Direzione didattica di Pavone Canavese

NUOVO CORSO: materiali e documenti della politica scolastica della legislatura attuale

28.06.2009

“Zeru tituli”: dove va la scuola italiana
di Stefano Stefanel


    
     L’Italia investe male sulla scuola e i risultati complessivi dei suoi studenti sono un impietoso spaccato della direzione che sta prendendo il settore più strategico dello viluppo della  società italiana, quello della formazione della classe dirigente e dei settori centrali per la creazione della ricchezza nazionale. I dati ufficializzati dal Miur parlano da soli: sono aumentate le bocciature, le non ammissioni agli esami, le situazioni debitorie degli alunni, cioè tutti quei momenti che costituiscono l’ampio ventaglio della dispersione. Lo stesso giorno in cui l’Ocse pubblicizzava l’ennesimo rapporto negativo sulla scuola italiana il Ministro Gelmini commentava i dati sulla dispersione scolastica italiana (abbandoni, bocciature, situazioni debitorie) come il risultato della “stretta di vite” attuata attraverso le leggi emanate nel primo anno del suo mandato. Nelle parole del Ministro si intravedeva una sorta di orgoglio per aver contribuito ad aumentare la dispersione scolastica con la reintroduzione dei voti, non un grande rammarico per l’inadeguatezza di molti studenti rispetto al deficitario sistema scolastico italiano. Perché in realtà la valutazione Ocse ha detto che il sistema scolastico italiano non è buono e le valutazioni di fine anno hanno certificato che troppi studenti sono inadeguati rispetto a questo sistema.

Gli esami di fine anno sia nella secondaria di primo grado sia in quella di secondo non fanno che confermare quanto già sottolineato da tutta la stampa nazionale e locale: gli alunni sono in grave difficoltà soprattutto nelle materie tecniche e tecnologiche e solo una certa “manica larga” dei docenti permette di non produrre delle vere “stragi” agli esami. Il deficit di competenze in matematica, scienze e tecnologia si mostra in tutta la sua ampiezza nella scuola secondaria di prima grado e negli istituti professionali, dove la genericità delle preparazione fa il paio con la genericità e superficialità degli insegnamenti e delle metodologie didattiche.

         L’Italia non ama soffermarsi sulle analisi di sistema e predilige accompagnare discorsi teorici complessi all’analisi dei singoli casi, che – presi uno per uno – non presentano particolari elementi di riflessione. Se un alunno non studia o non capisce e la scuola certifica quello, non c’è molto da dire. Se poi questa tipologia di alunno corrisponde al venti o al trenta per cento della popolazione scolastica nazionale non è intervenendo sui singoli casi che si modifica il sistema, né si riesce a migliorarlo in forma consistente. Non riesco a comprendere come sia possibile, però, che un aumento delle ripetenze venga vissuto come una vittoria del rigore sull’approssimazione. Se ci sono molte ripetenze vuol dire che c’è stata una didattica approssimativa. E questo non ha molto a che fare con ragazzi che sommano le propri oggettive difficoltà a motivazioni basse e prospettive troppo incerte.

         La riforma dell’azione didattica non è nell’agenda governativa e questo è un dato di fatto che si può far risalire almeno alla metà degli Anni Ottanta, quando con i Programmi della scuola elementare si è attuato l’ultimo tentativo di dare omogeneità didattica al sistema. La debolezza delle Indicazioni nazionali e delle Indicazioni per il curricolo sta nella troppo bassa tendenza all’innovazione e alla ricerca del sistema scolastico italiano, che pare essersi addormentato sui programmi di venti, trenta o cento anni fa e che dunque valuta saperi obsoleti in grado solo di produrre alunni demotivati.  Quelli erano due ottimi documenti che dovevano stimolare una base docente attenta e pronta a recepire il nuovo: sono invece diventati il luogo della polemica e della stanchezza se non addirittura quello utile solo a dimostrare la necessità della conservazione.

         Un’attenta analisi dell’eccellenza liceale italiana potrebbe portare all’emersione di un dato che è ormai alla portata empirica di tutti: quell’eccellenza la fanno gli alunni, non i docenti. I nostri Licei funzionano bene e producono classe dirigente perché ai Licei vanno i ragazzi migliori, in grado di emergere qualsiasi sia il docente che hanno davanti. Il salto tra una buona scuola primaria e il disastro dei tecnici e dei professionali passa anche dall’irriformabilità del sistema mediano, una scuola secondaria conclusiva del primo ciclo che vuole assomigliare al secondo ciclo liceale pur essendo pienamente dell’obbligo. Tutte queste incongruenze sono il motore della debolezza dei nostri studenti, ma invece di generare dibattito, ricerca e innovazione generano solo bocciature. Come ebbe a dire l’allenatore della squadra italiana di calcio più costosa, con la rosa più ampia, con le potenzialità maggiori: gli altri hanno vinto “zeru tituli”. E come si fa a vincere dei “tituli” se non si hanno giocatori almeno decenti?  Il problema sta proprio nella forbice del sistema scolastico italiano: il Nord Est virtuoso e il  Sud catastrofico; i Licei nell’eccellenza mondiale e i Professionali ricettacolo di problemi, gli insegnanti poco pagati ma che difendono la rigidità dei propri orari, i collaboratori scolastici al servizio dei propri mansionari e non delle comunità in cui lavorano, i dirigenti scolastici desiderosi di essere considerati bravi e ostili a qualsiasi critica. “Zeru tituli” purtroppo e per troppi.

         La scuola poi tende a far ricadere sui figli le colpe dei padri in quanto considera un elemento peggiorativo l’assenza della famiglia o la sua incapacità ad aiutare un ragazzo in difficoltà. Se la famiglia è assente questo viene sempre sottolineato  e l’alunno non trae alcun vantaggio dall’essere stato “abbandonato”, quasi che quell’abbandono sia colpa sua. La scuola chiede l’aiuto della famiglia, dei servizi sociali, della società, ma in questo momento sta restituendo una dispersione inaccettabile. E quando quell’aiuto viene se è critico e non di entusiastica collaborazione lo respinge  con una certa durezza. Quello che mi stupisce è che questa situazione venga vissuta come positiva e portatrice di possibilità per il futuro. Il taglio orizzontale di ore alle scuole secondarie potrebbe essere accettabile se fosse collegato a progetti di recupero reali, verificati e valutati. Mentre così produrrà solo buchi orari, che spesso i ragazzi non saranno in grado di colmare, che genereranno malcontento per supplenze imposte a tutte le ore e che sfoceranno solamente in ulteriori disagi per le scuole. Con troppi stranieri, troppi ripetenti, troppi alunni disagiati e senza ore aggiuntive la scuola secondaria alla fine produrrà ulteriore dispersione.

         Speravo che la svolta numerica del Ministro Gelmini avrebbe portato le scuole a ragionare sulla dispersione, invece ha solo aperto la strada a chi da tempo meritava la vendetta sui ragazzi e il loro disamore per la scuola. Sono usciti allo scoperto alcuni convincimenti punitivi che nulla hanno a che fare con la didattica e l’educazione, ma che trovano semmai la loro linfa originaria nella storia italiana delle classi sociali e delle loro divisioni. La catena alimentare dell’intellettualità italiana ha trovato ulteriori punti deboli: stranieri, disagiati, ragazzi difficili. La creazione di una vastissima area di dispersione tra questi elementi creerà solo una società più debole, ma non pare che questo interessi a qualcuno. Ci stiamo adeguando all’idea che la scuola italiana sappia produrre soprattutto una cosa: “zeru tituli”.


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