21.04.2014
L'altra
metà del cielo
di
Ariella Bertossi
Leggo sempre con piacere
gli editoriali di Gramellini su “La stampa” e quello dello scorso 10 aprile
rifletteva sui passi avanti compiuti dalle donne anche in capo alla
politica. Alla luce della recente sentenza di incostituzionalità della legge
di divieto di fecondazione eterologa, concludeva dicendo:
“Ecco, considerando tutto questo e molto
altro ancora, noi maschi siamo chiamati a compiere un gesto coraggioso e al
tempo stesso indifferibile, pena la nostra rapida estinzione per
sopraggiunta inutilità. Cambiare sesso (interiormente, s’intende).”
Da donna non posso che sorridere
e convenire con il simpatico Gramellini, ma traslando il concetto al mondo
della scuola il sorriso spesso mi si spegne sulle labbra. In questo teatro
gli attori principali infatti sono perlopiù donne, ma uno spettacolo di sole
donne, quasi un opposto alla tragedia greca, difficilmente può stare in
piedi.
Bisognerebbe domandarsi come mai questo mestiere continui ad essere
prerogativa femminile e, a fronte di tutte le richieste di pari opportunità
e in periodo di grave carenza occupativa, gli uomini non rivendichino invece
quote azzurre per criteri preferenziali di assunzione.
Pressoché nulli
alla scuola dell’infanzia (0,7%), i maestri sono il 4,6% contro il 95,4%
alla primaria, in Italia
un record mondiale.
Infatti le donne maestre sono l’81,2% in Francia, l’82,9 in Germania,
l’81,5% in Gran Bretagna, il 62,2% in Grecia, il 69% in Spagna, 80,8 in
Svezia, il 75,5% in Finlandia, l’88,6% negli USA, il 65% in Giappone. Nei
paesi del terzo mondo e in quelli definiti emergenti (Cina, India, Brasile)
invece ci sono più maestri maschi che maestre donne, come da noi fino alla
fine degli anni ’50.
La
percentuale maschile aumenta con il crescere dell’ordine di scuola, fino a
ribaltarsi alle università, dove le docenti universitarie si attestano nel
2011 in percentuali intorno al 35%. Il tutto accade nonostante sia già stato
evidenziato ed analizzato esaurientemente (Istat, 2011) che le donne che
conseguono i diversi titoli di studio (diploma, laurea e dottorato di
ricerca) sono di più dei propri colleghi maschi (58% sono le laureate e 52 %
le dottoresse di ricerca) e raggiungono votazioni migliori.
Al convegno donna del
7 marzo scorso Cristina Messa, rettore Università Bicocca di Milano ha
affermato:
"La scienza e la tecnologia
sono settori maschili. Provo imbarazzo alle riunioni quando sono l'unica
donna. L'istruzione è paritaria, non è così per il mondo del lavoro". Parole
che trovano una conferma nei dati forniti da Mary Merva della John Cabot
University: in Italia le docenti ordinarie nelle Università sono solo il 18
per cento".
In un articolo su Repubblica si sosteneva che questa diminuzione degli
uomini nelle professioni legate all’insegnamento è direttamente
proporzionale alla diminuzione del prestigio sociale della figura
dell’insegnante.
Stipendi da fame, mancata progressione di carriera, posizione bassa nella
scala sociale, sembrano far scappare gli uomini da questa professione, per
farli ricomparire appunto poi come professori ordinari-associati nelle
Università insieme a prestigio e stipendio alto.
In passato il
maestro era maschio perché la donna era casalinga, ora però, in un mondo che
riconosce anche agli uomini la maternità, è ancora giusto e comprensibile
questo mantenimento matriarcale della professione?
In realtà sono gli uomini stessi a non voler accedere a tale occupazione,
che se per una donna socialmente può essere compresa, per un uomo
soprattutto in Italia viene visto come riduttiva. L’analisi di Repubblica
diceva infatti che le donne hanno aspettative lavorative più basse rispetto
agli uomini e che le professioni considerate femminili hanno un minor
prestigio sociale. La professione inoltre viene considerata ancora solo
all’interno delle ore di insegnamento, lasciando quindi sufficiente il
tempo libero ad una donna per occuparsi della casa e dei figli.
Ma perché la pari opportunità anche tra il corpo docente potrebbe essere
utile?
La pratica didattica delle classi eterogenee inserita intorno agli anni ’60
aveva alla base il fondamento che la collaborazione e la promiscuità tra i
sessi fosse da incentivare in una società emancipante che voleva maggiore
partecipazione da parte del sesso femminile e soprattutto che vedeva nella
scuola il mezzo per promuovere il dialogo tra maschi e femmine. Sebbene
negli anni ’90 in alcuni Laender della Germania si sia ritornati indietro
rispetto a tali scelte, sostenendo che le classi miste inibivano la
formazione scientifica delle ragazze, oggi tutti conveniamo che ragazze e
ragazzi debbano essere educati a vivere e crescere insieme, così come
avviene poi nella realtà. Il tutto però viene proposto da un corpo docente
fortemente femminilizzato, quindi un po’ con un controsenso alla fonte.
Credo siamo tutti d’accordo che entrambe le figure, docenti maschi e
femmine, possano contribuire alla formazione dei ragazzi. Gli stili
comunicativi, le modalità di approccio, la tonalità di voce e in generale i
modi di pensare sono diversi nei due sessi: orientando la classe insegnante
solo in una dimensione priviamo i nostri alunni di una parte importante, la
metà che manca.
In ogni ambiente di lavoro la parità tra i sessi è una fonte di
arricchimento e, per arrivare a tale obiettivo, forse sarebbe bene che si
cominciasse una strategia di maschilizzazione della scuola.
Perché nella politica la parità entra per legge e nella scuola invece tale
tipo di trattamento non viene contemplato?
C’è da cambiare mentalità e forse da ridare dignità ad una professione che
deve essere riabilitata e in questo il sesso forte potrà dare una mano.
Quando la scuola sarà di nuovo credibile e professionalizzante, gli uomini
vi torneranno e finalmente la formazione umana dei nostri ragazzi potrà
essere più equilibrata. Altrimenti, parafrasando Gramellini, non ci sarà
altra soluzione: saranno le donne a dover cambiare sesso!