23.10.2013
Elogio del paradosso
(Didattica per
competenze, una possibile via d'uscita)
di Ariella Bertossi
Spesso
nel vivere quotidiano eventi incomprensibili e difficilmente giustificabili
si parano davanti ai nostri occhi. Qualcuno preferisce chiamarli
incongruenze, qualcuno assurdità, altri ancora “il colmo”: in ogni caso che
nella vita tutti giorni ci si trovi davanti a frequenti paradossi è
innegabile.
Accade però a volte che tali situazioni si possano ritrovare anche nel mondo
della scuola, dando al tutto una caratteristica ancora più “paradossale,
poiché dalla scuola tutti si aspettano congruenza e linearità di processi.
A tale proposito ripenso a quando, trasferita in Svizzera, ho iscritto i
miei figli alla scuola primaria italo-tedesca di Zurigo. Dopo il secondo
giorno di lezione la maestra di italiano, un altoatesina il cui
nome poteva essere simile a Ruth Hofenbach mi fermò e, con un
italiano alquanto traballante e che facevo fatica a comprendere, mi
consigliava di sottoporre mio figlio a delle sedute di logopedia poiché il
suo tedesco era incomprensibile.
Immaginate il mio sgomento di fronte a questa affermazione. Posto che mio
figlio in tedesco non sapeva neanche contare, non osavo pensare a chissà
cosa avesse potuto mai dire in tedesco dopo due giorni e aggiungendo il
fatto che pronuncia l’erre “moscia” come tutti i maschi di famiglia, sono
rimasta comunque sconcertata di fronte ad una docente di italiano che mi
parlava della pronuncia di un bambino mentre la sua, di docente, era
pessima. Paradosso…
Poniamo ora di possedere una macchina che debba essere sottoposta alla revisione prevista per legge. Ci rivolgiamo al meccanico abilitato che rilascerà l’attestazione e gli chiediamo di effettuare tutte le manutenzioni necessarie perché la macchina sia dichiarata idonea. Il meccanico svolge diligentemente le riparazioni del caso, ma mettiamo che, al momento del rilascio del certificato, ci dica che la macchina non ha superato la revisione. Ognuno di noi reagirebbe in maniera diversa, ma da tutti la cosa sarebbe percepita assurda: una situazione simile non è giustificabile.
Ebbene nella scuola paradossi simili avvengono ogni anno. Mi riferisco al fenomeno della bocciatura. Definisco tale situazione un paradosso perché uno studente preparato ed “allenato” per tutto l’anno scolastico da un team di docenti, da quello stesso team alla fine dell’anno scolastico può non essere giudicato idoneo, non superare la revisione insomma. Tutto ciò genera imbarazzo quando avviene nella scuola primaria, ma nella scuola secondaria, invece, è diventato un fenomeno tollerato e giustificato. Altre volte si arriva definire di qualità una scuola selettiva, rendendo gli istituti più “severi” quelli gettonati da un utenza convinta che “selezione” coincida con “qualità”. L’elogio del paradosso, dunque.
Sebbene tutte le indagini Ocse Pisa e altri sondaggi sostengano che bocciare è inutile, gli insegnanti continuano in questo tipo di pratica senza porsi veramente dalla parte dell’alunno che essi stessi avrebbero dovuto preparare, per la formazione e il successo del quale essi sono tenuti, anche contrattualmente, ad impegnarsi. La giustificazione data è che alcuni studenti non raggiungono quegli obiettivi che gli insegnanti decidono debbano essere raggiunti sulla base di determinate osservazioni, per la normativa, per i quadri comuni di riferimento e per paura dei sondaggi Invalsi che poi si abbattono come una scure sulle scuole classificandole in più o meno virtuose.
“Secondo la classifica Pisa
(2011) - che valuta i sistemi educativi nell'area Ocse - più di uno studente
su dieci (il 13%) è stato bocciato almeno una volta nel suo percorso di
studio. Il 7% alle elementari, il 6% alle scuole medie e il 2% al liceo.
L'Italia si colloca appena al di sopra della media Ocse, con una percentuale
di allievi bocciati del 18%. I ricercatori danno inoltre un giudizio
negativo su un'altra pratica comunemente utilizzata per trattare gli
studenti che vanno male a scuola, o hanno un comportamento inadeguato: il
trasferimento in altre strutture scolastiche. Un metodo che, scrivono,
"tende ad essere associato con una segregazione nel
sistema scolastico, in cui gli studenti che provengono da contesti
avvantaggiati finiscono in scuole con risultati migliori mentre quelli di
origini svantaggiate finiscono in scuole peggiori".
Condannando la pratica delle boccature poiché inutile, l'
Ocse raccomanda anche maggiore elasticità da parte dei dirigenti scolastici
sulla valutazione di fine anno, in base a criteri meno rigidi. Laddove i
presidi hanno infatti più autonomia nel decidere la promozione, spesso
vengono agevolati percorsi di accompagnamento che incentivano gli alunni più
in difficoltà” (da “La Repubblica 26 luglio 2011). I docenti insorgono di
fronte a questi argomenti, da un lato non accettando la pratica buonista del
6 politico poiché sostenengono che la bocciatura risponde anche ad un
concetto di giustizia, naturale conseguenza per chi non si è impegnato,
dall’ altra continuando a sostenere che sono gli alunni a non adeguarsi a
quanto proposto.
“Dal punto di vista sociale, inoltre, bocciare costa. Oltre a non garantire il progresso educativo, far ripetere un anno scolastico pesa sui bilanci dell'Istruzione pubblica, proprio in un momento di crisi economica e tagli alle scuole. Ogni bocciatura, hanno calcolato gli esperti dell'Ocse, costa in media tra i 10 e i 15 mila dollari annuali. In paesi come la Spagna, il Belgio o l'Olanda, i "ripetenti" incidono sul 10% del budget complessivo per l'educazione. Un altro effetto di lungo termine, registrato dall'Ocse, è il ritardato ingresso dello studente nel mondo del lavoro e la diminuzione di manodopera qualificata. Se le bocciature si ripetono nel ciclo scolastico, gli alunni tendono ad abbandonare lo studio, già prima del diploma. Un fallimento. Non solo per loro.” (cit.)
Dove sta l’inghippo? Dov’è dunque la falla? Come mai un sistema istituzionale che dovrebbe formare ed istruire ad un certo punto fallisce e non raggiunge l’obiettivo previsto? Certamente c’è la matrice individuale: per fortuna gli essere umani non sono macchine da revisionare e ogni persona può rispondere in modo diverso alle stimolazioni, a volte anche rifiutandosi di imparare.
Una soluzione al paradosso
però deve essere trovata, non ci si può infatti più permettere che
l’investimento sull’istruzione che ogni stato promuove non produca i
risultati sperati.
Il cambiamento di prospettiva non è facile da comprendere, ma in effetti è
talmente semplice quanto disarmante. Si chiama didattica per competenze. I
nuovi orientamenti pedagogici prospettano infatti una metodologia che,
invece di insistere sulla trasmissione di contenuti che trova risposta solo
in una fetta della popolazione, punti sullo sviluppo di risposte che
potremmo definire “pratiche”, cioè il possesso di determinate competenze.
Che cosa esse siano dovrebbe essere ormai ben noto a tutti i docenti, ma
come in definitiva si possa passare al loro sviluppo non è ancora ben
chiaro. La didattica per competenze prevede che il lavoro dell’insegnante
non si esaurisca in una lezione classica volta all’imbonimento di conoscenze
da parte di studenti che le ripeteranno per il tempo necessario a ricordarle
e poi finiranno nel dimenticatoio. Le conoscenze, importanti e necessarie in
tutte le discipline, devono essere completate con la padronanza di
determinate competenze, cioè del saper veramente usare quelle conoscenze
dimostrando di aver compreso e sapendo traslare i contenuti applicandoli in
altri contesti. La prospettiva quindi non sarà più quella di valutare quanto
un ragazzo sa, ma quanto sa fare.
Pensiamo a quanto ognuno di noi ha imparato durante gli anni della crescita,
all’interno delle proprie famiglie. Sicuramente i genitori avranno
raccontato, insegnato, trasmesso idee ed insegnamenti, ma gran parte delle
conoscenze si sono tradotte in comportamenti pratici. La mamma che vuole
insegnare ad un bambino ad allacciarsi le scarpe non inizierà mai a dire
“prendi una spighetta con la mano destra e fanne un cappio, ecc”, ma avrà
fatto vedere come si fa, facendo ripetere l’esercizio varie volte finchè
ognuno di noi non è riuscito, con somma soddisfazione, a fare il proprio
fiocco: così siamo diventati competenti con i lacci delle scarpe. Non si
comprende perché invece nella scuola, soprattutto in alcune materie,
l’insegnamento sia così astratto da ridursi solo in conoscenze, tralasciando
completamente la sua utilità sul piano pratico.
Tutti i docenti della scuola
italiana già da qualche anno sono tenuti a certificare le competenze
raggiunte dai propri alunni alla fine di alcune tappe del percorso
scolastico. Ora la normativa lo prevede, ma perché tale certificazione non
si riduca ad un mero formalismo burocratico, il lavoro da fare è molto. Gli
insegnanti non sanno ancora lavorare per lo sviluppo delle competenze,
soprattutto quelli che dicono di averlo sempre fatto. Si tratta di
capovolgere la prospettiva e ragionare in termini diversi, strutturando le
prove di verifica in modo nuovo, per poter valutare veramente quanto è
passato del loro insegnamento.
Per quanto io non apprezzi il sistema scolastico svizzero, devo dire che
riguardo a questo aspetto i docenti svizzeri erano ben abituati a tale tipo
di operatività. Durante i tirocini che ho potuto seguire, ho visto maestri
che entrando in classe scrivevano alla lavagna che cosa e come avrebbero
imparato gli alunni durante quella lezione, i contenuti, in che modo
sarebbero stati valutati, nonché come sarebbero state recuperate le carenze.
Una didattica per competenze non ammette fallimenti. Un alunno potrà
possedere la determinata competenza in livelli diversi: base, intermedio o
avanzato, ma non potrà non essere competente del tutto perché in quel caso
vorrebbe dire che la didattica non è stata strutturata nel modo corretto.
Sono da prevedere tutte le strategie perché ogni individuo si impossessi del
saper fare almeno a livello base, poiché l’interesse sociale e la valenza
dell’insegnamento deve produrre individui che siano inseriti in una società,
la quale chiede appunto il traslare nella pratica quanto è stato
interiorizzato: la fine dell’accademia.
Il modello di
certificazione delle competenze proposto in questi mesi dal MIUR si rifà
alle competenze chiave di cittadinanza europea, esse sono:
comunicazione nella madrelingua, comunicazione nelle lingue straniere,
competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia,
competenza digitale, imparare ad imparare, competenze sociali e civiche,
senso di iniziativa e imprenditorialità, consapevolezza ed espressione
culturale. Se le prime quattro sono riportabili in maniera generale alle
conoscenze e certamente si potrebbero dare quasi per scontate (ma tanto
scontate non lo sono) le ultime quattro sono meno intuitive. Ad un individuo
che si sa esprimere correttamente nella propria lingua e in lingua
straniera, che da nativo digitale padroneggia il linguaggio informatico,
quello scientifico e matematico e che si inserisce correttamente all’interno
di una società viene chiesto anche di porsi, alla luce della mobilità della
conoscenza, in continua formazione diventando il tutor di se stesso, per
attivare la propria iniziativa e l’imprenditorialità in un mondo che chiede
tutta la flessibilità possibile ai giovani in cerca di impiego. Certificare
tali tipi di abilità con una verifica di storia sui contenuti della “Prima
guerra mondiale” certamente non sarà possibile. Ciò non significa che
saranno banditi tutti i tipi di test conoscitivi, ma alla fine del suo
percorso la scuola dovrà aver trasmesso ben oltre alle conoscenze.
Nelle prove per competenze i ragazzi meno studiosi spesso raggiungono risultati migliori e nei test di accesso all’università gli alunni con i punteggi più alti della scuola superiore spesso non riescono ad entrare, soppiantati da ragazzi meno studiosi, ma più competenti. Infatti all’università sempre più spesso le prove richiedono una preparazione ad ampio spettro, per selezionare non soltanto gli alunni diligenti, ma le menti più fresche e sveglie, che hanno già imparato, ma purtroppo non sempre grazie alla scuola, ad applicare quanto raggranellato qua e là.
Tutto ciò getta nello sconforto quei ragazzi che per il loro impegno si sono visti sempre premiati nella scuola, ma non in un mondo dominato dalla logica economico- produttiva che schiaccia il più debole con molta facilità. Le Università selezionano i loro iscritti con dei parametri che non coincidono con quelli della scuola secondaria, fino a quando non ci si adeguerà e non si comprenderà che la scuola non si può più considerare un viaggio su binari paralleli rispetto alla società.
Per ultima cosa vorrei affrontare il discorso della motivazione. Per troppo tempo il riuscire o meno a scuola è coinciso con la capacità di saper esporre determinate conoscenze, saper risolvere determinati quesiti, produrre disegni e così via nelle varie discipline. Lo studente modello che si prefigurava uscito da un tipo di scuola prevedeva determinati requisiti da classificare con un voto finale. Ciò è stato terribilmente frustrante per quella parte di ragazzi che, per tutti i motivi che la sociologia e la psicologia hanno analizzato, non sono riusciti a dare quanto la scuola chiedeva loro. Ora la società non ha bisogno solo di liceali più o meno bravi nel fare i compiti, ma di individui completi che, pur possedendo competenze a livelli diversi, possano inserirsi nel mondo produttivo. Quante volte il ragazzo che a scuola non combinava niente è diventato un ottimo lavoratore, magari più di successo del primo della classe? Ha dovuto attendere però il lavoro per il proprio riscatto sociale perché dalla scuola non era stato dichiarato idoneo. Ecco, credo che la scuola non possa permettersi la dispersione che ogni anno crea, mettendo ai margini chi non riuscendo a produrre conoscenze, automaticamente viene bocciato. La didattica per competenze può essere una risposta anche alla motivazione per tutti i ragazzi che nella scuola spesso non vedono la risposta alle loro domande..
Concludo dicendo che forse sarebbe utile che tutti coloro
che operano nella scuola non fossero più solo insegnanti, ma diventassero
finalmente educatori. C’è infatti una profonda differenza tra le due
categorie, perché per insegnare basta conoscere, per educare è necessario
essere, con tutto ciò che ne consegue.