29.09.2014
Il lavoro
del docente, un "mestiere" di confine (seconda parte)
di
Franco De Anna
Quarto confine: tra autonomia professionale e ordinabilità del lavoro.
In qualunque impresa
(aggregazione di lavoro collettivo diretta ad uno scopo comune) i caratteri
concreti del lavoro sono determinati dalla tecnologia disponibile ed
applicata, dalla organizzazione e dal “manuale operativo”. Nessuna di
queste tre componenti, da sola, predetermina il carattere del lavoro,
neppure la tecnologia.
Anche se la sua pretesa “oggettività e razionalità” la predica,
ideologicamente, come univocamente determinante del processo, la tecnologia
deve combinarsi con il lavoro vivo, la sua “fisicità” ma anche le sue
rappresentazioni e le sue abilità, semplici o complesse che siano.
Inoltre il lavoro collettivo va “combinato”, composto, diviso, ordinato,
organizzato. E in tutti i modelli organizzativi, anche in quelli che si
autoproclamano “razionali”, operano elementi di cultura sociale, scale di
valori, gerarchie riconosciute che sono declinate all’esterno
dell’organizzazione concreta (esempio eclatante le differenziazioni di
genere..). Infine il “manuale operativo” raccoglie sia notazioni tecniche
sia “diritti e doveri” che regolano il fluire del lavoro organizzato. E ne
formalizza il modello.
Nella scuola, intesa come sistema organizzato, le cose non sono diverse. La
specificità, se osservata a livello di sistema organizzativo, è determinata
dal livello della composizione tecnica, e dal ruolo del “manuale operativo”.
La prima (la composizione tecnica) ha un livello assai basso: non solo le
tecnologie utilizzate sono mediamente insignificanti, ma le stesse
“tecniche” utilizzate dal “lavoro vivo” (le didattiche..) hanno un oggettivo
basso livello di validazione scientifica e di consolidamento standard. (Si
veda la problematica, altrove rielaborata, dello sviluppo necessario di un
“sistema della ricerca educativa”).
La conseguenza immediata di una bassa composizione tecnica è il basso
“livello di ordinabilità” del lavoro. Non vi sono condizioni “reali” per
determinare un “mansionario” ordinabile e controllabile.
Il lavoro concreto erogato in tali condizioni conserva un elevato livello di
autonomia individuale, pure entro un involucro organizzativo collettivo (Non
è un difetto, anzi. E una condizione reale e specifica, semmai da assumere e
valorizzare).
In tali condizioni reali, si esalta inevitabilmente il ruolo del “manuale
operativo” come raccolta e repertorio di regole formalizzate e consolidate
dell’uso e come declaratoria di diritti e doveri. Si esalta tale ruolo fino
a rovesciare il nesso tra caratteristiche strutturali dell’erogazione e
caratteri del lavoro: il manuale operativo diventa la rappresentazione
formalizzata ed esaustiva dell’insegnare, e i suoi parametri (tempi, spazi,
distribuzione del lavoro, gerarchie, cadenze e scadenze) acquistano il
valore di modello organizzativo inevitabile, e quasi “naturale”
rappresentazione della razionalità operativa. (Rimando a Max Weber)..
Così sono per esempio le classi, le classi di concorso, le cattedre, gli
orari settimanali, giornalieri, annuali, ecc.. l’intera incastellatura
formale governata dal manuale operativo si costituisce come descrizione
completa ed esaustiva del lavoro di insegnamento..
Effetto fondamentale di tale contraddizione tra formalismo del “manuale” e
autonomia individuale è però che quest’ultima si configura come “residuale”,
difensiva, intesa come “salvaguardia”, e dunque in permanente tentazione di
corporativismo, e non come “valore produttivo” da “configurare” e
consolidare in un modello professionale. (Da qui il grado di ambiguità che
accompagna sempre il richiamo alla “libertà di insegnamento”)
Il crinale di tale
dialettica è stato esplorato lungamente specie in questi anni, rielaborando
categorizzazioni interessanti: si pensi alla descrizione dei docenti come
“professionisti che operano in una organizzazione”, o al richiamo al
“professionista riflessivo” o alle elaborazioni che si cimentano con
modellizzazioni organizzative articolate, o al permanente richiamo alla
“collegialità”.
Ma l’assimilazione della organizzazione della scuola alla Pubblica
Amministrazione, con il carattere invasivo che assume in tal modo il
“manuale operativo” (che si fa “norma”, spesso trasformando caratteri d’uso
consolidati in diritti e regole; che “cosalizza” contenitori fisici e
temporali, classificazioni del lavoro e ripartizione delle competenze)
rappresenta un vincolo di carattere “gravitazionale”: per interessanti e
stimolanti possano essere proposte come quelle citate, vengono comunque
deformate e infine inghiottite dalla forza gravitazionale di quel “buco
nero”.
Quindici anni fa vi fu l’occasione, rappresentata dalla “autonomia” delle
istituzioni scolastiche, per smontare l’intero costrutto, e rielaborare alla
radice un diverso “manuale operativo”. Ma al break point iniziale non
seguì un break throught, un “attraversamento” coerente capace di
accompagnare la transizione. Anzi, come sappiamo, il vecchio “manuale
operativo” si mantenne e ripropose, salvo piccolissime correzioni, come
permanente “punto di riferimento” (non ostante le ripetute proclamazioni di
innovazioni riformatrici “epocali”, rielaborazioni di programmi e
“indicazioni”, ecc..). Del resto la considerazione vale per la scuola
esattamente come, per i medesimi anni, vale per la Pubblica Amministrazione:
vedi Legge 59/97 (Bassanisni).
La dialettica rappresentata in questo paragrafo (il lavoro del docente tra
basso livello di composizione tecnica, basso livello di ordinabilità e
vincolo “formale” del manuale operativo) ha naturalmente una sua evoluzione,
sia storica che soggettiva.
Per esempio, (ma la cosa richiama una elaborazione sviluppata in altre
occasioni di intervento) l’integrazione tra insegnamento/apprendimento e
tecnologie dell’informazione prospetta, uno sviluppo potenziale più che
significativo della “composizione tecnica”. Entro tale prospettiva si
delineano significative potenzialità di obsolescenza dei modelli di
classificazione del lavoro, di determinazione dei suoi contenitori spazio
temporali, delle gerarchie interne e dei livelli di interazione collettiva
(dunque del suo stesso livello di ordinabilità). I più attenti osservatori
di tali prospettive e sviluppi pongono esplicitamente la questione di una
necessaria decostruzione del manuale operativo tradizionale, in connessione
con l’integrazione delle tecnologie e dei devices digitali
nell’insegnamento e apprendimento. Tenendo conto del rapporto non
deterministico tra tecnologia e organizzazione ciò disegna un compito
squisitamente “politico” di operare scelte tra alternative, esperienze,
modelli diversi. (non basta dire che si farà “formazione digitale”. Quale?)
Dunque…?
Possibile estrarre dalla lunga riflessione precedente qualche indicazione più legata al che fare rispetto alla scuola, che, come ecclesia, semper reformanda.
Le enumero, provvisoriamente.
1. La promozione professionale del lavoro docente ha come fondamento l’ esplorazione della dialettica tra la funzione istituente dell’insegnamento e il suo rapporto con le dimensioni istituite. La prima, il “cuore” del lavoro, può essere valorizzata se i parametri della seconda sono sensatamente flessibili, aperti, capaci di lasciare esprimere ed anzi promuovere tale dialettica. Più “invasivo” è l’istituito (il manuale operativo, la classificazione del lavoro, ma anche l’invasività istituita delle “geometrie” curricolari..) più qualunque progetto di valorizzazione professionale, (formazione, aggiornamento, merito, ecc…) si rivela privo di fondamento e alla lunga si trasforma oppositivamente e/o opportunisticamente in “altro” (ve ne sono esempi nella storia recente).
2. Non c’è formazione professionale dei docenti sensatamente progettabile e con ragionevoli prospettive di risultato, in costanza di “manuale operativo”. L’apprendimento professionale di cui ha bisogno la scuola ed i docenti italiani è “apprendimento organizzativo”. un antico aforisma recita: “un soggetto cambia perché apprende; ma una organizzazione apprende perché cambia”. Ben vengano, ovviamente le preoccupazioni e le intenzioni di “formazione dei docenti”; ma prima di cimentarsi in discussioni su “diritti e doveri”, risorse e premi, si badi alla connessione strutturale tra caratteri del lavoro che si vogliono promuovere e trasformazioni necessarie dell’organizzazione (decostruire il manuale operativo).
3. Il basso livello di “ordinabilità” del lavoro docente va assunto come “valore positivo” in chiave di autonomia, come condizione di falsificazione del modello amministrativo e dei suoi effetti professionalmente mortificanti. L’esercizio corrente di una puntigliosa strutturazione in ore e mezz’ore degli impegni di lavoro da dedicare a funzioni fondamentali che sono invece parte intrinseca del lavoro formativo (programmazione, progettazione, valutazione, rapporto con il contesto…ecc..) è l’esempio mortificante di una deriva che finisce appunto per declinare l’autonomia professionale in chiave regressiva. Occorrono tempi e spazi comprensivi e flessibili.
4. Ogni sensata iniziativa che voglia misurarsi con la promozione professionale degli insegnanti deve declinarsi in contesto di autonomia scolastica rilanciata. E’ infatti questo il solo e appropriato contesto che dia alla promozione professionale la dimensione di processo connesso sviluppo organizzativo. Consistente (e conosciuto) altrimenti è il rischio che la formazione diventi invece “una batteria di slides diretta ad aumentare l’autostima del formatore”.
5.
A fronte delle
dialettiche qui presentate vale ricordare che l’innovazione reale di
diffonde sempre con modalità virali, per contagio, prossimità, imitazione;
molto meno per “pianificazione”. Ciò non significa che non occorra
l’innesco, il raggiungimento della soglia di energia di attivazione. E’
compito del decisore politico. Ma saggezza politica è che l’azione politica
promuova l’epidemia, piuttosto che proporsi di “controllare” e pianificare
l’intero progetto.
La gestione dei processi sia lasciata all’autonomia, valorizzando
l’inevitabile “variabilità” come condizione di evoluzione (così è in
natura). Cura del decisore politico e amministrativo sia piuttosto una
politica dei fattori capaci di facilitare l’epidemia innovativa
(flessibilità gestionale, investimenti onnicomprensivi e “pazienti” affidati
alle responsabilità autonome, solo per fare esempi).
Fondamentale invece l’esercizio del monitoraggio e della valutazione, intese
come permanente feed back della politica pubblica che rappresenta la
propria responsabilità ultima del decisore e della quale deve dare conto.
(Ed è anche condizione per coltivare il consenso sociale sulla valutazione
di tutto il sistema).