20.04.2014
Su ciò di
cui non si può parlare, si deve tacere..
di
Franco De Anna
Così Wittgenstein nel suo Tractatus…
Se c’è un sintomo del carattere” regressivo” della politica scolastica degli ultimi 15 anni è quello rappresentato dal fatto che, come in un vecchio vinile rotto, si ripetano sempre le medesime argomentazioni in termini esortativi; a parte la noia, corrodendone in tal modo la stessa semantica. Parole e concetti in sé carichi di significato, diventano così delle buzz-words, delle parole ronzio, sulle quali comunque ci si atteggia a commentare e sottolineare, financo a distinguersi “politicamente” in un finto dibattimento.
La nuova Ministra della
Pubblica Istruzione, nella enunciazione del suo programma, si è esercitata,
per esempio, su alcuni argomenti il cui “dire” fu all’ordine del giorno di
15 anni fa (almeno), costituendo allora il fuoco di un confronto culturale
autentico e l’ispirazione di una politica.
Mi riferisco a tre “parole” essenziali: autonomia, sussidiarietà, parità.
Attorno alle prime due, delle quali l’autonomia
scolastica rappresenta una “applicazione” specifica, ruota una
intera stagione di prospettive e di attuazioni parziali di riforma della
Pubblica Amministrazione (dunque non solo della scuola) che ha un suo
“appuntamento” (non solo simbolico) con al Legge 59/97 (Bassanini), ma che è
a sua volta il prodotto di una stagione più lunga, a far data dalla fine
degli anni ’70. La periodizzazione non è inutile: si tratta del maturare di
consapevolezza della inadeguatezza del sistema pubblico italiano stretto tra
l’ampliamento della produzione di servizi cittadinanza e del welfare (dal
sistema sanitario nazionale a quello previdenziale, alla scuola di massa),
la permanenza del modello di amministrazione di tipo “autorizzativo” e non
“produttivo” (indifferenza ai parametri “economici” della efficienza, della
produttività e del controllo e ottimizzazione dei costi), e l’innesco della
“crisi fiscale” dello Stato che investirà tutti i modelli di welfare sul
piano internazionale.
Se la Legge 59/97
rappresentò un punto di svolta (sotto il profilo della legislazione) va
ricordato che si tratta di un prodotto di una stagione più lunga di
elaborazione: bastino per accenni i nomi di Massimo Severo Giannini, Sabino
Cassese, e, appunto, Franco Bassanini.
Allora si diceva di un intervento riformatore radicale, che operava
trasformazioni profonde nell’assetto pubblico “a Costituzione invariata” (la
successiva riforma del Titolo V, che in parte rintracciava coerenze
possibili, al contrario non facilitò le realizzazioni “amministrative”,
enfatizzando invece la conflittualità interpretativa).
Non è qui il caso di riprendere i contenuti forti della Bassanini se non per
citazioni: dall’impulso al decentramento amministrativo che capovolge le
priorità “definitorie” (lo Stato indica ciò che è esclusivo a sé, piuttosto
che dedicarsi alle declaratorie di deleghe ad altri Enti), e ribadisce le
competenze di esercizio di responsabilità nella unicità di funzioni (dunque
no alle repliche di competenze , ai doppioni organizzativi, tra centro e
periferia). Alla azione sugli Enti Pubblici la cui proliferazione senza
controllo aveva fatto coniare a Massimo Severo Giannini il termine di “entismo”.
Azione di sfoltimento numerico drastico e di trasformazione degli assetti
con la fuoriuscita dai paradigmi del Diritto Amministrativo (da Enti
Pubblici a Fondazioni, agenzie, aziende pubbliche..). Alla introduzione
delle categorie economiche di produttività, efficacia, efficienza, come
“criteri operativi” che affiancano quello classico (e, nella tradizione,
esclusivo) della “legittimità degli atti”.
Potrei naturalmente
continuare a lungo nella esemplificazione; ma qui mi preme sottolineare che
nella Legge 59/97, il piano della affermazione di principi, delle scelte
politiche culturali di ispirazione, della individuazione degli obiettivi e
degli strumenti, è davvero esaustivo. Affermazione non dissimile dovremmo
fare sulla autonomia scolastica: sul piano definitorio di principi e
ispirazioni (ciò che può e “deve” fare uno strumento normativo), che cosa
manca al Regolamento dell’Autonomia?
Si trattò di una produzione legislativa, certo non perfetta, ma che
conteneva ampie potenzialità realizzative, la possibilità cioè di costruire
una “costituzione materiale” che segnasse il cambiamento profondo degli
assetti organizzativi ma anche di sostanziali aspetti istituzionali e
culturali. Si pensi alle contraddizioni anche laceranti che
“l’amministrativismo” genera quotidianamente in settori come la sanità (vedi
le incursioni dei TAR nella ricerca scientifica e nei trattamenti
sanitari..), la produzione dei servizi alla cittadinanza, la scuola stessa
(i TAR che decidono sul sostegno e l’integrazione..)…
E’ del tutto evidente che gli oltre quindici anni trascorsi sono
caratterizzati da politiche pubbliche che non hanno dato corpo operativo a
quelle scelte, non ne hanno esplorato le potenzialità e gli ampi spazi
realizzativi. Senza negarle formalmente, ne hanno invece rallentato,
posticipato, allontanato, compromesso gli impegni operativi necessari a
realizzare quanto predicato, spesso continuando a “predicare” entro la
palude, ma senza bonificarla.
In questo senso ho utilizzato il termine “regressive” per qualificare quelle
politiche pubbliche, piuttosto che l’attributo (certo più nobile) di
“conservatrici”. Il confronto politico sul modo di realizzare quel disegno e
riempirne le potenzialità di “costituzione materiale” può offrire
alternative di cultura politica conservatrice o progressista. Ritrarsi
dall’impegno, deviare le priorità, contenere il cambiamento semplicemente
lasciando operare l’esistente, significa invece, rispetto ad una realtà
storico-sociale-economica in veloce cambiamento, semplicemente “regredire”.
Lo strumento operativo
di tale regressione è stata la Pubblica Amministrazione. Attraverso la
rielaborazione più o meno sotterranea del tradizionale rapporto tra decisore
politico e decisore amministrativo teso a costituire il “compromesso”
implicito che ha segnato la storia del nostro sistema pubblico: potere senza
autonomia e autonomia senza responsabilità.
Si tratta di qualche cosa di più dell’ovvio meccanismo per il quale ogni
megastruttura organizzata tende prima di tutto a conservarsi, e che dunque
pensare di riformare la P.A. senza incidere profondamente nella sua
distribuzione di poteri interni, senza smontare rapidamente i meccanismi
cooptativi, e finanche senza rinnovamento generazionale, poteva essere una
illusione. Si tratta di qualche cosa di più radicato e specifico nella
nostra storia. Rimando alle analisi di Massimo Severo Giannini o di Sabino
Cassese. Uso solamente un esempio immediato.
Nel Palazzo di Viale Trastevere dove ha sede il MIUR, vi è una sala oggi
detta “dei ritratti” (un tempo vi si riuniva il Consiglio di
Amministrazione). Il lettore che abbia l’occasione di visitarla vedrà che
alle pareti sono appesi i ritratti a olio dei Ministri della Pubblica
Istruzione, da Casati (1860) a Gentile (1922-24). Coprono dunque un arco
temporale di circa 60 anni ( poi si smise di fare ritratti…). Nelle noiose
riunioni li contavo e ricontavo, perdendomene sempre qualcuno; ma sono oltre
50 (ultimi ricordi 54 ma qualche volenteroso potrebbe confermarmi).
Credo che se guardassimo ai dati dei periodi successivi anche del secondo
dopoguerra, sarebbe comunque confermata una realtà: non è “la politica” che
governa il sistema della pubblica istruzione e che ne garantisce la
continuità, (vedi la men che esigua durata media dei dicasteri) ma è la
burocrazia ministeriale. Per alcuni aspetti “per fortuna!!!” visto il mutar
dei volti della politica.
Finanche Giovanni Gentile che ha lasciato un “marchio indelebile” nella
scuola italiana rimase in carica solo tre anni.
Ma per altri aspetti…. Lo stesso filosofo, in alcune sue lettere, lamenta
più che vivacemente il fatto che il suo avere posto lo “studio della
filosofia” come architrave degli studi superiori del sistema di istruzione,
nelle mani della burocrazia ministeriale e della stesura dei “programmi”,
sia diventato/normalizzato, attraverso l’azione amministrativa, lo “studio
di storia della filosofia” (che, tuona il filosofo, è cosa ben diversa…).
L’idea iniziale della
autonomia scolastica (e l’entusiasmo che la accompagnò in quegli anni) era
proprio quella di “smontare” quella piramide di controllo e comando
presidiata dal paradigma culturale “amministrativo” e di liberare la cultura
“di prodotto” (didattica, pedagogia, ricerca educativa) e l’affermarsi dei
suoi criteri operativi (dalla autonomia organizzativa a quella fondamentale
di ricerca e sviluppo, alla sperimentazione curricolare).
Si vada al Regolamento e se ne rintraccerà l’impostazione da Legge 59/97: il
Ministero definisce con precisione materie e attributi che ad esso spettano
esclusivamente. Il resto all’autonomia (e conseguente responsabilità). Alle
scuole autonome si schiude un potenziale di esercizio amplissimo (ben più
ampio di quanto sappiano fare: ma si doveva innescare una intera fase
storica di “apprendimento istituzionale”).
Certo tale “apprendimento istituzionale” avrebbe dovuto coinvolgere non solo
le scuole e il loro popolo, ma la stessa amministrazione, in particolare
sulle capacità/possibilità/condizioni per costruire effettiva “padronanza”
degli strumenti operativi dell’autonomia: dalle risorse economiche (non
tanto la quantità, ma la padronanza d’uso), alla disponibilità del
personale, alla combinazione di tali fattori (risorse e lavoro) che
determina la effettiva strutturazione organizzativa.
Come sia andata in questi quindici anni, dopo i primi di entusiasmo e di
impegno, sappiamo… Proprio la definizione e sperimentazione di strumenti di
effettiva padronanza dei fattori di realizzazione dell’autonomia (risorse,
personale, sviluppo organizzativo), sono state il terreno del “recupero”
dell’amministrazione, mai fatto da dichiarazioni esplicite contro
l’autonomia (anzi!!!) ma di progressivi ostacoli e complicazioni
realizzative, del tradizionale impianto burocratico, della sua cultura
giuridico amministrativa, del riproporsi, anche sotto diverse cosmesi,
delle catene di comando tradizionali. Potremmo usare la ricostruzione delle
vicende delle strutture amministrative periferiche, in primis i tradizionali
Provveditorati agli Studi, come emblema di una transizione incompiuta ed
anzi soffocata (ricordate la “resistenza” anche esplicita dei Provveditori
ai primi “stati generali” della scuola?).
Né, ovviamente, le responsabilità sono tutte da una parte (gestire i
“passaggi” è una delle sapienze della politica, di non grande diffusione…);
né in questo passaggio le posizioni si sono delineate come univoche: quante
“improprie alleanze” tra la burocrazia ministeriale e alcune rappresentanze
politiche “corporative”…; quante coincidenze tra interessi immediati di
segmenti di lavoro dipendente e riproduzione di obsoleti modelli
amministrativi (si pensi alla “classificazione” formale del lavoro docente,
alle modalità di determinazione degli organici). Quali confusioni di
semantica tra proclamata difesa del carattere pubblico dell’istruzione e la
“targhetta di garanzia” costituita dal solo passaggio attraverso i tortuosi
sentieri del diritto amministrativo presieduto dal ceto amministrativo…
Ma, e qui è il problema,
proprio per queste ragioni una Ministra che rinnova l’impegno verso
l’Autonomia, sfida la mia pazienza di ascolto. Se appena comprende le
ragioni del processo di mortificazione dell’autonomia sedimentato in questi
quindici anni, sa che non vi è bisogno di dichiarazioni di intenzioni
politiche: ciascuna di esse sarà sempre un “già detto”.
Come da Costituzione, il Ministro è, congiuntamente, espressione di un
programma politico (il Governo) e “responsabile dell’amministrazione” ad
esso affidata. Si concentri su quest’ultimo aspetto, se anche solamente una
parte delle argomentazioni ricordate relative ai fallimenti di questi
quindici anni sono sensate. Il suo Governo sembra riproporre la lotta contro
la burocrazia e la riforma della Pubblica Amministrazione come orizzonti di
cambiamento. Ciascun Ministro, per il suo ruolo (costituzionale) ha un
diretto campo di esercizio di tale impegno, e, per tutti noi, un diretto
campo di verifica e controllo delle politiche pubbliche. Cominci dai suoi
direttori generali e dalle sue “strutture” periferiche.. e “lasci respirare”
le scuole.
Un’altra parola chiave
ha animato le dichiarazioni della nuova Ministra:
sussidiarietà.
Riproposta come valore fondamentale anche se declinata in particolare (ed è
particolare “sospetto”) come punto di ricongiunzione tra pubblico e privato.
Devo alla mia formazione paterna l’idea fondamentale (parziale..) che la
cittadinanza sia il compimento del percorso che porta l’individuo allo Stato
e che dunque quest’ultimo sia il “valore fondante” di riconoscimento. Son
passato attraverso stagioni politiche (ricordate “lo Stato si abbatte e non
si cambia”?) ed impegni nella “sinistra” in cui, in proposito si
confrontavano (almeno) due ispirazioni di fondo: la programmazione pubblica
e l’intervento dello Stato come garanzia del bene pubblico, e l’ispirazione
“consiliare” della “democrazia di massa”. (Due polarità del pensiero della
sinistra).
Potrei dire, oggi, che considero lo Stato come l’intelaiatura, la cornice
che ospita la dinamica reale della storia e della società (la cosiddetta
società civile) del confronto di interessi, speranze, impegni, individuali e
collettivi. Una “cornice” che non si limita a “regolare” tale dinamica reale
in modo che non travalichi i diritti, ma che, come fanno appunto le cornici
dei quadri, favorisca e valorizzi una comune semantica interpretativa dello
stesso “movimento reale”; sottolinei i significati comuni che la dinamica
reale, storica, economica, culturale, rielabora e falsifica.
E, se di cornice si tratta, nulla di eterno ma “perimetro” permanentemente
sfidato dalla stessa dinamica reale della storia e della società. Non una
“etichetta” che incollata a qualunque “prodotto” ne garantisce il carattere
“pubblico”; non un principio “ontologico” ma un quadro “operativo” entro il
quale si confrontano significati, criteri, scelte, alternative, convenienze.
Certo è assai più semplice e meno impegnativo politicamente, o comunque
richiede input inferiori di pensiero critico utilizzare due semplici
categorie contrapposte come “pubblico” e “privato”. E il rilievo circa la
rudimentalità del pensiero vale sia su un versante (l’ontologia del
pubblico) sia sull’altro (la convenienza del privato).
Ovviamente la questione del rapporto tra Stato e Società civile è in sé
assai più complessa e ha, nel caso del nostro Paese, specificità da cui non
è possibile prescindere. A scanso di semplificazioni e pur non potendo
esplorare tale complessità, ricordo che agli effetti pratico-storici, le
stesse categorizzazioni di “statalismo” e “societarismo” non sono esaurienti
a descrivere la realtà. Occorre invece rideclinarle almeno versus una
seconda coppia di descrittori che classifica i caratteri della “pedagogia
pubblica” che si invera entro entrambi i poli della prima coppia. Insomma ci
si provi a riempire una matrice che porta su un asse la coppia “statalismo”
e “societarismo” e sull’altro asse la coppia “pedagogia emancipatrice” e
“pedagogia stabilizzatrice”. Le “celle” della matrice ci potrebbero
restituire esempi storici concreti e strumenti analitici per esplorarli. Per
esempio, nella sua tradizione, lo “statalismo” francese è segnato da una
missione emancipatrice; lo statalismo bismarkiano da una missione
stabilizzatrice. Guai se leggessimo le due esperienze storiche con il
medesimo metro…
Così: il societarismo “americano” ha carattere emancipatorio nel suo
radicarsi sulla cultura delle libertà individuali; il societarismo
britannico e più ancora quello nordico hanno spesso carattere e motivazioni
stabilizzatori.
Lascio ai lettori l’esercizio di qualificare e specificare lo “statalismo”
italiano” entro tale matrice…Voglio solo richiamare il fatto che nella
nostra tradizione la stessa autonoma capacità di auto organizzazione della
società civile (il “societarismo” italiano) è segnata storicamente dalla sua
affinità e contiguità con la politica. Il “volontariato” delle
organizzazioni cooperative, mutualistiche nella nostra storia e sempre
veicolo dello schieramento politico. Sia che si tratti delle cooperative
rosse sia che si tratti di quelle bianche, o che si tratti
dell’associazionismo e delle “opere di bene” della Chiesa, il legame con la
dimensione politica fu storicamente consolidato, e forse solo oggi è in via
di disarticolazione.
Certo, le prime trovarono proprio nel nesso politico e nella mediazione con
la “Sinistra” sia le condizioni per divenire “sistema”(si pensi alle
“regioni rosse” del centro Italia) e trovare inserimento nella “cornice”
(vedi sopra), superando il carattere di “antistato” originale. Più difficile
il cammino delle seconde: il legame con la struttura sotterranea del potere
politico (il “sistema” democristiano) e non con la “cornice” dello Stato,
ne lasciò irrisolta la originale vocazione “antistato” (radicata fin dagli
esiti del nostro Risorgimento). E la destrutturazione di quel sistema di
potere legato al mondo politico cattolico ha lasciato “l’antistato” senza
rappresentanza e mediazione politica (si veda per es. la distribuzione
geografica e sociale della Lega Nord).
Ma oggi siamo di fronte
a grandi processi di cambiamento anche nei caratteri della auto
organizzazione della società civile; e l’uso di categorie semplificate come
“pubblico” e “privato” rischia di non farcene cogliere le potenzialità
innovative. (Ribadisco nuovamente: il rischio di rudimentalità nell’analisi
è ripartito sia sul primo che sul secondo fronte, sia sulla opacità
potenziale dell’uso di classificazioni come quella, per altro inevitabile,
di “terzo settore”)
Tutto ciò sembra potersi riassumere e condensare nella parola
“sussidiarietà” di cui si fa grande uso (vedi le dichiarazioni della
Ministra).
Sono legato ad una definizione di sussidiarietà, nel rapporto tra Stato e
società civile, che ne dava Delors; diceva, in buona sostanza, che la
sussidiarietà consiste nel fatto che lo Sato (o un Ente superiore) si
astiene nell’intervenire su una comunità locale (o un organismo
“decentrato”) quando questi siano in grado di risolvere da sé i loro
problemi; ma consiste anche nel fatto che lo Stato si impegni a fare in modo
che essi diventino capaci di risolverli.
Il valore della sussidiarietà ha dunque, in tale definizione, un
fondamentale riflesso “operativo”. Si misura cioè con il carattere dei
problemi che una comunità sa “risolvere da sé”. Si misura dunque sia con la
“dimensione” di tali problemi, con il loro perimetro, sia con la loro
“composizione tecnica”. Potremmo fare centinaia di esempi: un Comune di 10
mila abitanti può ragionevolmente affrontare e risolvere il problema di
costituire un presidio sanitario locale per pronto intervento o per
prevenzione; non può, pena il fallimento e costi esorbitanti, affrontare da
sé il problema di laboratori diagnostici di grande levatura tecnica o la
cura di patologie gravi. Economie di scala e economie di composizione
tecnica contano nel dare sostanza al valore della “sussidiarietà”.
Rimarchevole scarto
concettuale identificare la sussidiarietà con il problema del riconoscimento
dei diritti di impresa, del sistema di garanzie pubbliche alle quali devono
comunque rispondere anche le iniziative private nel campo dei servizi
pubblici.
Non è problema di ideologie. Come la si pensi sulla libertà di impresa, è
comunque assolutamente improprio in proposito richiamare il principio di
sussidiarietà.
Nella scuola e nell’istruzione esempi evidenti: la realtà è come sempre
buona fonte di falsificazioni. Come spiegare per esempio il fatto che la
presenza di istruzione non statale decada proprio nei settori dove più
consistente è la composizione tecnica necessaria ad erogare il servizio di
istruzione? (vedi l’esiguità di scuole private nell’istruzione tecnica,
l’assenza di università private nelle facoltà scientifiche o in quelle di
ingegneria ecc..) In questi settori la capacità di risolvere “da sé”,
localmente, su base di iniziativa autonoma i problemi relativi si stempera
proprio nei caratteri dimensionali e di intensità di capitale richiesti.
La
legge sulla parità è
una legge equilibrata, rigorosa. Contrassegna le condizioni per le quali
una iniziativa in campo di istruzione abbia il riconoscimento di “carattere
pubblico”.
Di nuovo il vero problema è la sua applicazione attraverso la mediazione
amministrativa. Esperienza diretta sul campo di chi (quorum ego) ha fatto
l’ispettore e si è trovato di fronte al compito “pratico” di rinnovare la
parità a tante scuole.
Potrei raggruppare la casistica concreta in quattro esempi. Il primo sono le
scuole per l’infanzia in certi comuni dell’appennino marchigiano dove il
Sindaco “comunista” perorava la permanenza della piccola scuola paritaria
gestita dalle monache: unica condizione “politica, pratica, amministrativa,
economica” per garantire il servizio alla piccola cittadinanza. Il secondo è
il rettore del Collegio dei Salesiani (Salesiani e Gesuiti hanno insegnato
ad insegnare a tanti..) che ospita un liceo in una antica e prestigiosa sede
(costi di impianti fissi abbondantemente ammortati) e mi mostra un CD di un
corso di formazione per i loro dirigenti, con un applauditissimo intervento
di Fausto Bertinotti. Il terzo è un Istituto paritario che lavora con “gli
scarti” del sistema statale: i ragazzi che la scuola “pubblica” seleziona,
abbandona, non è capace di “recuperare” non ostante le dichiarazioni e gli
impegni: certo vi è molto da discutere nel rinnovare quel riconoscimento di
parità; ma certo se la scuola di stato mantenesse davvero i suoi impegni,
quella scuola paritaria semplicemente non avrebbe “clienti”. Il quarto è lo
scandalo dei diplomifici, del salto di anni, delle idoneità fasulle… Affari
fatti attraverso tutte le maglie di una normativa, ma soprattutto attraverso
le “interpretazioni mirate” della norma in chiave di regole applicative.
Quante relazioni ispettive alla fine degli Esami di maturità, a mettere in
luce gli aspetti deteriori di queste “interpretazioni”… Alla fine alcune
cosa sono effettivamente cambiate, ma la fenomenologia relativa è tutt’altro
che scomparsa.
Quattro tipologie: il giudizio critico è il medesimo? E riassumibile nelle
dichiarazioni di principio “binarie” tra pubblico e privato (su qualunque
polo ci si schieri..)? Questa è la realtà, complessa come sempre, che
l’impegno politico serve a modificare. Se tale impegno è invece dedicato a
dimostrare “chi ha ragione” attraverso colpi di referendum, il prodotto
finale è solo una “ringhiosa frustrazione” (mi esimo da esempi fin troppo
numerosi e disponibili).
Nel mio lavoro sul campo
(da ispettore/controllore della applicazione dei principi della “parità”)
due sono stati gli elementi di “paziente realismo”. Il primo è la
considerazione che in un paese imprigionato nel Diritto Amministrativo, il
problema della parità sta nelle procedure di concessione… Toglierla, per
effetto di una visita ispettiva, una volta concessa è impresa di scalata di
un Everest sulla cui cima “siede” un TAR. Il secondo è la considerazione
che, come in tutte le spy stories che si rispettano, bisogna tenere conto
che “la spia, il traditore” dove mai si trova, se non nel “quartier
generale”?
E qui torniamo alle parole della Ministra. A parte il sommesso suggerimento
di più pertinente rigore nell’uso di alcune categorie di pensiero (vedi
sussidiarietà), mi permetto due inviti: il primo è di dare una occhiata da
vicino agli esiti delle rilevazioni INVALSI, prima di declarare la bontà dei
risultati delle iniziative di istruzione paritaria, per discriminare almeno
con analiticità comparabile a quella che applichiamo sulla scuola di Stato.
Altrimenti, sui grandi numeri e sugli aggregati, i dati INVALSI testimoniano
esattamente il contrario.
Il secondo: se, spunti polemici a parte, quanto sopra ha almeno un tratto di
verità, soprattutto per quanto attiene alla esperienza sul campo, prima di
parlare assennatamente di parità occorre francamente fare pulizia nelle
modalità applicative della legge di parità, soprattutto nella “concessione”
prima ancora che nel “controllo” successivo. Torniamo alla “provocazione”
precedente sulla “spia nel quartier generale”: i direttori generali, i
dirigenti amministrativi che in questi anni si sono succeduti nelle
responsabilità di gestione della parità hanno nomi e cognomi e sedi di
servizio… Fanno parte della amministrazione di cui è ultima responsabile la
Ministra.
Buon lavoro.