28.05.2006
LA QUESTIONE DEGLI STANDARD: UNA
QUESTIONE DI LIBERTÀ
A proposito di una polemica
di Ermanno Puricelli, Sandra Ronchi, Elena Vaj e Marisa Vicini
Le questioni importanti sono di solito quelle che sfuggono a prima vista. Richiedono troppa analiticità per essere intuitivamente colte. Ma il diavolo non si nasconde nei dettagli? Meglio allora mettere subito sul tavolo il tema dei ‘poteri’ del Ministero nel determinare gli standard di apprendimento degli studenti. Un tema che ripropone la classica diatriba tra chi pensa ad uno ‘Stato educatore’ e chi invece propone uno ‘Stato sussidiario’ fondato sulla valorizzazione della libertà e dell’autonomia della scuola e dei docenti.
L’articolo pubblicato dal Prof. Giuseppe Bertagna, direttore del Dipartimento di scienze della persona dell’Università di Bergamo, su «Scuola e Didattica» n. 15, del 15 aprile 2006, intitolato Personalizzazione degli apprendimenti. Livelli essenziali di prestazione o prestazioni minime di apprendimento dei ragazzi?, è stato variamente commentato su alcuni riviste e siti internet che, in questi anni, si sono particolarmente distinti in una pregiudiziale campagna di disinformazione sulla riforma Moratti. Ora che si è insediato un Governo di sinistra che dovrebbe far attenuare queste ostilità rancorose e aprioristiche, merita, ci pare, discutere le critiche sollevate dall’articolo citato sia perché occasione utile per sciogliere alcune incomprensioni sulla questione degli standard; sia perché dimostrano che non basta una fraseologia rivoluzionaria da anni settanta per non essere conservatori; sia, infine, perché documentano quanto avesse ragione Keynes: «la difficoltà non sta nelle idee nuove, ma nell’evadere dalle idee vecchie, le quali si ramificano in tutti gli angoli della mente» di chi le ha, e si naturalizzano a tal punto da impedire perfino la possibilità di qualsiasi pensiero alternativo.
Tesi e argomentazioni nella prospettiva dei Piani di studio personalizzati
Di fronte alle pressanti richieste, provenienti da più parti,
affinché il Miur interpreti quanto prima gli obiettivi specifici di
apprendimento, di cui all’art. 8 del D.P.R. n. 275/1999, come «livelli
essenziali di prestazione dell’apprendimento degli studenti» o, il che è lo
stesso, come «standard di apprendimento degli studenti», la presa di posizione
espressa nell’articolo di «Scuola e Didattica» non avrebbe potuto essere più
netta.
Sul filo di un’attenta e documentata analisi della normativa vigente, dal dlgs.
n. 229 del 1999 alla Legge quadro n. 328/2000, dall’art. 117 del Titolo V della
Costituzione al D.P.R. n. 275/1999, per approdare infine alle Indicazioni
nazionali, l’articolo cerca dapprima di provare l’infondatezza giuridica delle
interpretazioni che vorrebbero interpretare gli Osa come livelli essenziali di
prestazione degli studenti (come standard di apprendimento); successivamente si
impegna a corroborare questa posizione con considerazioni di ordine pedagogico,
ben radicate però nell’analisi non solo giuridica di alcuni passi del D.P.R. n.
275/1999 (1).
Consapevoli del rischio di non rendere giustizia alla complessità e all’organicità della scritto (consapevolezza che, invece, manca, mi pare, a molti che lo hanno superficialmente ripreso), cominceremmo con l’estrapolare alcune tesi e argomentazioni di cui l’autore si serve per chiarire la natura degli Osa.
La tesi fondamentale è costituita dall’affermazione già anticipata, secondo la quale i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) di cui parla la Costituzione (art. 117), di cui parla poi la legge n. 53/2003 con i suoi decreti legislativi (in particolare il n. 226/2005) e di cui parlano, infine, in un passaggio, le Indicazioni nazionali quando affermano di contenere «i livelli essenziali di prestazione (intesi nel senso di standard di prestazione del servizio) che le scuole pubbliche della Repubblica sono tenute in generale ad assicurare ai cittadini per mantenere l’unità del sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione, per impedire la frammentazione e la polarizzazione del sistema» non possono assolutamente essere intesi come «livelli essenziali di prestazione dell’apprendimento degli studenti» o, il che è lo stesso, come «standard degli apprendimenti dei singoli studenti».
Ciò, sostiene l’articolo, vale non solo ‘anche’ ma a ‘maggior ragione’ per gli Obiettivi specifici di apprendimento (Osa) riportati nelle Indicazioni nazionali.
Vale a maggior ragione perché, da un lato, se anche gli Osa fossero intesi come Lep, proprio per quanto detto prima non possono essere concepiti come livelli essenziali di prestazione dell’apprendimento degli studenti; dall’altro lato, perché essi sono e sono da considerare, a tutti gli effetti, «norme generali sull’istruzione» (art. 33, comma 2 della Costituzione), cioè, per un verso, qualcosa di molto più specifico, dettagliato e cogente dei Lep, ma, per l’altro verso, non per questo anche di natura diversa dai Lep, ovvero comunque non confondibili in quanto «norme generali sull’istruzione» con la determinazione di livelli essenziali di prestazione dell’apprendimento degli studenti o, il che è lo stesso, con la determinazione di standard di apprendimento dei singoli studenti (sarebbe fra l’altro un bell’ossimoro: infatti, sarebbero «norme generali sull’istruzione» dettate dello Stato centrale che invece vorrebbero addirittura giungere a determinare prescrittivamente ciò che deve per forza sapere e saper fare ogni singolo allievo).
Gli Osa, dunque, sono «norme generali sull’istruzione» da considerare, come peraltro dicono le Indicazioni nazionali, «standard di prestazione del servizio», e non possono affatto essere intesi come standard minimi di apprendimento riferiti alle prestazioni di ogni studente.
Del resto, se si fosse voluto assegnare agli Osa la funzione di determinare gli standard minimi di apprendimento che ogni studente della Repubblica sarebbe tenuto a raggiungere, avrebbero dovuto essere formulati in modo molto diverso (oltre che riferirsi ad una concezione dello Stato molto diversa, perché statalista, da quella sussidiaria adottata programmaticamente nella nostra Costituzione formale) (2).
La seconda tesi fondamentale, conseguente alla prima, consiste nell’affermare che spetta alle scuole dell’autonomia ed ai docenti, e non allo Stato o ai suoi funzionari e tecnici centrali, stabilire gli standard minimi di apprendimento relativi alle prestazioni degli studenti. Si tratta di una grande questione di libertà: libertà di scuola e libertà di insegnamento dei docenti, contro le pretese di una didattica prestazionistica di Stato.
Gli argomenti di supporto portati nell’articolo per questa
tesi sono questi:
a) la definizione di standard minimi di apprendimento da parte dello Stato
contrasta con il quadro generale delle norme sull’autonomia ed, in particolare,
con il principio dell’autonomia educativa e didattica riconosciuta ai docenti e
alla scuola dal D.P.R. n. 275/1999;
b) contrasta in modo ancora più palese con il principio di sussidiarietà
stabilito dalla riforma dal Titolo V della Costituzione, e riaccredita la
teoria, che si pensava definitivamente superata, dello ‘Stato educatore’;
c) contrasta con l’art. 33, comma 2 della Costituzione («la Repubblica detta le
norme generali sull’istruzione»: generali, si badi bene); d) contrasta, infine,
con una corretta interpretazione dell’art. 13 del D.P.R. n. 275/1999, da cui si
evince che gli Osa devono essere utilizzati dai docenti per la formulazione
degli Obiettivi formativi completi, come prescrivono le Indicazioni nazionali,
dei relativi standard.
Un’ultima tesi espressa dall’articolo su cui intendiamo richiamare l’attenzione è l’affermazione secondo cui resta comunque non solo legittimo, ma doveroso, per il prof. Bertagna, che lo Stato definisca degli standard minimi nazionali per le prestazioni di apprendimento degli studenti, purché questo non avvenga prevaricando il diritto-dovere primario dei docenti e della scuola di stabilire, in nome dell’autonomia, della libertà e della responsabilità professionale, gli standard minimi di prestazione per i propri alunni. Naturalmente la definizione di questi standard minimi di apprendimento nazionali, che dovrebbe essere compito dell’Invalsi, non potrà seguire il percorso assiomatico-deduttivo, caro alle vecchie logiche statalistiche, centralistiche, burocratiche e autoritarie, purtroppo finora adottate e addirittura invocate da molti autorevoli consulenti del programma del nuovo Governo, ma dovrà sperimentare percorsi di tipo empirico-induttivo, più consoni agli spazi di autonomia riservati alle scuole e alla libertà dei docenti, più coerenti con lo spirito democratico e del tutto corrispondenti ad una concezione pedagogica che valorizzi la riflessione sulle pratiche dei docenti e della scuola senza pretendere ideologicamente il contrario.
Analisi di due posizioni che criticano questa impostazione
La posizione sommariamente riassunta è stata fatta oggetto di analisi critica da parte di P. D’Avolio, in un intervento intitolato Di Lep e di Osa: dagli obiettivi ai livelli di apprendimento o standard (3). Questo autore, però, nel suo scritto, confonde, forse involontariamente, i Lep in senso tecnico, quelli dell’art. 117 della Costituzione e della legge n. 53/2003 per il sistema dell’istruzione e formazione professionale, con «i livelli essenziali di prestazione (intesi nel senso di standard di prestazione del servizio) che le scuole pubbliche della Repubblica sono tenute in generale ad assicurare ai cittadini» di cui parlano le Indicazioni nazionali che contengono gli Osa. Cadendo lui in questo fondamentale equivoco concettuale, addebita quindi alle Indicazioni nazionali quello che considera essere il loro punto debole: «…l’equivoco tra Lep e Osa». Per poi concludere che «gli Osa […] non possono essere dei Lep e l’aver scambiato gli uni con gli altri è alla base di tutti i fraintendimenti che ne sono derivati anche sul piano della valutazione». Premesso che è D’Avolio a cadere nell’equivoco prima ricordato, qual è il motivo per cui lui ritiene sia assolutamente da escludere che gli Osa siano «livelli essenziali di prestazione (intesi nel senso di standard di prestazione del servizio) che le scuole pubbliche della Repubblica sono tenute in generale ad assicurare ai cittadini» (Indicazioni nazionali), mentre, invece, a suo avviso, dovrebbero essere standard minimi di apprendimento che ogni studente deve raggiungere alla fine di un percorso formativo?
La ragione è a suo avviso presto detta: i Lep (ed è vero, se si tratta di Lep in senso tecnico) solitamente riguardano le condizioni e le caratteristiche generali del servizio che si deve rendere, ed hanno per "soggetto logico" gli erogatori del servizio stesso, nel nostro caso i docenti e la scuola appunto; il fatto però, egli continua, che gli Osa, o meglio le conoscenze e le abilità da essi esplicitati, indichino qualcosa che gli alunni devono pur apprendere costringe, a suo avviso, ad ammettere che hanno per "soggetto logico" non i docenti e la scuola, ma gli alunni. Di conseguenza, non possono essere più interpretati come «livelli essenziali di prestazione (intesi nel senso di standard di prestazione del servizio) che le scuole pubbliche della Repubblica sono tenute in generale ad assicurare ai cittadini» (dalla Indicazioni nazionali). Aut…aut, quindi per D’Avolio: «In sostanza gli Osa devono essere appresi... gli Osa pertanto non possono essere Lep». L’argomentazione – a parte l’equivoco non si sa quanto involontario di scambiare i Lep in senso tecnico-costituzionale con «i livelli essenziali di prestazione (intesi nel senso di standard di prestazione del servizio) di cui parlano le Indicazioni nazionali – è capziosa e non sembra affatto convincente, per più di una ragione.
Intanto, D’Avolio è fautore di una visione riduttiva del campo d’azione dei «livelli essenziali di prestazione (intesi nel senso di standard di prestazione del servizio)» di cui parlano le Indicazioni nazionali. Egli sostiene, infatti, che tali livelli essenziali del servizio siano soltanto: «quelli che le Indicazioni nazionali chiamano "Vincoli e risorse": organico, orario e altro». Ora, è certamente vero che nel paragrafo "Vincoli e risorse" delle Indicazioni nazionali sono riportati standard minimi di prestazione del servizio che sono a dire il vero anche ben più di Lep, visto che sono «norme generali sull’istruzione». Tuttavia, se, per Costituzione (art. 33, comma 2) è dovere dello Stato definire come norme generali gli standard organizzativi del servizio scolastico, non si capisce perché mai non lo dovrebbe essere anche quello di fissare le «norme generali» relative al cuore educativo e didattico del servizio scolastico, cioè, appunto, le conoscenze e le abilità che, appunto in generale, devono essere insegnate dalle scuole e dai docenti agli studenti.
Consideriamo poi la deduzione operata da D’Avolio: siamo certi che, a partire dalla constatazione che gli Osa devono necessariamente avere una qualche ricaduta sull’apprendimento («devono essere appresi», scrive), per via della relazione strutturale che sussiste tra insegnamento e apprendimento, relazione che a nessuno può venire in mente di negare, si possa davvero concludere che, allora, per questo, non sia più possibile interpretarli come «livelli essenziali di prestazione del servizio di insegnamento», come li intendono le Indicazioni nazionali, ma «livelli essenziali di prestazione dell’apprendimento dei singoli studenti italiani o, il che è lo stesso, standard minimi di apprendimento dei singoli studenti»? Sfugge la cogenza di questo passaggio logico. Perché mai ci dovrebbe essere un "aut…aut" di questa natura? È una constatazione ovvia che l’insegnamento sia legato da una relazione strutturale all’apprendimento (a meno di esercitarlo davanti allo specchio) e che, di conseguenza, gli Osa in qualche modo, riguardino, come effetto, anche l’apprendimento degli studenti, ma questo non consente assolutamente di concludere che gli Osa cessino, per questa ragione, di essere standard essenziali di prestazione del servizio di insegnamento, anzi, più che Lep vere e proprie «norme generali sull’istruzione» (generali: non minute e idiografiche). Semmai, si tratterà di capire meglio il nesso che sussiste tra questi, il processo di apprendimento personale di ciascun studente e i relativi standard. Ma questo è un altro discorso.
Nel suo articolo, infine, D’Avolio, moltiplicando gli equivoci, attribuisce al prof. Bertagna una posizione che nell’articolo, non ha mai sostenuto. Dopo aver, infatti, osservato correttamente che, secondo il prof. Bertagna, gli Osa sarebbero: «"materiali" o, come metaforicamente li chiama altrove, "ingredienti" da utilizzare per progettare i percorsi formativi "al servizio del massimo sviluppo possibile degli alunni», obietta che: «gli Osa non sono solo materiali ma devono essere appresi». In pratica, obietta che gli Osa non solo sono ‘materiali’ per l’insegnamento ma che lo sono anche per l’apprendimento. Ma, dire che sono "materiali" che il docente è tenuto ad usare obbligatoriamente nel suo insegnamento, significa forse affermare che le conoscenze e le abilità si devono solo insegnare e non apprendere da parte degli alunni? Che discorso sarebbe mai questo? Dire che gli Osa stabiliti dallo Stato sono ‘materiali’ da usare obbligatoriamente per l’insegnamento significa, in realtà, invece, ricordare a chi se ne fosse dimenticato che non sono fruibili immediatamente come forme specifiche dell’apprendimento degli alunni, semplicemente perché, come sa ogni docente, richiedono la mediazione culturale, educativa e didattica dei docenti per renderli davvero significativi e adatti alle caratteristiche cognitive degli alunni stessi, e quindi loro apprendimento personale. Se no, che ci starebbe a fare la scuola autonoma e il docente, che dovrebbe godere della libertà di insegnamento, se fosse lo Stato, per di più a priori, a stabilire non solo i livelli di apprendimento personali di ogni studente, ma addirittura il loro senso in situazione? Invece, grazie a questa mediazione professionale, che è e deve essere autonoma e libera (e si spera, quindi anche responsabile), gli Osa, perdono la loro natura di archivi logico-epistemologici (di ‘materiali’) di conoscenze e abilità per trasformarsi in "Obiettivi formativi" per gli studenti, completi, come recitano sempre le Indicazioni nazionali, dei relativi standard di apprendimento.
Se lo Stato (o meglio chi, pro tempore, lo rappresenta: il governo, i ministri e i loro dirigenti) ha docenti di cui non si fida e che ritiene incapaci di produrre questa responsabile mediazione, perché mai allora ha introdotto con tanta pompa l’autonomia, perché mai inoltre ha riconosciuto sulla carta la libertà di insegnamento? Forse che si abbia nostalgia di uno Stato che considera i docenti impiegati, funzionari del suo Spirito assoluto? C’è solo da augurarsi che non tornino questi spettri: nemmeno in miniatura.
Nel dibattito sollevato dall’articolo pubblicato da «Scuola e Didattica» si registra anche un intervento di M. Tiriticco, dal titolo perentorio Idee chiare sugli standard! Un compito per il nuovo ministro (4). Se nel precedente scritto l’aria è serena e dialogante, qui l’atmosfera si fa decisamente assertiva, in alcuni passaggi perfino minatoria. L’articolo, come è consuetudine da ormai troppo tempo per molti scritti che appaiono in siti pregiudizialmente schierati contro qualsiasi cosa richiami la riforma Moratti, assume più i toni di un anatema, che non quelli di una pacata e argomentata riflessione pedagogica e didattica. L’anatema colpisce l’affermazione secondo cui gli Obiettivi specifici di apprendimento (Osa) sarebbero «livelli essenziali di prestazione (intesi nel senso di standard di prestazione del servizio)». Ossia, già l’abbiamo più volte ricordato, sarebbero standard di insegnamento, livelli di prestazione del servizio di insegnamento da parte dei docenti. Ripetendo lo stesso equivoco di D’Avolio (ambedue confondono i Lep di cui parla l’art. 117 della Costituzione e la legge n. 53/2003 per il sistema dell’istruzione e formazione professionale con «i livelli essenziali di prestazione intesi nel senso di standard di prestazione del servizio» di cui parlano le Indicazioni nazionali), l’autore lamenta quindi le ‘temibili conseguenze’ di questa posizione: «Si tratta di una linea improvvida, che rischia di mandare a carte quarantotto l’intero Sistema Nazionale di Istruzione e Formazione». Addirittura! «A tale tesi – egli continua - si oppongono vivamente sia la ricerca educativa più accreditata [chi, poi? N.d.r.] sia la gran parte [quanti? Come fa a saperlo? N.d.r.] degli operatori scolastici». Niente a che vedere, ben si intende, con il gruppuscolo di "gangster" e di "funamboli" che hanno seguito la sperimentazione Moratti, a cui apparterremmo anche noi: «Ma chi ha detto agli esperti morattiani che bisognava rovesciare come un calzino la nostra scuola?». Si stava così bene prima! Restaurazione, restaurazione, restaurazione, dunque: ritorno senza pensarci neanche un momento alle antiche, rassicuranti abitudini statalistiche, anche se hanno dato gli sconsolati risultati che tutti conosciamo.
Individuata e condannata (ma non ancora estirpata) l’eresia che rischia di far vacillare i dogmi sempre creduti, dunque, il nostro inquisitore laico eleva un’invocazione allo Stato (che poi vuol dire adesso al Ministro Fioroni) affinché esso Stato, nella sua filantropica benevolenza, faccia di nuovo piovere sulla scuola i tanto sospirati standard minimi di apprendimento a cui tutti i docenti dovranno far orwellianamente adeguare gli studenti (e poi si parlava di didattica aziendalistica e di efficientismo pedagogico con le Indicazioni nazionali: qui siamo all’aziendalismo e all’efficientismo al cubo, dove l’unica funzione della scuola e dei docenti di Roccacannuccia sarà quella di raggiungere gli standard minimi stabiliti dallo Stato.
Presentata la veste retorica dell’articolo, dobbiamo ora disporci ad indagarne anche la sostanza argomentativa. E qui, purtroppo, sembra di assistere, come capita da tempo, ad un dialogo tra sordi.
«Non è possibile avviare un percorso di istruzione o di formazione se non si hanno chiari gli obiettivi che si propongono allo studente e che questo deve raggiungere. La scuola si è sempre comportata così». Giusto! L’hanno sempre detto tutti. Ma siamo sicuri che il Profilo e le Indicazioni nazionali non facciano appunto questo, solo rispettando il format dettato dal D.P.R. n. 275/1999 e il principio dell’autonomia delle scuole, accolto dalla riforma del Titolo V?
E poi, «è giusto o non è giusto accertare che alla fine di un processo di apprendimento uno studente, piccolo o grande che sia, [abbia] realizzato obiettivi chiaramente preventivati?». Giusto! A chi è venuto in mente il contrario? Ma dove questa esigenza di accertamento risulterebbe disattesa nei documenti e dall’impianto della riforma?
«Ed ancora! Quando si parla di competenze in determinati campi del sapere e del sapere fare, non si pretende che siano leggibili, comprese e condivise da altri in situazioni diverse?». E ancora una volta: giusto! E ancora una volta chi mai ha potuto negare una così ovvia verità pedagogica. Ma siamo sicuri che parlare di standard rispetto alle competenze personali degli studenti significhi la stessa cosa che parlare di standard per le conoscenze e abilità (cioè per gli Osa stabiliti dallo Stato)?
Se le esigenze poste sono del tutto legittime, dove sta allora il problema? Se si trattasse solo di un confronto tecnico, la soluzione sarebbe a portata di mano. Purtroppo, a parte le viscere, la lettura dell’articolo rende evidente che il nodo reale attorno a cui si aggroviglia la discussione è di filosofia politica: riguarda il modo di pensare i rapporti tra i poteri dello Stato, da un lato, e i poteri delle scuole dell’autonomia, degli insegnanti e delle famiglie dall’altro, in ordine ai problemi dell’educazione e dell’istruzione. L’opinione di Tiriticco, si noti bene: nella stagione del D.P.R. n. 275/1999 e della riforma del Titolo V della Costituzione in cui è fondamentale stabilire dove terminano le competenze dello Stato e dove iniziano quelle degli altri soggetti portatori di doveri e di diritti, è che lo Stato, sulle conoscenze e le abilità che, appunto in generale, devono essere insegnate dalle scuole e dai docenti agli studenti, non debba limitarsi a fissare "che cosa" si debba insegnare e, di conseguenza, solo di conseguenza, i docenti e la scuola debbano poi far responsabilmente apprendere agli studenti, ma spingersi fino a stabilire quanto, quando, come e a che livello questo ‘che cosa’ debba diventare nella testa di ogni studente. Dei docenti e della scuola non ci si può fidare, in questo compito, secondo questa interpretazione: deve intervenire lo Stato a mettere in riga questi potenziali trasgressori che, evidentemente, nella sua ottica devono apparire liberi e autonomi, nelle chiachiere e nei ‘dibbbbattiti’ ma non esserlo in realtà. Un nodo essenzialmente di filosofia politica e istituzionale, dunque, dove si scontrano ancora una volta, come nel dopoguerra, l’idea di uno Stato invasivo fino ai confini dell’anima (che faceva schiumare di rabbia Luigi Sturzo) e l’idea di uno Stato sussidiario che rispetta e valorizza gli spazi di azione delle diverse formazioni sociali esistenti (tra cui, fondamentale, la scuola).
Particolarmente interessanti ci sembrano, poi, le motivazioni per cui egli ritiene necessario tutto questo: la prima è che sarebbero gli insegnanti a richiedere a gran voce gli standard minimi di apprendimento: «Perché sono le stesse scuole e gli stessi insegnanti che, di fronte alla proposta della scuola faidaté, hanno dimostrato tutto il loro disorientamento e disappunto!»; la seconda è che, se lasciati a sé stessi, i docenti fisserebbero standard arbitrari e capricciosi per i loro alunni: «Se parliamo di standard, ci poniamo su un terreno comune e condiviso, e, se deve essere tale, che cosa vuol dire che è il docente stesso a stabilire gli standard di apprendimento [sic]? Quali sarebbero le conseguenze? Che ogni insegnante fissa i suoi standard, ad arbitrio e a capriccio, perché in tal modo la sua libertà di insegnamento si riscatta definitivamente dallo Stato Padrone?»; la terza infine è che gli insegnanti non sarebbero in grado di farlo: «non defletto mai –non potrei farlo – dagli obiettivi che mi vengono proposti da un’autorità superiore a cui riconosco competenze in materia, le quali non possono assolutamente essere le mie! Perché le mie sono altre! Perché si insiste nel voler attribuire agli insegnanti ruoli che non sono loro! Unicuisque suum!». E sì, nell’ottica di Tiriticco lo Stato (o meglio chi lo rappresenta) è chiamato a sostituire i docenti, e ad organizzare per loro la loro libertà e felicità. Ma insegnanti così non andrebbero licenziati, subito per manifesta inadeguatezza? Ma ad una scuola così disastrata questa Repubblica ha riconosciuto l’autonomia? O allora togliamo l’autonomia della scuola anche dalla Costituzione e torniamo ai bei docenti obbedienti esecutori delle disposizioni del superiore Ministro di turno e dei suoi funzionari, oppure bisogna assumere che i docenti siano capaci di promuovere i responsabili processi di apprendimento richiesti in una scuola davvero libera e autonoma. Altro è semmai il discorso di aiutare i docenti, con apposite provvidenze di sostegno tecnico-professionale, a non avere le regressioni che Tiriticco presenta come conquiste: purtroppo ciò che non si fa e non si è fatto, forse anche per mantenere sempre i docenti e la scuola in quella condizione di ‘dipendenza’ e di ‘minorità’ sulla quale Kant già oltre due secoli fa chiamava a riflettere.
Ermanno Puricelli, Sandra Ronchi, Elena Vaj e Marisa Vicini
Note
1) Compito, per la verità, già svolto dal professore in Valutare tutti, valutare ciascuno. Una questione pedagogica, La Scuola, Brescia 2004.
2) Cfr. G. Bertagna, Valutare tutti, valutare ciascuno, op. cit., pp. 112 e ss.
3) In: www.scuolaoggi.org/download/LEP-OSA.DOC
4) In: www.edscuola.it/archivio/Ped/standard.pdf