30.11.2008
La
valutazione e il paradigma aziendalista dell' autonomia
di Alessandro Paris
Benedetto Vertecchi è uno dei massimi
esponenti della scuola docimologica italiana.
In questa
intervista egli afferma:
«Il nostro sistema educativo
soffre di una penosa crisi di conoscenza. La ricerca educativa è ridotta
al lumicino, affidata com'è al buon cuore di chi ancora crede che la
ragione costituisca un valore. La chiarezza nella valutazione richiede
prima di tutto una ripulitura delle scorie di senso comune che
impediscono di vedere e capire i fenomeni educativi in una corretta
dimensione spaziale e temporale. La valutazione serve se è chiaro in
quale prospettiva si colloca. Altrimenti, è ideologia mascherata di
naturalismo».
Quest’affermazione del professor Vertecchi
è senz’altro condivisibile. La valutazione, con qualunque scala numerica
o assiologica, in decimi, quindicesimi, trentacinquesimi o con
“sufficiente”, “discreto”, “ottimo”, non fa altro che riscontrare
conoscenze competenze e capacità che attingono a un quadro pedagogico
atto a determinare cos’è l’intenzionalità educativa sottostante.
La valutazione deve mirare al singolo alunno, che non è più “l’alunno
medio”, frutto di una generalizzazione statistica e prodotto di una
selezione spesso autoritaria delle classi dirigenti, ma è il cittadino
della repubblica, soggetto individuale con le sue peculiarità e risorse
da sviluppare al meglio. Per questo sia nella didattica sia nella
valutazione deve superarsi l’idea di standardizzazione in favore di
quella di flessibilità. L’intenzionalità educativa della scuola
repubblicana deve mirare, come dice la Costituzione, a garantire il
diritto all’istruzione attraverso la formazione di autonomia, di
conoscenza, di spirito critico, in breve di tutto quello che in una
democrazia serva a promuovere la libertà nell’eguaglianza.
Ridurre tale obiettivo a quello della mera selezione attraverso il voto
dato in decimi, se favorisce una semplificazione “pubblicistica”- quando
non “pubblicitaria” d’altra parte tradisce, a parere di Vertecchi
l’adeguazione alle nuove istanze pedagogiche della seconda metà del
Novecento.
Ogni criterio valutativo presuppone, infatti, un paradigma scolastico; e
ogni paradigma scolastico presuppone un paradigma politico e sociale, un
concetto penetrato nel senso comune di cosa sia la scuola, e di quale
ruolo essa abbia nella società, e ne comanda dunque la modalità della
sua organizzazione.
Una società del mercato non può che pensare la scuola come azienda. Una
società della comunità e della solidarietà, non può che pensare la
scuola come una “comunità di vita e di apprendimento (Fioroni) ”.
Le prime mosse di questo Governo, se pure mantengono il lessico
dell’autonomia, in realtà, a parere di Vertecchi, ne snaturano
profondamente il senso. Potremmo definire, infatti, l'autonomia nelle
istituzioni scolastiche come la necessità di spostare la centralità
dell'azione didattico-amministrativa dalla "fedeltà alle leggi" alla
"qualità del servizio".
Ciò significa: autonomia didattica, amministrativa, finanziaria
organizzativa, negoziale. Ci si può chiedere se quest’obiettivo sia
stato realizzato dall’era Berlinguer, ma non è qui il luogo né vi è lo
spazio per tale analisi.
All’interno del paradigma dell’autonomia, la valutazione deve
presupporre la programmazione, in particolare didattica, la quale a sua
volta deve tenere conto di tre fattori fondamentali: le caratteristiche
cognitive e affettive degli allievi, prima, durante e dopo il corso; gli
obiettivi (quantificabili oggettivamente) che i contenuti si propongono;
i mezzi e le procedure disponibili per realizzare tale programmazione.
Le funzioni della didattica che Vertecchi identifica in questo contesto
sono le seguenti: incentivazione degli stati affettivi collegati
all’apprendimento; comunicazione culturale; consolidamento
dell’apprendimento; differenziazione dell’apprendimento;
verifica/valutazione dell’apprendimento degli allievi e dell’adeguatezza
delle procedure. (Ambienti per la tecnologia dell’istruzione, 1992).
Tutto questo è giusto: ci si chiede però
se la scuola dell’autonomia incompleta (secondo alcuni critici) -
alla quale a suo tempo contribuirono da protagonisti pedagogisti come
Vertecchi e Maragliano, ispiratori della Riforma Berlinguer - non abbia
di fatto introdotto il paradigma aziendalista nella scuola
favorendo il suo brodo di coltura da cui far germogliare la sua reductio
a luogo di vendita e acquisto di una merce.
I pur condivisibili moniti di Vertecchi devono, infatti, confrontarsi
con il risultato di quelle idee quando esse, sottoposte a troppi cambi
di vento da parte dei governi e dei ministri succedutisi, sotto il segno
di continui tagli economici, hanno prodotto solo una proliferazione
semantica senza un reale miglioramento qualitativo della scuola.
Per questo, come affermava già qualche anno fa Luigi Russo in un bel
libro (Segmenti e Bastoncini, ed. Feltrinelli): «La
scuola è diventata da luogo di formazione luogo d’informazione e
socializzazione. Ne è conseguito i professori, da esperti delle
discipline, sono diventati "operatori scolastici", “esperti di
tecnologie educative” (questo è il titolo di un libro di Vertecchi e
Maragliano già del 1974) con una preparazione essenzialmente
socio-pedagogica e con un diminuito prestigio sociale ed economico. A
definire i curricola non sono più esperti delle discipline, ma esperti
di sociologia, pedagogia e scienza della comunicazione, mentre alle
scuole, improntate al paradigma aziendalista, non resta che
l’autopromozione pubblicitaria, dove "presidi e insegnanti devono
escogitare iniziative promozionali che migliorino l’immagine" della
propria scuola attirando il maggior numero di studenti-clienti"».
Ovvio che, nell’attuale congiuntura scolastica, queste tematiche possano non risultare centrali, di fronte all’emergenza economica che i tagli fanno paventare, ma non si deve scordare che il livello di democrazia e libertà di un paese si misura dal livello di libertà della scuola, e di messa in condizione alle forze insegnanti di esercitare con serenità e senza ansia il loro mandato educativo.