26.05.2014
Ofelee,
fa el to' mistee .. A proposito delle esternazioni del Ministro
di
Franco De Anna
Gli amici lombardi forse riconosceranno un antico modo di dire milanese (il dialetto ha sempre trascrizioni problematiche). “pasticcere (che fa le ofelle, dolci di pasta sfoglia, si vendevano per la strada) fai il tuo mestiere (non occuparti di ciò che non sai)”.
La
reazione (non proprio “urbana” lo confesso..) di fronte alle ultime
dichiarazioni ministeriali (mense scolastiche, durata del ciclo di studi,
programmazione accessi universitari) è stata il richiamo a quel vecchio modo
di dire.
Eppure, non sono tra quelli che sostengono che per fare il ministro della
Sanità si debba essere un medico, o un giurista per quello della Giustizia.
Estendiamo il motto del grande Von Clausevitz “la guerra è cosa troppo seria
per affidarla ai generali…”. Così non credo si debba essere un insegnante, e
neppure un Rettore, per fare il Ministro della Pubblica Istruzione. Il
“mestiere” a cui rimando e per il quale invoco qualche professionalità in
più è quello di politico, dunque responsabile di elaborare linee generali di
interpretazione del bene comune e darne conto ai cittadini,
contemporaneamente responsabile (stando al Governo) di un segmento di
amministrazione e dunque del suo funzionamento e del suo esser in grado di
realizzare concretamente gli impegni dichiarati nelle linee generali di cui
sopra. Si avvalga al meglio di ogni professionalità concreta necessaria
all’opera. Su questo sarà giudicato.
Sicchè, in questa ottica, il ministro può pure essere un “dilettante” nella
materia specifica (istruzione, sanità, giustizia…) la “professionalità” che
si richiede è altra, quella ricordata sopra. Con una aggiunta da meditare.
In francese per indicare ciò che noi spesso traduciamo come “dilettante” si
usa il termine “amateur”… amatore. Forse riflettere su questo significativo
scarto semantico può essere utile per individuare un altro ingrediente
fondamentale (l’amore, e non di sé..) per fare davvero il mestiere del
politico.
Ma andiamo con ordine.
C’è
libertà di opinione: si può sempre sostenere che sia giusto che le singole
prestazioni erogate dal servizio pubblico ai cittadini siano proporzionali
al prezzo che essi sono disponibili a pagare per ciascuna di esse. Vuoi il
dolce alla mensa scolastica? Pagherai un conto diverso da chi è più austero.
Non esprimo giudizio a priori su tale opinione. Un grande economista come
Samuelson sosteneva che la misura del valore economico dei servizi pubblici
fosse rapportata al “prezzo” che i cittadini sarebbero disposti a spendere
per averli (indipendentemente dal fatto che nella realtà siano non in
esborso diretto ma tramite fiscalità, o che vi sia un vero e proprio
“mercato”, come negli Stati Uniti). Ma questi sono problemi di macroeconomia
di sistema.
Chiedo al pasticcere dilettante (amateur..) di immaginare una classe di
bambini a mensa e Pierino che quel giorno abbia voglia di un dolcetto che ha
visto in mano a Mario, e che se lo veda negare perché non sta nel “conto”….
Ora, possiamo anche tentare di spiegargli le ipotesi di calcolo del
Samuelson, ma è probabile che dovremmo prioritariamente misurarci con gli
effetti psicopedagogici di tale frustrazione. (Ma forse sarebbe sufficiente
il “buon senso”. A meno che la nostra fiducia nella lotta di classe non sia
così smisurata…Ma ultimamente, in quella lotta vincono i ricchi).
Libertà di opinione; se non fosse che funzione essenziale dello Stato (sta
parlando un Ministro..) rispetto ai servizi erogati ai cittadini (chiunque
ne abbia la competenza produttiva) sia quella di indicare i Livelli
Essenziali di Prestazione che presiedono al valore fondamentale
dell’uguaglianza tra i cittadini. (Costituzione Titolo V)
Ora il Ministro, personalmente, può essere affezionato a quella opinione. Ma
se proprio deve fare dichiarazioni (consigliabile il silenzio..) su quanto
avviene in un piccolo Comune circa l’erogazione dei dolci in una mensa
scolastica, non può scostarsi dalla sua mission costituzionale, di garante
dell’uguaglianza dei cittadini rispetto ai livelli essenziali delle
prestazioni pubbliche.
Ma c’è di più, purtroppo: lo Stato, il Ministero, non hanno competenza
alcuna circa l’organizzazione dei servizi che sono di competenza dell’Ente
Locale (il Comune in questo caso rispetto alla mensa). Nell’elaborare le
proprie dichiarazioni (meglio il silenzio…) il margine era strettissimo:
rimandare alla responsabilità produttiva e gestionale dei servizi di
competenza dell’Ente Locale (è lì che i cittadini devono chiedere conto) e
semmai recuperare il criterio costituzionale dell’uguaglianza rispetto ai
livelli essenziali di prestazione. Invece…
Invece si richiama l’autonomia scolastica, come fosse tra le sue prerogative
la produzione dei servizi di cui ha invece responsabilità gestionale e
produttiva il Comune. Si indica cioè un responsabile “sbagliato”, un vero e
proprio infortunio giuridico che si assomma a tutti gli altri.
Così un banale caso di “castroneria” amministrativa locale diventa
“questione” politica che aumenta la confusione delle reazioni, invece che
promuoverne la razionalità.
Io non voglio ridurre le responsabilità di quella amministrazione comunale;
ma ricordo a tutti noi che nella stagione della povertà delle risorse
disponibili, la fenomenologia delle soluzioni che le amministrazioni
comunali (specie di piccole dimensioni) hanno pensato di mettere in campo
per diminuire i costi costituisce un vero florilegio di “invenzioni” che
spesso non hanno nulla a che fare con il principi di fondo della erogazione
di servizio pubblico, e sono invece testimonianza di un “arrangiarsi” di
improvvisati amministratori locali. Ma se per aggiunta ad oscurare e
opacizzare la chiarezza di tali principi contribuisce anche il “pasticcere”…
Seconda
questione. Due ministri fa un predecessore dell’attuale Ministro, e di
schieramento politico non opposto, mise al lavoro una commissione di esperti
(quorum ego) per elaborare uno studio-proposta sul tema dell’accorciamento
del ciclo di studi (insomma l’uscita ai 18 anni). Ne usci un prodotto molto
articolato di analisi, argomentazioni, proposte, opzioni.
Naturalmente la consegna del “prodotto” richiesto completò l’ingaggio: la
vera soddisfazione sta nel portare a termine al meglio il lavoro (gratuito,
ҫa va sans dire.. ). Anche se ci si aspetta, con qualche attesa di
compiacimento, che il “pasticcere” ne dia un qualche riscontro…
Poiché credo di averci dato intenso contributo, mi permetto di ricordare (e
qualche collega membro di quella commissione potrebbe nel caso completare la
memoria) almeno qualche punto saliente, sia nell’analisi che nella proposta.
1. L’universalizzazione
della scuola dell’infanzia è nel nostro paese ancora lontana dal realizzarsi
e le esperienze reali per quantità e qualità sono distribuite con grande
difformità sul territorio nazionale. E’ lungi dall’essere “sistema”. Dove
funziona al meglio è di grande e riconosciuta qualità.
La “domanda sociale” di anticipo scolare si distribuisce in modo
inversamente proporzionale ai livelli di estensione e qualità del servizio
(la domanda di anticipo in Campania, per esempio, è tre volte più elevata
che in Lombardia).
Ciò significa che alla scuola dell’infanzia, in tali situazioni, viene dato
semplice valore di servizio assistenza e non di essenziale fase formativa.
L’anticipo ha significato sociale distorto.
Quanto al significato formativo… evidentemente dipende da cosa eventualmente
vien fatto in quell’anno… Ma come si comprende la discussione pedagogica in
proposito è tutt’altro che riassumibile in una intervista o in un articolo.
Rimane “politicamente” il problema del fare leva su uno strumento di
significato sociale per lo meno ambiguo, se non negativo. Mentre l’obiettivo
di procedere anche gradualmente alla “universalizzazione” del sistema della
scuola per l’infanzia si offre con limpidità alla scelta politica e declina
anche il valore pedagogico (rispetto alla domanda sociale) che la politica
stessa non può non esercitare, indirizzandola.
Nella commissione citata l’opzione anticipataria, pure analizzata fu in
buona sostanza declinata dalla maggior parte dei membri.
2. Grande
riflessione fu posta invece sul ciclo attuale elementare-media-superiore, e
in particolare sui punti di snodo (istituzionali-ordinamentali, di programmi
e indicazioni didattiche e pedagogiche, di organizzazione ed impegno del
personale) e sulla possibilità di migliorarne e razionalizzarne i tempi e le
distribuzioni.
In particolare affrontando quello che appare il punto debole del sistema che
è rappresentato dal passaggio alla secondarietà degli studi, intesa nelle
accezioni diverse, psicologiche, cognitive, epistemologiche. Si tratta del
vero punto debole del ciclo di istruzione.
Il problema è stato affrontato nei termini del come decostruire e
ricostruire un percorso di 12 anni di formazione sotto il profilo della
distribuzione dei tempi, delle organizzazioni, delle “enciclopedie”
formative, mantenendo alcune proposizioni consolidate come quella
dell’obbligo ai 16 anni, della articolazione tra scuola/formazione
professionale/apprendistato/formazione permanente, della articolazione
autonoma (ma per davvero…) del curricolo superiore, del rapporto con
l’Università e l’istruzione terziaria.
Ma anche della progressiva individualizzazione e personalizzazione del
curricolo superiore: si pensi al fatto che un 18enne oggi può decidere chi
governa il Paese, ma quasi nulla circa il suo corso di studi..
In quella sede, en passant, si indicò la stessa possibilità di
estensione del servizio civile post istruzione superiore, che oggi sembra
alimentare proposte da parte di altro “pasticcere” (è di conforto..).
Ovviamente non poteva non essere indicato anche un impegno particolare (e a
mio parere radicale) sulla struttura degli Esami di Stato di fine ciclo
(quelli della secondaria di primo grado vanno risolutamente aboliti perché
privi di significato ordinamentale come “esami di Stato”).
Se l’impegno formativo dell’ultimo anno della Superiore viene ormai
ridimensionato e strettamente finalizzato (cognitivamente e
psicologicamente) alla effettuazione dell’Esame di Stato e “su quelle
materie”, la mortificazione di tempi e modi appare evidente.
Le difformità valutative delle “Commissioni Ministeriali” testimoniate dalla
distribuzione territoriale degli esiti e soprattutto dalla conclamata
inversa correlazione tra essi e i test di ingresso universitari, credo ponga
anche i più strenui difensori de “L’esame di Sato” di fronte
all’indifendibile.
Come che sia, un lungo ed articolato documento di
proposte. Se pensiamo che il problema sia solo quello di scorciare o meno un
anno, operando all’inizio o alla fine del ciclo di studi, possiamo pure
farne semplice oggetto di interviste. Ma occorre sapere che ogni semplicismo
nelle proposte otterrà una ulteriore semplicismo, fino alla rudimentalità,
nelle risposte, che siano di consenso o di dissenso.
Così si andrà dal presentare la cosa come adattamento all’Europa (non è
vero..), alle esigenze del risparmio (la condizione che presentammo nel
nostro lavoro di commissione era quella di “parità di risorse” e dunque sul
come ridistribuire sull’intero ciclo gli eventuali risparmi del suo
accorciamento); o alla levata di scudi dei professori (soprattutto di Liceo)
pronti a tutelare il quinto anno come fondamentale tappa della formazione
dei giovani…
Tutto tranne discutere a fondo e appropriatamente, quali che siano le
opinioni di partenza, di una proposta che non può che decostruire e
ricostruire strutturalmente il ciclo di istruzione, e non operando con la
forbice o l’attaccatutto ai suoi estremi (abbiamo esempi anche autorevoli di
questo riduzionismo politico nelle polemiche di questi giorni. Riduzionismo
che richiama, è vero, molte responsabilità; ma se comincia il
“pasticcere”…).
Su un tema come questo che riguarda l’assetto dell’ordinamento del sistema
non si rilasciano interviste, ma si apre un vero confronto politico e
sociale e culturale, mettendo in grado i partecipanti di entrarvi con il
dovuto approfondimento ed estensione di analisi. Il bravo pasticcere
dilettante (amateur) sa che questo è il modo per finalizzare e valorizzare
politicamente le tante professionalità di mestiere che sono disponibili.
Infine la questione della programmazione degli accessi
universitari.
Credo non sfugga l’ironia triste della storia che pone tale problema oggi ad
un paese in una fase in cui si assiste alla caduta effettiva e tendenziale
delle immatricolazioni.
Dunque il problema “programmatorio” si pone non tanto rispetto ad una
domanda sociale aggregata, quanto alla sua distribuzione finalizzata,
settoriale e anche territoriale. Semmai, in termini generali si pone il
problema complessivo di recupero del valore generale assegnato e
riconosciuto socialmente alla istruzione superiore.
E, se volessimo stare ad enunciati ancora più generali (ma meritano un
intervento a sé e di ben altro spessore; qui solo si accenna), forse
potrebbe questa essere l’occasione per riaggiustare il tiro della politica
del mercato del lavoro, finora faticosamente, dispersivamente e
contraddittoriamente condotta sul fronte dalla “domanda” (forme
contrattuali, agevolazioni, flessibilità, defiscalizzazioni, immaginifiche
sorti miracolose di aumento di occupazione per esito di forme normative e
non di investimenti reali…); dicendo qualche cosa anche in termini di
“politica dell’offerta” di lavoro, rispetto alla quale la “formazione”
rappresenta un addensamento di “valore”.
La programmazione dell’istruzione superiore ha, storicamente, avuto due
sostanziali forme di espressione: la prima ha a che fare con i Paesi che un
tempo si chiamavano “in via di sviluppo” e con quelli del cosiddetto
“socialismo reale”. In entrambi i casi essa faceva parte degli strumenti
della “programmazione economica” e della “politica di piano”, cercando e
tentando quantificazioni sensate tra domanda e offerta di istruzione
superiore, posto che essa costituiva peso specifico importante entro la
spesa delle risorse economiche dei singoli Paesi.
V’è da dire (ma a posteriori è affermazione generale la cui specificità
sfuma nel tempo e nelle diverse esperienze) che non sempre la programmazione
ed il calcolo garantirono tale funzionalità (si pensi all’eccesso di medici,
e spesso di ottima qualità, per il quale la piccola Cuba oggi esporta tali
professionalità nel più grande, e più ricco, Brasile..), e che, per altro
verso, un tratto comune della programmazione economica dell’istruzione
superiore nei modelli di socialismo reale si accompagnò (e i “residui” sono
ancora oggi presenti) con una forte ispirazione unitaria dei livelli di
istruzione precedenti e di base.
L’altro “modello” fu quello dei Paesi capitalistici del secondo dopoguerra e
caratterizzato da impetuoso sviluppo economico industriale e dalla
costruzione dei sistemi di welfare universalistico (in particolare la Sanità
e la Scuola) che erano fonte di costante domanda di lavoro a quantità
crescenti e di livelli crescenti di istruzione (insegnanti, medici).
Il “modello” non ebbe bisogno di “programmazione e calcolo”, e si espresse
invece in chiave di progressiva “apertura e liberalizzazione”, lasciando che
il gioco del mercato e dello sviluppo reale e delle vocazioni e convenienze
individuali trovassero assennata composizione. Si pensi alla progressiva
liberalizzazione degli accessi universitari nel nostro Paese, resa totale a
partire dal 1969).
La storia personale di molti della mia età fu proprio la fortunata e
assennata congiunzione tra le opportunità di quella fase di sviluppo
(economia reale e sistemi di welfare) e le scelte e vocazioni individuali:
ho un diploma in elettronica industriale dei primi anni ’60 (ed è inutile
ricordare le prospettive di sviluppo che anche simbolicamente il settore
interpretava); ed ho una laurea scientifica che non c’entra nulla con il
diploma ma che sembra fatta su misura per l’insegnamento che mi interessava
come professione.
Voglio per altro ricordare a chi non ha memoria, che il basso numero di
laureati e diplomati è una costante storica del nostro Pese e non una novità
recente. (Una famosa ricerca SVIMEZ sul fabbisogni di laureati e diplomati
per il nostro sviluppo, della metà degli anni ’60, fece testo, ancorchè le
sue quantificazioni fossero sottostimate. Curiosa, in proposito, la
permanenza per anni di un falso stereotipo per il quale in Italia erano
“tutti dottori”. Ogni tanto affiora ancora oggi).
Del resto è analogamente storicamente costante la incapacità italiana di
saturare l’offerta di lavoro entro lo sviluppo nazionale, rimediandovi con
diversi strumenti: dal basso tasso di attività (cui andrebbe sempre
riportato il tasso di occupazione, per capire davvero come stanno le cose)
alla immigrazione, un tempo delle braccia, oggi dei cervelli…Per tacere di
“battaglie del grano” o di imprese coloniali.
Dunque il problema contingente (programmazione a medicina) è un aspetto
emergente di un iceberg: giusto cercare e trovare soluzioni contingenti, ma
attenzione alla parte sommersa che può capovolgere ogni imbrigliamento
apparente.
Lo sviluppo dei due settori di welfare che sono caratterizzati da maggiore
intensità di lavoro vivo e di alta scolarizzazione sono la Scuola e la
Sanità.
Sotto il profilo del calcolo (con tutte le approssimazioni) dei fabbisogni
futuri, posto il carattere universalistico dei servizi relativi, non è
difficile produrre larghe ma significative stime.
Certo tenendo conto di due fondamentali articolazioni: la prima riguarda le
distribuzioni territoriali; la seconda le articolazioni professionali
interne a tali fabbisogni, che non si esprimono certo semplicemente
attraverso figure professionali univoche e tradizionali, come il docente di
scuola o il “medico”. (se si confrontano prestazioni lavorative, livello di
competenze, intensità di impegno, modalità di retribuzione, tra un medico
che opera nel sistema ospedaliero e un “medico di famiglia” vi è un
abisso..).
Possibile di fronte a tale complessità, trovare la
soluzione dicendo “facciamo entrare tutti, poi selezioniamo dopo il secondo
anno”? Ma che formazione garantiamo e “ci” garantiamo? I laboratori
“scientifici” hanno una oggettiva “composizione tecnica” superiore a quelli
“filosofici e letterari “ (con tutto il rispetto per questi ultimi, quando
vi sono). E tale elevata “composizione tecnica” ha elevati “costi e
investimenti”.
Dunque la sfida della programmazione è ben più impegnativa di quella con
qualche TAR, sempre in grado di respingere bocciature ed esclusioni. Ma
intanto il “pasticcere” può provvedere con rigore a garantire: 1) una
distribuzione territoriale degli accessi universitari che sia articolata e
si rivolga al complesso delle domanda quale che sia la sua concentrazione
vocazionale/territoriale. Lo stesso dicasi per le alternative figure
professionali comunque attinenti al sistema Sanitario (non solo medici); 2)
Garantire “di imperio” l’equità e la confrontabilità degli esiti e delle
condizioni di ingresso a “prova di TAR” e di “diritti quesiti” (non
“acquisisti”, ma “quesiti”). Qui non c’è autonomia delle Commissioni di
Esame che tenga. C’è il valore di eguaglianza tra i cittadini nel concorrere
tra loro a parità di condizioni. Del resto le “prove di ingresso” esistono
in tutti i sistemi del mondo.
Mi rendo conto però del “retrostante” o meglio della parte sommersa
dell’iceberg, quando si parli di programmazione dell’istruzione superiore.
Proprio per il limite non universalistico della istruzione superiore e per i
suoi costi diversamente distribuiti in relazione alla “composizione tecnica”
dei diversi curricoli universitari, per i caratteri “pubblici” di molti dei
più consistenti settori di concentrazione della domanda di lavoro, qualunque
“pasticcere” ha in realtà a che fare con due radicali problematiche: la
prima è il rapporto con lo sviluppo economico complessivo e dunque pone capo
al problema di una politica dell’offerta di lavoro ( e la sua qulità
garantita dall’istruzione e formazione) che si confronti con il carattere e
gli obiettivi della politica economica;… del cui bisogno ciascuno dice ma di
dove sia nessun lo sa…
La seconda è invece il rapporto con le “corporazioni” delle cosiddette
“libere professioni” che pure condizionano e spesso vincolano strettamente
la politica della domanda di istruzione superiore, e ne condizionano
sotteraneamente l’offerta.
Per esempio, che in Italia si abbia a che fare con un generale esiguo numero
di laureati e con immatricolazioni in calo e contemporaneamente con la
maggiore concentrazione di Avvocati a livello mondiale è un problema nel
problema. Che ha qualche proiezione anche sul precedente che riguarda
medicina.
Purtroppo per tutti, dal “pasticcere” al dilettante (amateur), da chi
rilascia interviste, a chi si indigna Lo spessore dei problemi rifugge da
qualche estemporanea e semplice soluzione.
Non credo sia troppo chiedere ad un Ministro (a qualunque scuola di pensiero appartenga) di comunicare almeno tale complessità e richiamare l’impegno tecnico scientifico necessario a trovare soluzioni assennate. Esattamente come non credo sia troppo chiedere a chi porta responsabilità di elaborazione e organizzazione culturale collettiva (sindacati, Associazioni, media) di immettere una dose supplementare di rigore scientifico nelle proprie prese di posizione e polemiche politiche.