16.03.2014
La fine
dell’Eden?
(a proposito di BES)
di
Ariella Bertossi
In
seguito ad una recente conferenza tenuta dal DS prof. Stefanel inerente la
tematica dei Bisogni Educativi Speciali, faccio alcune considerazioni.
La categoria dei cosiddetti BES comprende tutti quei soggetti che, per un
motivo e per l’altro, necessitano di un piano particolare per essere
accompagnati a raggiungere gli stessi traguardi dei compagni. All’interno
della “categoria” alcuni di essi si trovano in virtù di una certificazione
di disabilità, oppure poiché sono stati riscontrati dei Disturbi Specifici
di Apprendimento. Per diversi alunni però, pur non avendo alcuna
documentazione che giustifichi una didattica personalizzata, la scuola
rappresenta comunque una grossa difficoltà. La normativa pone in mano ai
consigli di classe, collegi docenti, alle scuole in generale il potere d’
azione per la loro gestione: dall’individuazione alla strategia didattica.
E’ proprio per questa tipologia di discenti che maggiori sono i problemi. Se
infatti una struttura rilascia delle certificazioni di qualsivoglia genere,
la scuola ne prende atto e giustifica un intervento differenziato, ma di
fronte ad alunni che non presentano nessuna motivazione imputabile a
disturbi diagnosticabili, l’imbarazzo è grande. Non è semplice infatti
stabilire chi e perché possa essere definito un BES, poiché si teme, nella
pratica, di agire non in conformità di legge, privando magari di percorsi
che l’alunno potrebbe percorrere, ma che invece poi di fatto non segue. Chi
mi garantisce in pratica, che Pierino non sia un lazzarone svogliato, ma un
bambino in difficoltà per il quale mi devo adoperare creando un percorso
particolare? Nessuno. Ma…
Di fronte alle difficoltà che i docenti non si sanno spiegare, la spinta ad
indirizzare le famiglie verso le aziende sanitarie a volte è grande. Di
fatto però le certificazioni di disabilità o DSA non risolvono
didatticamente il problema, ci dicono soltanto in cosa consiste la
difficoltà, sono poi i docenti che elaborano il piano di intervento
didattico. Ma per gli alunni che comunque non riescono per qualche motivo a
lavorare come si spererebbe, che cosa cambia? Chi, se non l’insegnante che
ogni giorno segue l’alunno in classe, può essere in grado di valutare o
capire se Pierino sia un Bes o no? Nella norma sta la responsabilità, ma
anche la professionalità dei docenti. Sono dunque essi a decidere chi debba
avere un piano diverso dallo standard che “qualcuno” ha stabilito ci debba
essere.
Ora, se la normativa mette in mano questa scelta alle scuole, è bene
certamente che le scuole al loro interno abbiano dei criteri comuni di
individuazione, poiché altrimenti si rischierebbe di creare delle isole con
pratiche didattiche non condivise. In generale, di fronte ad uno scarso
rendimento scolastico dovrebbe scattare un campanello d’allarme: sono
presenti degli ostacoli esterni all’alunno che gli impediscono una sua
completa formazione? Se vengono individuati, allora è bene che l’alunno
possa venir messo sullo stesso piano dei compagni, alleggerendo il peso del
gap e superare le difficoltà incontrate. Perché un BES potrebbe avere dei
problemi socio economici, assistenziali, linguistici che non è detto
rimangano tali per sempre, ma che la scuola deve poter considerare. Si parla
di bambini dunque che potrebbero essere “bravi”, ma che non lo sono per
cause che un consiglio di classe individua come impedimenti al pieno
sviluppo delle potenzialità e quindi li accerchia con una metodologia
didattica condivisa anche con la famiglia. Tutto qui: creo per te un
percorso diverso perché il tuo percorso personale in questo momento è
diverso per determinati motivi.
Se però noi prendiamo in mano le Nuove Indicazioni, alla voce CULTURA SCUOLA PERSONA - La scuola nel nuovo scenario - si legge:
• Le trasmissioni standardizzate e normative delle conoscenze, che comunicano contenuti invarianti pensati per individui medi, non sono piu' adeguate. Al contrario, la scuola e' chiamata a realizzare percorsi formativi sempre piu' rispondenti alle inclinazioni personali degli studenti, nella prospettiva di valorizzare gli aspetti peculiari della personalita' di ognuno.
Allora la questione si complica, poiché quanto
sopra pone l’accento sul fatto che la scuola, di fronte ad una società
“multi” in tutto non può più creare categorie né per origine, né per lingua,
per reddito o composizione familiare, data la diversità di ogni gruppo
sociale. E’ necessario quindi superare il concetto di lezioni standard
poiché lo standard non esiste più. Non esiste lo studente medio su cui
tarare la lezione e alla quale tendere perché non esiste il cittadino medio,
esiste la persona, unica insostituibile e soprattutto diversa, così come
deve essere dunque la nuova didattica. Che dire poi delle eccellenze? Non
sono anch’esse diverse, da considerare alla stregua dei BES?
E’ dunque fine dell’Eden di una sicurezza che dettava un’unica prassi per un
cittadino medio per ritrovarsi nell’inferno di classi-somma di mille
individui diversi?
Come si può fare nella pratica per sopravvivere, non affogare e soprattutto
riuscire ad essere efficienti ed efficaci?
Guardiamo come si lavora all’infanzia. Spesso le classi sono
eterogenee per età e la diversificazione didattica è costante. La maestra
non ha una postazione dalla quale parlare o fare lezione. Ci sono le
posizioni dei banchi e delle zone delle sezioni organizzate in modo che i
bambini possano ruotare e fare attività diverse all’interno della stessa
ora, così ognuno viene rispettato nei propri tempi. Il passaggio alla
primaria è troppo violento, certo la pressione è maggiore perché ci sono
delle tabelle di marcia da mantenere: ci si aspetta infatti che i bambini
imparino a scrivere, a leggere, a contare, ad orientarsi, ad usare il pc e
molto altro ancora.
Se i contenuti devono essere diversi, dobbiamo pensare che anche la classe
tipo non esista più, che i nostri bambini multietnici, multiproblematici,
diversamente abili, DSA e BES siano ognuno un tesoro da scoprire, non un
problema da risolvere, ognuno di essi.
Il lavoro è impegnativo perché certamente prevede una plasticità e
flessibilità mentale in linea con la velocità della conoscenza odierna, un
lavoro di preparazione non indifferente e costante. A tal fine si conviene
che la collaborazione e la creazione di banche dati, piattaforme sia un
valido aiuto, ma non necessariamente deve essere incrementato il numero
degli insegnanti, di pc, o LIM: la personalizzazione è questione di metodo,
non di risorse. Vedo nella collegialità costante e vera il mezzo migliore,
anzi l’unico per un’impostazione didattica di questo tipo.
Ritengo che l’insegnamento non sia da considerare un lavoro, ma
un’esperienza. L’orario di servizio è inferiore rispetto a quello di
qualunque altra categoria, si presuppone infatti che oltre il lavoro in
classe sia necessario molto altro tempo per completare la preparazione dei
materiali: certamente c’è da tirarsi su le maniche. Oggi come non mai sempre
più la lezione va preparata tenendo conto dei mille imprevisti che ci si
presentano e soprattutto delle persone che compongono le nostre classi,
tutte diverse, come devono essere i nostri lavori da proporre. Lo so che la
maggior parte dei docenti dedica già molto tempo alla predisposizione delle
lezioni, ma ora le variabili sono aumentate ed è necessario prenderle in
considerazione. Non c’è più una lezione da preparare, ma una serie di
stimoli differenziati, vari e diversi, una sorta di “serbatoio” da cui
riuscire ad attingere in continuazione per stare dietro ai ritmi dei nuovi
alunni. Non si lavora solo in classe e lo si deve far capire anche alla
società: solo allora la dignità della professione potrà finalmente
riprendere vigore e la valenza dell’azione educativa sarà di nuovo
riconosciuta e rispettata.
Quindi? Tutto ciò che non è proibito della legge si può fare: creiamo
sperimentazioni, confrontiamoci, proviamo a mescolare gli alunni in gruppi
trasversali e vedere se in modi di lavorare diversi le situazioni vengono
sanate…
“In Germania alla fine degli anni settanta troviamo tra le innovazioni
scolastiche il movimento cosiddetto dei laboratori didattici. Coloro
che sostenevano questa innovazione consideravano l’apprendimento non come il
prodotto di un processo di insegnamento, bensì come un processo in cui
l’apprendente si attiva facendo direttamente delle esperienze. Per
predisporre un laboratorio servono di solito due ambienti, di dimensioni
identiche a due classi e un corridoio. Gli “attrezzi”, costituiti da
materiali di lavoro e materiali per l’apprendimento, sono disposti su
scaffali o su dei tavoli. Le schede sono varie e differenziate come
tipologia. Ne fanno parte sia materiali didattici più tradizionali quali
libri, cassette per fare esperimenti, carte, CD, oggetti vari, sia giochi
didattici sotto forma di schede, puzzle, carte da gioco, raccoglitori di
schede o memory didattici, sia infine materiali per il “fai da te” con
colori, colla, carta, cartone, giornali, legno, metallo, chiodi, filo di
ferro ecc. Come si vede sono materiali di apprendimento e di lavoro che
invitando ad agire attivamente. Esistono, per esempio, l’angolo della
lettura, l’angolo del computer, l’angolo dei materiali sensoriali, l’angolo
per dipingere o modellare, quello per la musica e per la recitazione, un
angolo per la matematica e uno per le lingue, infine l’angolo per fare
costruzioni e lavori manuali nonché quello per gli esperimenti di scienze
naturali. Il laboratorio didattico tiene conto dei più recenti sviluppi
della ricerca sull’apprendimento/insegnamento, che sottolineano la
differenza tra l’insegnamento come attività del docente e l’apprendimento
quale attività dell’alunno.
In base a ciò l’insegnamento non porta automaticamente e in modo lineare
all’apprendimento, la ricezione dell’insegnamento si deve distinguere dal
processo di assimilazione di un determinato contenuto disciplinare. Tutto
l’apprendimento è un processo di costruzione individuale. La persona
apprende in modo attivo, coinvolgendo tutti i sensi, in base ad offerte e
stimoli didattici che gli vengono messi a disposizione o che sono presenti
nel suo ambiente di apprendimento. Il successo dell’apprendimento dipende
dalla disponibilità e dalla capacità dell’alunno di rapportarsi ai compiti
didattici in modo attivo e responsabile.
La scuola ha il compito di avviare le generazioni future alla cultura
tradizionale e di attivare in loro processi di sviluppo e di adattamento
alle nuove sfide che la società pone. A tale scopo gli alunni devono
condividere le proprie esperienze con altri, ma devono anche sviluppare
percorsi autonomi con attività personali. L’offerta formativa è rivolta
quindi verso l’imparare ad imparare, la produzione di idee personali,
la ricerca di diverse soluzioni ad un quesito e lo sviluppo del pensiero
creativo.
Per questa ragione le modalità didattiche ottimali sono quelle
dell’insegnamento aperto, in contrasto con l’insegnamento chiuso, diretto
costantemente dall’insegnante. Per insegnamento aperto si intende una
concezione didattica che dal nuovo concetto di apprendimento trae quattro
importanti deduzioni:
i contenuti dell’insegnamento si devono orientare alle esperienze, alle tematiche e ai problemi dell’ambiente immediatamente vicino all’alunno;
il metodo si deve aprire alle forme di insegnamento aperto, al lavoro per progettazione settimanale, al lavoro con gli esperti, al lavoro orientato ai materiali, al circuito di apprendimento/altraining per tappe o stazioni, ai progetti, alle escursioni o visite guidate ecc. Si deve tener conto dell’eterogeneità degli alunni. La proposta di attività si orienta quindi al problem solving, all’autonomia dell’apprendente, all’autoriflessione e alla cooperazione;
l’insegnamento si deve aprire dal punto di vista organizzativo e superare il rigido schema orario dei 45/50 minuti a favore di un insegnamento “epocale”, di un insegnamento interdisciplinare che superi la scansione rigida della mattinata scolastica; inoltre è necessaria un’apertura organizzativa dell’insegnamento e della scuola in genere verso l’ambiente sociale e verso altre istituzioni comunali e pedagogiche;
l’insegnamento
deve diventare più aperto sotto l’aspetto personale, cosa che richiede
un cambiamento del ruolo dell’insegnante (insegnante come risorsa)."
[estratto da LABORATORI DIDATTICI (laboratori pedagogici per un insegnamento innovativo) Univ. Prof. Dr. Dr. Werner Wiater]
Se penso che si parla degli anni ’70….. Potrebbe essere
un’idea!
Quando i docenti vengono da me, spesso mi raccontano della situazione delle
loro classi facendo l’elenco delle loro composizioni: due H, cinque DSA, tre
BES, 5 con genitori separati e concludono osservando che invece la docente è
ormai praticamente unica. Questo generalmente è l’esordio. A volte non
comprendo però perché si lamentano anche i docenti che hanno classi di 15
bambini. Deduco ancora una volta che quindi non sia questione di numeri, ma
di metodo.
Convengo che non è facile insegnare in classi numerose e con bambini
problematici, ma questa è la società odierna e prima ne prenderemo atto, più
facile sarà il lavoro da fare. La consapevolezza della necessità di una
personalizzazione costante ci porterà ad una sorte di rassegnazione
metodologica: non c’è via d’uscita se non nel personalizzare, solo così il
logorio dovuto allo scostamento palpabile di quanto avremmo voluto fare ci
porterà un po’ di serenità.
Ma come si farà a personalizzare e a portare poi ai traguardi comuni? In
questo sta la professionalità docente, che solo nella collegialità riuscirà
a sopravvivere, nella condivisione, nella sperimentazione, nelle classi
aperte, nel sostegno e recupero costante, nella sfida metodologica della
ricerca continua di nuove pratiche, nell’auto-formazione e
auto-aggiornamento sul campo. Finché si continuerà ad avere in mente che una
lezione frontale e una classe di bambini silenti sia la condizione ideale
per l’apprendimento, la stanchezza avrà sempre il sopravvento.
Cito in conclusione quanto detto nell’ultima intervista dal maestro Manzi,
il maestro d’Italia riportato alla ribalta da una recente fiction della RAI:
“I bambini di una volta avevano dei problemi, ma quelli di oggi ne hanno
ancora di più, per cui o eravamo stupidi noi che non li vedevamo oppure è la
scuola che crea problemi ai bambini.”
Ecco:
certamente i tempi sono cambiati e la scuola con essi. Sono cambiate le
metodologie, alla scuola sono stati affidati mille compiti, moltiplicati i
contenuti, ammassati gli alunni. Tutto ciò ha perso di vista il bambino in
sé e tutti i suoi problemi, creando maggiori difficoltà dovute alla
pressione del raggiungere a tutti i costi degli obiettivi precostituiti e
soprattutto all’idea che sia il bambino a doversi adattare alla scuola e non
viceversa.
Le Nuove Indicazioni si riappropriano del concetto di persona, di centralità
nell’essere e di fuga da ogni tipo di standardizzazione.
Questa è la mission della nuova scuola italiana: ora sta a noi nel ritrovare
nei nostri alunni la persona che rappresentano.