01.09.2014
Oggetto o
soggetto propulsivo di riforma?
Considerazioni sparse in attesa del Piano Scuola del governo
di
Antonio Valentino
Alcune considerazioni
preliminari per darsi bussole sensate dentro l’operazione riformatrice
lanciata dal governo. Perché se è giusto e doveroso, oggi come oggi,
“sporcarsi le mani” con la melmosità delle questioni aperte, bisogna pur
recuperare ragionamenti e idee – abbondantemente frequentati in questi anni
- che permettano di affrontare al meglio e chiuderle bene, tali questioni.
Idee come punti fermi - e comunque di attenzione -; e idee come “visione” .
Da intendere, quest’ultima, come prefigurazione di traguardi - di cui si
colgano contorni e elementi basilari e strategici.
Senza punti di partenza solidi e credibili, la “visione”
difficilmente potrà avere i giusti contorni e, quindi, l’efficacia
richiesta. E, d’altra parte, senza visione è difficile individuare le
direzioni più appropriate ai possibili percorsi. Almeno questo sembrano
suggerire esperienza e buon senso.
Per un’idea esigente e responsabile del lavoro a scuola
L'idea
centrale di una riflessione sui punti fermi è che nessun piano di
miglioramento della nostra scuola (qual è quello che verrà presentato
prossimamente) può prescindere dal ri-considerare la collocazione
dell'insegnante e del dirigente scolastico dentro un sistema che si
vuole rimettere in moto. Né da una preliminare riconsiderazione della
principale ragione sociale del fare scuola.
Oggi
la considerazione
sociale del lavoro docente
è, da noi, in tutta
evidenza, piuttosto modesta.
Forse, in pochi altri stati a democrazia avanzata (diciamo così), ha livelli
di sottovalutazione come nel nostro paese. Ma anche livelli di
contraddizione così marcati.
Almeno questa è la percezione più diffusa. Certamente le responsabilità non
sono solo esterne al pianeta scuola. Ma questo è un altro discorso.
Ci troviamo di fronte al classico caso del cane che si morde la coda:
prevale
un'idea poco esigente
del lavoro docente
– spesso da parte degli stessi addetti - che porta a risultati che, nella
considerazione sociale, vengono valutati al di sotto delle attese. E questa
scarsa considerazione sociale influenza scelte politiche contraddittorie e
miopi. Che a loro volta influenzano negativamente i comportamenti della
categoria.
Recuperare il disegno costituzionale
Perciò il principale interrogativo di partenza
sembra essere il seguente: quanto è condivisa l’idea che il lavoro
dell’insegnante - e del ds - si colloca dentro un progetto di portata
costituzionale, che è interesse dell’intera collettività
nazionale - e in primo luogo della classe dirigente di questo paese -
difendere e di cui garantire la realizzabilità? Certo, parliamo
dell’insegnante come professionista responsabile, per così dire,
di suo (dei processi che mette in campo e dei risultati che ottiene) e
responsabile in quanto parte di un team e di una istituzione pubblica
autonoma. Comunque, figura di una istituzione fondamentale della Repubblica
e della sua Costituzione (quindi, non “commesso del governo in carica”.
Ovvio).
Si tratta, in altri termini, di capire se si intende guardare alla scuola
come all’ufficio delle poste o del catasto (con tutto il rispetto, ci
mancherebbe) oppure come ad un istituzione attraverso la quale si passino
strumenti e si sviluppino competenze importanti per migliorare la
partecipazione democratica del paese, si assicurino al viver civile più
elevati livelli di convivenza, si renda possibile uno sviluppo economico e
sociale che migliori la qualità della vita.
È questo, d’altra parte , che si continua a dire per i più diversi motivi e
ai più diversi livelli. E così frequentemente, senza che succeda nulla, che
c’è motivo di credere che se ne parla ma che non ci si pensa.
Anzi si pensa male, se da almeno 30 anni, con pochissimi periodi che
fanno eccezione, le politiche sono state tali da portarci alla situazione
disastrata di oggi.
Tanto che uno si chiede come sia potuto accadere – citando a caso - che si
creasse un precariato così pesante che continua a segnare molto
negativamente la vita delle scuole e di chi lo subisce, che si sfornassero
a go go, riforme senza misure e senza adeguato pensiero strategico,
che si consentisse un degrado così umiliante degli edifici scolastici, che
si permettessero tassi intollerabili di abbandono, che i livelli modesti dei
risultati scolastici (evidenziati da rilevazioni internazionali e
nazionali), e i tagli insensati e miopi al personale e alle risorse
finanziarie non abbiano scatenato sdegno generalizzato. Come è potuto
accadere - ci si chiede ancora - che si depotenziasse il valore di
innovazioni organizzative e didattiche come le funzioni obiettivo,
che si tollerasse la bagarre sul recupero dei 10 minuti sottratti
all’ora canonica di lezione, che la lezione frontale rappresenti la modalità
più diffusa di fare scuola e la valutazione sia condizionata ancora da
impressionismo diffuso, quando non sia vista come strumento di potere.
O, ancora, che il tema cruciale delle
Competenze chiave di cittadinanza (Decreto Fioroni del 2007 che in gran
parte riproduce le otto competenze del Consiglio dell’Unione europea del
2006), ha difficoltà a ispirare pratiche didattiche e formative adeguate.
Come è potuto succedere, detto riassuntivamente, che le ragioni sociali del
fare scuola si siano (non ovunque, per fortuna) per così dire offuscate a
tal punto da perdere senso e valore propulsivo e si siano perse per strada.
Standard impegnativi e chiara articolazione delle aspettative. Ma anche formazione e sostegno.
Le
ragioni sono ovviamente molte (e varie – e ovviamente diversificate – le
responsabilità: comunque nessuno dei soggetti
coinvolti può tirarsi fuori). E non è questo lo spazio per
riprenderlo. Qui si vuole solo richiamare, tra le ragioni possibili,
soprattutto il dato difficilmente confutabile che, a fronte della crescente
complessità dei compiti della scuola, è venuta a mancare la necessaria
chiarezza rispetto alle attese di risultati e prestazioni. Che rinvia
evidentemente alla mancanze di strategie adeguate.
È venuta a mancare, detta in altri termini, l’indicazione concreta e
credibile – da parte di chi ha avuto responsabilità di governo -
dell’obiettivo, del traguardo, e delle modalità e degli strumenti per
riconoscerli e valutarli. Ingredienti normali,
ovvii in una qualsiasi organizzazione che si rispetti e che nella scuola
sono affidati invece alla sola disponibilità e sensibilità personale di
tanti Patriot (il riferimento è al celebre film di Mel Gibson) che
hanno impedito la catastrofe che ha segnato invece altri settori della vita
pubblica del nostro paese.
Però è mancata anche da
parte del mondo della scuola e delle sue rappresentanze sindacali e
associativo-professionali l’esatta percezione della posta in gioco e
quindi una riflessione sui compiti da assumere come prioritari, su quali
attese concrete era opportuno che ci si concentrasse e di cui rispondere. E
ciò, sia nelle pratiche organizzative e didattiche che nei comportamenti
professionali.
Si è finito pertanto con l’assecondare il “principio”, che ha sempre
governato le nostre classi dirigenti: che poco si dà a chi poco si chiede.
Principio entrato in crisi quando la scuola è stata chiamata a
responsabilità più pesanti e quando sul fare scuola si sono concentrate
attese di ogni tipo da parte della società in generale. Ma che ha tuttavia
continuato ad ispirare fino ad oggi le politiche governative.
I costi sociali del disimpegno sulle questioni scolastiche. Troppo elevati da sostenere
I risultati comunque sono sotto i nostri occhi.
Nonostante i Patriot. Non si parte certo da zero e non poche sono le
scuole in cui si lavora bene e con esiti apprezzabili (e da cui trarre
stimoli per ripartire).
È però innegabile che è il sistema nell’insieme che appare
opaco, privo di
attenzioni condivise, di progettualità diffuse e operatività conseguente.
Con i risultati complessivi che ben conosciamo. E non solo sotto il
profilo specificamente scolastico. Basta guardarci attorno. Il gap
sotto il profilo socio-economico rispetto agli altri paesi industrializzati
non è forse anche il risultato di politiche scolastiche che, a partire dalla
fine degli anni ’80 (e forse anche prima), hanno perso via via tutti i treni
che bisognava prendere per
affrontare adeguatamente la scolarizzazione di
massa, lo svecchiamento dei saperi e dei metodi, le nuove forme di
selezione, formazione e cura del personale? Ma anche per rinnovare i
nostri laboratori, rendere decorose le nostre scuole e ripensare
radicalmente l’organizzazione del lavoro?
Ma lo stesso
appannarsi dell’
etica pubblica, a ben leggere i tanti indicatori che ci forniscono le pur
diverse ricerche sociologiche, va fatto rientrare nella gestione di basso
profilo della nostra scuola, soprattutto in questa fase di inizio millennio.
Le generalizzazioni spesso semplificano quadri di insieme, che sono
senz’altro più variegati e complessi.
Ma non si può non pensare comunque che
la modestia preoccupante e diffusa dei risultati e talora il degrado di
non poche realtà scolastiche siano tra i fattori non secondari del non
esaltante stato di salute della democrazia e del viver civile nel nostro
paese; a un tempo causa e conseguenza.
Non oggetto di riforma, ma soggetto attivo e propositivo
Si diceva della necessità
di recuperare, da parte del mondo della scuola e delle sue rappresentanze
sindacali e associativo-professionali, l’esatta percezione - finora in
buona parte mancata (e chi può chiamarsi fuori?) - della posta in gioco; e
quindi una riflessione sui suoi compiti più urgenti e strategici.
Qui declinerei “mondo della scuola” soprattutto nei termini di
associazioni professionali, OOSS, scuole (e reti
associative) più sensibili a questa questione.
Una eventualità che oggi si presenta, per il mondo
della scuola, come rischio possibile - vista la situazione impantanata -,
mi sembra la seguente: essere oggetto di riforma e non, invece, soggetto
protagonista e responsabile.
Come evitare questo rischio? Vedo solo due strade, in parte convergenti: che
l’Amministrazione (le scelte e le pratiche ministeriali) smetta i panni del
“padrone” e le OOSS, le associazioni professionali, le reti di scuola, ….
diventino luoghi / leve per costruire un protagonismo che si basi, come già
richiamavo, su una idea esigente e responsabile della funzione docente;
verso se stessa, ma anche verso l’Amministrazione e la politica.
La prima dovrebbe essere un punto fermo per un ministero che voglia
darsi gambe valide per la sua azione riformatrice. La seconda via è, per il
mondo della scuola, sfida di cui essere oggi consapevoli e per la quale
organizzarsi: le associazioni come communities professionali per
affinare visioni (di profili, organizzazione, compiti) e avere forza e peso
per fare la sua parte propulsiva e, nel caso, propositivamente antagonista;
le OOSS come soggetto ripensato in un’ottica che guarda alla scuola come
bene comune dell’intero mondo del lavoro (recupero, cioè, senza se e senza
ma, come si diceva una volta, della spinta confederale); le reti di scuole
come spazi e strumenti di confronto e condivisione, di sviluppo
professionale e di governo partecipato delle politiche formative del
territorio.
Sul “come”, si sono già dette molte cose. Occorre solo riprenderle e non
partire continuamente da zero.
Se non succede, il rischio è che non se ne esca o se ne esca con riforme che
non riformino.
Cosa succede altrove?
Con riferimento alle considerazioni svolte, si riportano di seguito - in termini schematici- i risultati di una Ricerca internazionale sui sistemi formativi, condotta per conto dell’Editore Pearson e dell’ Economist Intelligence Unit e pubblicata in nel novembre del 2012[1].
La ragione di questo
richiamo è che nel Rapporto di tale ricerca documentaria - finalizzata
all’analisi delle politiche dei Paesi che più investono sulla scuola e che
occupano i primi posti nelle classifiche internazionali per quanto riguarda
funzionamento e qualità dei sistemi formativi - non pochi aspetti e
indicazioni paiono confermare alcune direzioni di lavoro cui si è qui
accennato.
Questi, in forma tabellare, i punti rilevanti di
uno specifico capitolo, dal titolo significativo: Getting teachears who
make a difference. (V. tavola seguente)
Per ottenere insegnanti che fanno la differenza |
|
Le scelte |
Strategie / Fattori di successo |
Attrarre alla professione le persone migliori.
|
- Cominciare dal reclutamento: Reclutare ‘persone di talento’ è la prima mossa (Finlandia e Corea del Sud, i due Paesi in testa alla classifica dei migliori sistemi formativi, attingono per il loro fabbisogno annuale in misura, rispettivamente, del 10% e del 5% dal top dei laureati) - La chiave di successo: la considerazione di cui gode l’insegnamento in questi stati - Garantire autonomia di decisione vs mera esecutività di disposizioni e di provvedimenti impartiti dall’alto (insegnanti professionisti).
|
Garantire una giusta formazione |
- La cura dell’ autoformazione durante l’intera vita professionale e percorsi appetibili per l’avanzamento di carriera - Continuo sviluppo della formazione. |
Definire traguardi chiari e effettuare supervisioni reali sul lavoro degli insegnanti; e lasciare che vadano avanti |
- Consapevolezza della forte relazione tra risorse e miglioramento dei risultati - Standard impegnativi, bassa tolleranza degli insuccessi e chiara articolazione delle aspettative, combinati con una forte responsabilità professionale. - Organizzazione centrata sul lavoro collaborativo, per docenti e scuole - Combinazione di rendicontazione (accountability ) e di autonomia, correlate ai miglioramenti ottenuti. |
“Nessuno però dei precedenti fattori - si dice a ragione nella conclusione del Rapporto -, preso a sé stante, è sufficiente. Al contrario essi si sovrappongono e si supportano a vicenda e vanno considerati come un insieme coordinato di strategie da mettere a disposizione degli insegnanti e da utilizzare nei modi più efficaci”. |
Come si vede, idee ed esperienze a cui rifarsi ce n’è. E comunque non solo altrove.
[1] V. A. Valentino, Gli insegnanti nell’organizzazione della scuola, Edizioni Conoscenza, Roma 2013, pp. 14-16