10.02.2012
Che non sia
un tempo sospeso
di Antonio Valentino
Sembra quasi di cogliere in giro, nei vari settori della
vita pubblica che non siano quelli dell’economia e della finanza, una
situazione psicologica di attesa di tempi migliori e di quasi immobilismo.
Barbara Spinelli, utilizzava, qualche giorno fa, in un articolo per “la
Repubblica”, la metafora del giunco “che astutamente si piega, in attesa di
rialzarsi tale e quale appena passata la piena”; a rappresentare la
percezione che “ci stiamo abituando a tenere la testa in naftalina”.
Tale è lo stato di emergenza nel quale si vive, a motivo del drammatico
acuirsi della crisi economica, associata all’asfissia del sistema politico
complessivo che ha originato il governo Monti. Condizione psicologica che
tende a farci dimenticare che in sistemi complessi, come quelli in cui ci è
dato vivere, tutto si tiene. E che il rigore non può sganciarsi dallo
sviluppo, e che lo sviluppo non si dà senza misure di sostenibilità e di
equità; e che la sostenibilità e l’equità sono parole vuote senza nuove
competenze di cittadinanza attiva e quindi senza istruzione e formazione.
Non possiamo stare ancora per 18 mesi – se questo governa
dura fino a fine legislatura – in situazione di apnea.
E’ un lusso che non possiamo concederci, anche perché abbiamo alle spalle
una stagione che ha ulteriormente allargato la demotivazione del mondo della
scuola e quindi il suo stato di disorientamento e abbandono, pur in presenza
di qualche elemento ordinamentale di segno innovatore, introdotto
recentemente, che però non è riuscito a decollare. Soprattutto per incuria,
incompetenza e incultura della cosa pubblica dei precedenti governi.
Mi hanno colpito, della lettera del 9 novembre scorso, che i vertici dell’UE
hanno indirizzato al governo italiano (ancora “titanicamente” nelle mani di
Berlusconi) sulle misure urgenti per la nostra economia, alcuni passaggi
in cui si tendeva a mettere il dito sugli impegni mancati e la insipienza
gestionale della cosa pubblica, che chiaramente costituivano atti di accusa
verso una cultura politica – quella del nostro paese - arruffona e
inaffidabile.
Questo si evince non tanto dai 39 punti di quella famosa lettera, quanto
piuttosto dalla premessa metodologica (General question) nella quale
si invita il nostro governo a indicare “per ciascuna misura o impegno (… )
il grado di implementazione, nel caso l’impegno sia già stato posto in
opera”; e, nel caso di un impegno nuovo, “a fornire un concreto piano
operativo per la sua adozione e implementazione; compreso lo scadenzario e
il tipo di strumenti giuridici che il governo intende utilizzare…”.
Come dire: meno annunci, meno impegni a parole e più attenzione alla
traduzione operativa delle misure e alla realizzazione delle decisioni
assunte. In altri termini, più competenza e responsabilità.
D’altra parte, se solo guardiamo al mondo della scuola, non possiamo
costatare che il giudizio implicito che se ne può ricavare è proprio questo;
basti considerare la fine che hanno fatto le misure di accompagnamento alla
legge per l’innalzamento dell’obbligo di istruzione o al riordino del
secondo ciclo; per limitarmi a disposizioni normative che hanno più
interessato gli istituti…che se ne sono accorti.
Perciò l’attuale stagione non può tollerare tempi sospesi - nell’attesa che
la crisi economico-finanziaria si risolva - per cominciare a pensare al suo
rinnovamento. E’ un ragionamento che non tiene da nessun punto di vista.
Il nuovo ministro sembra avvertito di ciò, come del fatto che non di altre
norme c’è bisogno, quanto piuttosto di lavorare il più possibile sulle
condizioni materiali del fare scuola. E, al riguardo, il pensiero va in
primo luogo alla stabilizzazione del corpo docente e alla sua
qualificazione, agli interventi sulle strutture edilizie e agli investimenti
sulle tecnologie per l’innovazione didattica, al superamento delle ambiguità
e nebulosità normative (leggi: certificazione delle competenze per l’anno
terminale del primo ciclo e del primo biennio del secondo; cultura delle
competenze chiave nella didattica e nella valutazione, con riferimento
specifico alla gestione delle Linee guida degli Istitui riordinati), ad una
diversa idea di ‘governance’, legata alla rendicontazione sociale, che ci
faccia uscire finalmente dall’asfissia dell’autoreferenzialità.
Quest’ultima mi appare sempre di più una urgenza di
prim’ordine per dare senso all’autonomia, responsabilizzare le scuole e
attivare al loro interno leve importanti e riconosciute per darsi
consistenza e smalto.
In relazione a questa tematica, è lecito sollecitare sia un bilancio
dell’uso del Fondo di Istituto e delle risorse per le Funzioni strumentali
che un loro ripensamento complessivo? E ciò nell’ottica di una “leadership
diffusa” e di un “middle management “ - riconosciuti e adeguamente
compensati - ? Questa prospettiva, infatti, appare sempre più attuale, non
solo a fronte dei nuovi parametri del dimensionamento e della domanda
crescente di rendicontazione sociale; ma anche alla luce di percezioni
diffuse che questi strumenti, che abbiamo voluto e “agito” come leve, non
sempre hanno funzionato - e funzionano - per come li abbiamo pensati.
Ovviamente, l’obiettivo – sia detto per prevenire
equivoci - è quello di una riqualificazione mirata della spesa pubblica e
di un suo prevedibile incremento, dentro una diversa idea di crescita e
sviluppo sociale ed economico del paese.
La questione però oggi centrale e urgente è: come rimettere in moto la
macchina di una motivazione generalizzata almeno degli attori principali.
Ritengo perciò che quello di cui abbiamo soprattutto bisogno è di sentire
che il Ministero è dalla nostra parte, che si preoccupa della scuola
pubblica, che alle cose che dice ci crede e le fa e le cura, che dietro alle
cose che decide c’è competenza e coinvolgimento.
Al nuovo Ministro non va ovviamente chiesta la luna; solo di fare quello che
dice; e di fare quello che dice dimostrando attenzione e ascolto attivo al
mondo della scuola. Che ha bisogno di fiducia e di parole chiare sulle sue
direzioni di marcia e sul suo sviluppo. Poche priorità, ma, su quelle, che i
messaggi siano precisi e inequivoci e le condizioni di fattibilità
altrettanto.
Nelle considerazioni precedenti ho voluto dare voce ad alcune priorità (a
cui forse andrebbe aggiunto un intervento chiarificatore sull’identità da
dare alla secondaria di primo ciclo e forse anche sulla natura
dell’istruzione professionale, dentro la più generale istruzione tecnica)
che, seppure in termini diversi, si leggono da più parti.
Quello che si vorrebbe tornare ad avvertire è che la scuola sia vissuta nel
paese come “cosa pubblica”, un bene per tutti e una “risorsa” (passatemi il
termine abusato) per la collettività, a tutti i livelli.
Ma anche che i vari attori in essa coinvolti (dai docenti agli enti locali,
alle direzioni scolastiche territoriali) sviluppino maggiore consapevolezza
che, nella partita del rinnovamento, ognuno deve fare la sua parte, evitando
di piangersi addosso, come spesso ci accade (non parlo ovviamente dei
precari), e mettere a fuoco le specifiche responsabilità di ciascuno.
Certamente sindacato e associazionismo, enti locali e reti di scuola sono
gli attori più importanti in questo processo. Penso che anche i Dirigenti
Scolastici (DS), attraverso le loro organizzazioni di riferimento, sono
chiamati ad un ruolo propositivo e attivo di primo piano dentro le scuole e
nei territori.
Sappiamo però che, nell’attuale situazione di reggenze diffuse - e
conseguenti difficoltà di gestione e disorientamento - un tale ruolo appare
piuttosto difficile. Si spera, al riguardo, che il concorso in atto per
futuri DS si concluda in tempi tali da permettere la copertura di tutte le
dirigenze vacanti, a partire dal prossimo anno scolastico.E che, nel
frattempo, i problemi sul dimensionamento - da assumere come un tutt’uno con
le questioni dell’autogoverno delle scuole e della “governance” territoriale
–abbiano trovato risposte non dettate da logiche ragionieristiche di corto
respiro.