Direzione didattica di Pavone Canavese

NUOVO CORSO: materiali e documenti della politica scolastica del dopo-Moratti


01.08.2007

Tra utopismo e pessimismo
di Maurizio Tiriticco

 

    Rimbocchiamoci le maniche!

     Alla vigilia dell’impresa che il nostro Sistema educativo e l’intero Paese si accingono ad affrontare di qui ad un mese, confesso che avrei preferito da due autori e maestri quali Berlinguer e Vertecchi molto ma molto di più nei loro ultimi scritti su “insegnare”, “il Manifesto”, “l’Unità”. Si tratta di un’impresa che dire titanica non è affatto esagerato! Non appena saranno perfezionati gli atti formali, nell’intero primo ciclo si partirà con le indicazioni nazionali postmorattiane, le Indicazioni per il curricolo, ed in tutti i bienni del secondo ciclo si partirà con l’innalzamento dell’obbligo di istruzione dagli otto ai dieci anni di età.

A molti di noi già stanno tremando le vene e i polsi per l’enorme sforzo che dirigenti ed insegnanti saranno chiamati a compiere – e non solo loro ovviamente, perché ad essere direttamente coinvolti nell’operazione sono gli studenti e le loro famiglie. E subito dopo la calura agostana!

Questo dovrebbe essere, dunque, il tempo di una trepida vigilia, dei suggerimenti, dei consigli, degli incoraggiamenti, se non degli aiuti concreti in termini di indicazioni di lavoro, di metodologie, tanto più necessarie quanto più silenzioso e lontano sembra essere il Ministero PI! E, se su questo scottante terreno gli esperti non intervengono con tutta l’autorità, appunto, della loro esperienza politica, educativa, pedagogica, a chi si rivolgeranno coloro che in prima linea dovranno dare l’avvio a questa impegnativa innovazione?

E’ anche vero che non siamo più ai tempi dei Programmi ministeriali e che il Ministero non deve assolutamente intervenire in tutto e su tutto, perché la gestione dei curricoli spetta alle istituzioni scolastiche, che sono chiamate a realizzarli nella loro piena autonomia, purché a monte siano chiare le finalità le risorse, gli ambiti, i vincoli.. Ed in questo “a monte” dovrebbero esserci almeno due fattori forti: l’autorevolezza degli esperti, la chiarezza della politica e della Amministrazione

Due precarie che colgono nel segno

 Anna Riccardi e Mariachiara Grauso, che si definiscono insegnanti precarie, su Aprile OnLine dello scorso 28 luglio in un articolo dall’eloquente titolo Luigi Berlinguer e la scuola che non c'è, dicono tra l’altro: “Ci sentiamo amareggiate di fronte alle parole dell'ex ministro Berlinguer, perché ancora una volta si cerca di delineare e sviluppare un'idea di scuola che non esiste, che è presente soltanto nei suoi pensieri, tralasciando di investire e pensare alla scuola che c'è, a come questa può funzionare per il benessere della società. Come già osservato dalla Sasso è completamente assente dalla riflessione politica il corpo vivo dell'istituzione scolastica, mancano gli insegnanti (e magari le loro legittime aspirazioni ad uno stipendio dignitoso, per dirla con Citati), mancano gli studenti e la loro inaspettata ed emergente inabilità ad esprimersi in assenza di un telefonino o di una telecamera che li riprenda. Manca soprattutto una seria analisi della marginalizzazione e della condizione di minorità che la scuola di oggi sta assumendo nella nostra società”.

Da parte sua, Alba Sasso, sullo stesso numero di Aprile Online, riferendo sui lavori del primo incontro del Cantiere della conoscenza, promosso da Rifondazione comunista, Sinistra democratica, Verdi, Pdci e presentato ufficialmente al Senato, intitola il suo pezzo La conoscenza, cuore della democrazia. Vi si afferma tra l’altro che occorre dar vita ad “un percorso che muova dalla convinzione che sapere, ricerca, innovazione siano questioni centrali per consentire la crescita del Paese, del suo sistema produttivo, della sua economia e anche della sua fisionomia democratica… Pensiamo che la conoscenza appartenga a quell'insieme di beni comuni che non possono essere alienati dal mercato, diritti universali e beni fondamentali ai quali ogni persona deve poter accedere”.

Si tratta di scritti diversi e di diversa origine, da cui emergono almeno due curvature rispetto alle acute analisi di Berlinguer: a) una nei confronti degli insegnanti, delle responsabilità e delle competenze nuove che dovranno assumere in vista delle innovazioni profonde che vengono loro richieste; b) l’altra nei confronti di un approfondimento serio sul quantum e sul quale dei saperi che oggi sono oltremodo necessari per affrontare le sfide della società della conoscenza. Del resto, su questo secondo punto lavorò quella Commissione dei saggi nominata dallo stesso Berlinguer, i cui risultati in effetti non sono mai stati oggetto di ulteriori approfondimenti né hanno provocato cambiamenti sui contenuti delle discipline di studio e sugli obiettivi di apprendimento. Per non dire poi che la meteora del centrodestra ha voluto coscientemente gettarli a mare in nome dell’idea della scuola del punto e a capo!

La prima educazione

A proposito di questo secondo punto, Benedetto Vertecchi in La seconda educazione sull’ultimo numero di “insegnare” sviluppa un ragionamento molto interessante ed anche nuovo per certi aspetti. Vertecchi constata che al considerevole aumento dei titoli di studio verificatosi negli ultimi decenni non corrisponde affatto un incremento delle effettive conoscenze della nostra popolazione. A ciò corrisponderebbe un progressivo scadimento dell’offerta di istruzione. Il fatto è che oggi “all’educazione scolastica si applica la medesima strategia che ha mostrato di essere funzionale per le azioni di condizionamento effettuate attraverso i mezzi di comunicazione di massa… I solecismi e le banalità di cui sono infarciti i messaggi della comunicazione di massa finiscono col caratterizzare l’ambiente culturale disponibile per strati maggioritari della popolazione, deprimendone gli atteggiamenti interpretativi e critici… La fascinazione tecnologica concorre ad accreditare messaggi poveri di contenuto e spesso prevalentemente rivolti a indurre atteggiamenti acquiescenti e conformisti”. Ne consegue che “tra la comunicazione sociale e l’educazione scolastica tesa alla semplificazione si stabilisce una solidarietà di intenti e di soluzioni che è tra le ragioni delle difficoltà che la scuola incontra nello svolgere il suo compito”.

Quindi vi è una difficoltà oggettiva in cui si trova l’intero sistema di istruzione. Una volta l’educazione svolgeva un ruolo effettivo di contrasto rispetto all’analfabetismo prima, e alla diffusa carenza di cultura, poi. Ed era il ruolo nobile di quella che Vertecchi definisce la prima educazione. Questa perseguiva finalità precise, svolgeva un ruolo meritevole che la società – il sociale – di fatto assecondava e incoraggiava. Tutta la popolazione sapeva che il figlio istruito sarebbe stato socialmente premiato: una consapevolezza che dagli stessi anni del fascismo fino ai primi decenni del dopoguerra era diffusa e consolidata. Erano ormai più che lontani i tempi in cui, con l’istituzione delle prime scuole elementari obbligatorie i nostri contadini – la maggioranza del Paese – vedevano nella scuola un attentato al bracciantato dei loro figli! E’ il lungo periodo che Vertecchi chiama della prima educazione.

Ma poi che cosa è accaduto? Perché la scuola è venuta man mano perdendo il suo ruolo originario? Essa si è trovata a dover rispondere ad una domanda sociale di istruzione sempre più diffusa. Avrebbe dovuto modificare percorsi, metodologie e parimenti rafforzare le sue finalità di socializzazione alla cultura ed a valori alti. A mio giudizio, le sollecitazioni in tal senso non sono mancate da parte della ricerca educativa. Lo stesso Vertecchi negli anni Settanta fu un convincente sostenitore sia della programmazione didattica che della valutazione formativa, concetti e termini per certi versi nuovi allora per la nostra tradizione scolastica. Tra i ricercatori vi era una diffusa consapevolezza che, se non si fossero cambiate le strategie complessive dell’insegnare-apprendere, la denuncia di Don Milani del ’67 sarebbe rimasta lettera morta.

Erano, appunto, gli anni Settanta quelli che avrebbero dovuto segnare la svolta. Ma non fu così, visto col senno del poi. Le innovazioni indicate dalla ricerca educativa potevano entrare nelle scuola di allora – almeno nella scuola dell’obbligo – solo a condizione di un riordino complessivo degli Ordinamenti, degli assetti disciplinari, dei quadri orario e così via. Ma così non fu. Il concetto di programmazione non può che ricondursi a consistenti spazi di autonomia e fa a pugni con la realtà dei Programmi ministeriali, per loro natura prescrittivi! Ne conseguì che tutta la scuola dell’obbligo fu chiamata a programmare sì, ma all’interno dei vincoli che erano dati da un ordinamento pensato ed imposto dall’alto!

E non era cosa da poco per gli insegnanti progettare attività curricolari secondo le indicazioni della Programmazione, ma rispettose nel contempo dei vincoli dei Programmi. In molti casi l’innovazione ebbe successo, anche se con tutte le fatiche che certe operazioni di mediazione impongono. Ma in moltissimi altri casi la programmazione si risolse in un adempimento burocratico e assai poco innovativo.

Così la scuola era chiamata ad innovare, ma non le si offrivano tutti gli strumenti del caso. Di qui, a mio giudizio, si manifestò già un primo arretramento culturale ed educativo. I messaggi inviati dall’amministrazione erano di fatto ambigui e contraddittori.

Una seconda causa di ripiegamento che potremmo chiamare “forzato” è costituito dalle “sirene” delle tecnologie educative (o dell’educazione o didattiche, o delle TIc: in questa sede non ha molta importanza discettare su differenziazioni teoriche). Qui il discorso divenne più scivoloso. Erano gli anni in cui i nuovi media della comunicazione e dell’informazione si facevano sempre più forti, consistenti, invasivi. Ed era anche più che legittimo che la scuola si aprisse a queste nuove tecnologie, le quali ovviamente avrebbero anche influito sulle scelte didattiche per favorire il superamento delle metodologie frontali e trasmissive della tradizione.

La seconda educazione

A mio avviso, se queste tecnologie fossero state accolte da un “corpo” scolastico nuovo, o che si stesse veramente rinnovando, il loro contributo sarebbe stato più che positivo, perché sarebbero state soltanto mezzi a servizio di contenuti e metodi assolutamente compos sui! Ma una scuola già in difficoltà aveva la forza e l’intelligenza di ospitare, adottare tecnologie assolutamente nuove per lei, senza esserne invece “contaminata”? E non è un aggettivo gettato giù a caso. Ci soccorre McLuhan con la sua espressione il mezzo è il massaggio! A parte tutte le disamine a cui tale espressione ha dato luogo, resta pur sempre il fatto che, in un rapporto tra mezzo e messaggio, se quest’ultimo non è sufficientemente forte ed autorevole, viene prevaricato dal mezzo che del resto è sempre pronto – diciamo così – a rivendicare una sua autonoma spcificità.

Tutto ciò che si è verificato ultimamente con i corti dei telefonini, con YouTube, con le tecnologie più sofisticate a servizio delle prove scritte d’esame (e domani anche di quelle orali, con l’ausilio di auricolari della grandezza di una pasticca!) stanno a dimostrare che, se la scuola non è padrona reale del mezzo, ne diventa padrone solo chi lo sa utilizzare al meglio. E va anche aggiunto che le nuove tecnologie sollecitano processi mentali reticolari, globali spaziali, a fronte di quelli soltanto lineari sequenziali che una certa tradizione di fare scuola ha sempre privilegiato. Il che ha comportato una sorta di scollamento tra ciò che la scuola sollecita nel campo dei processi di motivazione, di apprendimento e di sviluppo della intelligenza e ciò che invece sollecitano le tecnologie prodotte da un sociale più avanzato, più sofisticato, più suadente.

Per tutta questa serie di ragioni che meriterebbero ben altri approfondimenti, nel corso degli ultimi anni la scuola ha fatto marcia indietro, si è dimostrata sempre più incapace di gestire la prima educazione a fronte del nuovo che si è venuto facendo sempre più aggressivo. Si è illusa che, venendo a compromessi con la fascinazione tecnologica, la potesse gestire in funzione delle sue proprie finalità, associandola con le metodologie di sempre. Ma, venendosi sempre più a sbiadire i suoi fini, ruoli, contenuti – e qui c’è una enorme responsabilità della politica! – i mostriciattoli tecnologici, solo blanditi e mai correttamente valutati, a poco a poco hanno cominciato a sostituirsi ad essa! Di qui quella che Vertecchi chiama la seconda educazione! E’ una denuncia forte, severa, dura e allarmata, come dice “insegnare”. Ed ancora, questa società della conoscenza è puro ideologismo, come sembra pensare Vertecchi?

Per una terza educazione!

Personalmente credo nella società della conoscenza, ovviamente con una serie di… anche se! Per dirne una, anche se non è assolutamente vero che in questa società avanzata proprio tutte le mansioni esigano conoscenze di base e/o specialistiche di tutto rilievo… senza complicare il discorso con la questione delle competenze!

Sarebbero necessari argomentati approfondimenti, ma mi limito ad una sola constatazione. Lo sviluppo del terziario negli ultimi decenni nelle società ad alto sviluppo, ed in seguito lo sviluppo del terziario cosiddetto avanzato (le tecnologie, la robotica, la burotica e tutte le diavolerie del digitale) fino a che punto hanno sollecitato l’espansione delle conoscenze a livello di massa? Per molti versi sì, ma… Basti pensare a questo ventre molle delle tante mansioni “terziarie” che oggi non richiedono affatto conoscenze di tutto rispetto. Il norcino di un tempo faceva i suoi calcoli sui sacchetti color paglierino con la matita sfilata dall’orecchio e in pochi secondi ti dava il totale da pagare! La cassiera del supermercato non è tenuta a questi calcoli, e non deve calcolare neanche il resto! Non sa neanche quello che hai comprato! Ci penseranno gli analisti specializzati nelle analisi di mercato. I miracoli dell’automazione! Il meccanico del centro assistenza clienti non cerca la causa del guasto della tua automobile aprendo il cofano e sporcandosi le mani, risolve tutto con un apparecchietto elettronico che maneggia con ostentata professionalità. E dov’è più quel commesso che in un negozio di abbigliamento ti dice tutto e con autorevole competenza del capo che vorresti acquistare? Nei grandi centri commerciali esperti di questo tipo non esistono più. Non saranno gli esempi più calzanti, ma due circostanze sono certe: a) è vero che il lavoro manuale è ormai largamente supportato dalle macchine e che gli operatori debbono essere tecnici di tutto rilievo; b) ma è anche vero che esiste una grande platea di addetti che, pur non attendendo a lavori manuali, non svolgono alcuna mansione né tecnica né intellettuale! Questa è la realtà occupazionale di questi primi anni Duemila, ed è con questa realtà che si deve misurare il nostro Sistema di istruzione – e quello di tutti i Paesi delle società della conoscenza.

Il nuovo proletario è il lavoratore non manuale, non tecnico, a cui il sociale non chiede elevati livelli di acculturazione. Invece il proletario di ieri aveva la netta coscienza dello sfruttamento a cui era sottoposto. Il nuovo proletario è messo in condizione di godere di tutto ciò che la fascinazione tecnologica gli propone e gli impone con quella messaggistica pubblicitaria che sembra costituirsi come il feuilleton di un tempo!

A fronte di queste realtà, in cui è la stessa domanda di istruzione ad affievolirsi, i richiami di Berlinguer a Maria Montessori, a Gianni Rodari, a Loris Malaguzzi, et al. quindi a pezzi pur importanti della nostra storia, sono indubbiamente necessari e suggestivi, ma non credo che “i bambini ce la faranno a vincere la partita” solo se inseriamo tout court autori di questo calibro nelle attività della formazione iniziale e continua dei nostri insegnanti. Pertanto, le esortazioni di Berlinguer, che pur accolgo in pieno, dovrebbero soprattutto diventare carne e sangue assolutamente nuovi delle concrete attività formative per gli insegnanti. E’ un forte richiamo all’andare oltre, a quel come fare, su cui mi sono già intrattenuto in un mio scritto precedente, Perché un’utopia diventi realtà.

Sulla questione della seconda educazione, vorrei soltanto che Vertecchi ci aiutasse – perché è in grado di farlo – a muoverci tutti insieme, politici, esperti, dirigenti, docenti e tutti gli stakeholders (un pizzico di inglese fa sempre effetto) che saranno coinvolti nelle innovazioni settembrine. Occorre dar vita alla terza educazione! Però, a condizione che quella seconda educazione venga violentemente aggredita! In primo luogo sul terreno del sociale là dove nasce la domanda di educazione, perché è la domanda che oggi è povera, perché è stata scientemente impoverita proprio da quell’uso volutamente distorto delle tecnologie che il neocapitalistico consumistico ha imposto. Che poi ci sia certa stampa di sinistra che oggi fa l’elogio del consumismo veramente ci sorprende! Non è il consumismo che soddisfa i reali bisogni di ciascuno di noi.

Il terreno è pronto, di qui ad un mese! Come ho detto all’inizio, partono le Indicazioni per il curricolo del primo ciclo, partono i bienni obbligatori. Non sono documenti prescrittivi, sono chiari nelle finalità e negli obiettivi, aperti come non mai per quanto riguarda gli spazi e le scelte operative che competono alle istituzioni scolastiche. E’ il terreno su cui – a mio vedere – si saggeranno, forse per la prima volta, tutte le possibilità riconosciute all’autonomia. E’ un appuntamento difficile che dovrebbe segnare una profonda svolta ma che, se non intelligentemente sostenuto, potrebbe anche costituire un flop! L’ultima spiaggia per il nostro Sistema educativo nazionale di istruzione? Da inguaribile ottimista dico di no! Ma dobbiamo mettercela tutta!

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