentino
Sulla straordinaria protesta di studenti e insegnanti di queste settimane, andrebbero evitati fraintendimenti e ambiguità per impostare riflessioni e cercare sbocchi. E dette con chiarezza alcune cose. E in primo luogo
Solo dentro questo quadro di considerazioni, a mio avviso, il movimento di protesta contro le misure della finanziaria di agosto e dei provvedimenti “urgenti” della Gelmini può acquistare senso e darsi una prospettiva; a partire da alcune consapevolezze ulteriori che riguardano il merito e il metodo, come si dice, delle politiche scandalose di questo governo sulla scuola.
La prima consapevolezza è che chiamare riforma un insieme di provvedimenti che si giustificano essenzialmente in ragioni di tagli alle risorse per l’istruzione e far passare l’idea che i mali della scuola nascano dal bullismo di alcuni studenti o dal disimpegno di qualche insegnante o dal permissivismo “comunista” che insidia le scelte educative delle nostre scuole, significa avere della politica una visione non solo miope ma anche stupida. Non solo incapace di darsi un futuro, ma anche di affrontare con una qualche intelligenza le difficoltà del presente.
La seconda consapevolezza è che le misure già approvate per la scuola (dal maestro unico al ritorno al voto nella scuola del primo ciclo, al voto di condotta, visto come panacea dei mali della scuola, ad alcuni tagli indiscriminati del personale) e la maggior parte di quelle previste per l’università sono di ostacolo ad ogni serio discorso di rinnovamento. Non solo. Ma peggiorano il già precario quadro della situazione attuale. Perciò la mobilitazione è opportuno continui, per poter incidere, per quanto possibile, sui Regolamenti previsti per i singoli aspetti dei “Provvedimenti Gelmini” e sui Decreti attuativi della L. 133 del 6 agosto scorso.
La terza consapevolezza è che non c’è riforma che possa avere fortuna senza il coinvolgimento di chi nella scuola lavora e vive e che, quindi, su questioni delicate che riguardano il futuro delle nuove generazioni e della nostra democrazia il ricorso ai decreti legge e ai voti di fiducia non è tollerabile.
Dicevo prima: “chi è senza peccato….”.
Certamente il guaio della
nostra democrazia è che abbiamo una classe politica dagli orizzonti angusti.
L’unico governo che ho visto impegnato seriamente per elaborare e dare
gambe ad un’idea di scuola che risvegliasse speranze e mobilitasse energie
è stato il primo governo Prodi (ministro Berlinguer): in quegli anni, la
ricerca, il dibattito, i provvedimenti legislativi ci hanno fatto conoscere
un clima di innovazione e coinvolgimento che, né prima né dopo, la scuola
italiana ha vissuto con uguale intensità. Ma già in quella stessa
legislatura, tutta a maggioranza centro sinistra, l’impegno andò
progressivamente scemando e la scuola ritornò ad essere la cenerentola di
sempre.
Il quinquennio della Moratti ci ha portato solo pesantezza,
confusione e lacerazioni.
Con Fioroni si sono sì bloccate soprattutto
alcune misure sbagliate, come la licealizzazione dell’istruzione tecnica, e
si è posto fine alla sciagura dei debiti formativi.
Ma le sue idee sui mali
della scuola (le sue fissazioni: i dirigenti scolastici da fustigare, i
bulli da eliminare, l’autonomia scolastica come fastidio) e lo stile da
gladiatore non ci hanno fatto fare nessun passo in avanti. Anzi è cresciuta
la sensazione che la scuola fosse un terreno da evocare molto e su cui
investire poco: quel tanto che basta per non perdere la faccia.
Del sindacato la cosa che si può dire senza troppe smentite è che non ha certo acquisito meriti in questi anni. La percezione diffusa è che sia mancato il coraggio e un’idea di scuola in cui giocare un nuovo ruolo. Va detto a sua parziale discolpa che, soprattutto a partire dai primi anni di questo decennio (con la stagione Moratti), ha dovuto molto giocare in difesa e che la sua funzione di resistenza ha impedito scivolamenti pericolosi alla nostra scuola. Oggi come oggi, comunque, il suo appeal appare parecchio compromesso ed è sempre meno considerato - basta girare per le scuole per rendersene conto - un soggetto cui affidare speranze di rinnovamento. E questo è certamente un dato che non aiuta a pensare positivo per il futuro.
Penso che qualcosa dovremmo dirci anche sulle categorie che operano nella scuola e soprattutto su docenti e dirigenti.
Se le cose non funzionano come dovrebbero, sarà colpa della politica, sarà anche colpa del sindacato, ma il mondo della scuola non ha domande da farsi? Se la qualità degli apprendimenti è così modesta, se nelle superiori si boccia ancora in modo massiccio senza interrogarsi se ci sono responsabilità a nostro carico, se la motivazione dei nostri studenti è oggi un problema gravissimo - forse “il” problema con cui fare i conti –, se le competenze professionali (il metodo, le strategie, le conoscenze funzionali) e la qualità relazionale sono merce non adeguatamente diffusa, se la formazione, la ricerca, la sperimentazione sono vissute come cose estranee e lusso inutile, se “l’esserci” e il “pensarsi” a scuola sono in molti casi ancora quelli di chi si vive come lavoratore a mezzo servizio, se il problema del disadattamento e le difficoltà di apprendimento e di relazione le risolviamo con la bocciatura, se la cura delle intelligenze più capaci e la loro valorizzazione continuiamo a considerarle una questione che non ci riguarda professionalmente; se ci sono ancora tutte queste cose e la scuola non si rinnova, anzi perde colpi e non è l’istituzione a cui la gente guardi con fiducia, possiamo chiamarci del tutto fuori?
Se queste considerazione
hanno senso, allora la lettura più appropriata della protesta soprattutto
studentesca di queste settimane deve evitare scorciatoie o percorsi comodi,
ma improbabili.
Gli studenti stanno
ponendo un problema. Apparentemente, alla Gelmini; sostanzialmente, alla
politica, alla classe politica. Ma forse, inconsciamente in primo luogo a
noi, docenti e dirigenti, che siamo il loro “prossimo”, l’interfaccia con
le altre istituzioni e con gli altri mondi.
Penso - amo pensare - che
mobilitandosi vogliano dirci che la scuola che frequentano non è la scuola
che vorrebbero. Ce lo dicono in verità ogni giorno attraverso i loro
comportamenti diffusamente apatici, demotivati e spesso spavaldi e incapaci
di autocontrollo. Eppure la nostra scuola tende ad ignorare che la loro
motivazione passa molto, anche se non esclusivamente, attraverso l’adulto
competente e appassionato di quello che fa, che vedono nelle loro classi e
nei laboratori o nei corridoi delle scuole.
A confermarcelo, se ce ne
fosse bisogno, è ancora Gustavo Charmet parlando, in una intervista a “la
Repubblica” (11-11-08) della sua ultima ricerca sull’universo giovanile (Fragile
e spavaldo. Ritratto dell’adolescente oggi, Laterza). Soprattutto là
dove afferma che “L’adulto competente per loro [gli adolescenti] è chiunque
coltivi ed esprima una forte passione per ‘qualcosa’. Anche un docente un
po’ svitato ma appassionato della sua materia diventa un punto di
riferimento, una risorsa. Gli altri adulti sono irrilevanti, non gli si
contrappongono, solo non li considerano”. Ecco un qualcosa che può
costituire risposta alla domanda del mondo studentesco che si coglie nella
attuale forte e civile mobilitazione: diventare “rilevanti” per i nostri
studenti, in quanto impegnati a “costruire una quotidianità fondata sulla
passione per la conoscenza, sulla relazione, sulla partecipazione attiva”
(sempre Charmet).
Pensare che la protesta
di questi giorni riguarda anche noi, ci obbliga - dovrebbe obbligarci - a
fare meglio la nostra parte. Che potremmo riscoprire nelle nostre classi,
nei nostri collegi, nei gruppi di materia, nei consigli di classe, nelle
assemblee studentesche. Contro la Gelmini e il Governo per le scelte
insensate che hanno dato origine alle mobilitazioni, ma anche – e insieme -
contro il conservatorismo, il tran tran, che si annida nelle nostre scuole.
Per fare meglio la nostra
parte, una consapevolezza dovremmo però avere ben ferma: quella che da soli,
per quanto consapevoli e ben intenzionati, non si va da nessuna parte. Si
tratta di capire allora se le tante singole realtà (o più realisticamente, i
gruppi più sensibili e attivi al loro interno) del mondo scolastico si
possano alleare tra loro (valorizzando le associazioni delle scuole
autonome, le associazioni professionali), e cercare sponde e interlocutori
nelle amministrazioni territoriali e regionali, su internet e riviste
on line che si interessano di scuola, nelle organizzazioni sindacali
soprattutto confederali, nella politica affidabile.
Le domande con le quali
misurarci, in questa fase, diventano allora: “Come recuperare protagonismo e
credibilità in quanto mondo della scuola”. E subito dopo “Su quali soggetti,
risorse, processi puntare, capaci di pilotare e orientare il cambiamento
e l’innovazione verso traguardi condivisi. Con quali strumenti, azioni,
strategie (‘leve’) che si considerino prioritarie dare gambe a progetti di
cambiamento”.
Interrogativi difficili.
Piero Romei ci esortava non molti anni fa a gettare il cuore oltre
l’ostacolo. Forse è questo il tempo giusto. E il Ministro Gelmini è un
ostacolo. Occorre pensare oltre. Investendo in primo luogo su di noi. Che è
forse un modo non secondario per condizionarla. Forse è soprattutto questo
che ci dicono i nostri studenti con le mobilitazioni in atto.