12.09.2013
Sono un portatore (sano?) di BES.
di Franco De Anna
Due interventi di due amici di lunga data (Maurizio Tiriticco e Dario Missaglia, recuperabili in rete su www.scuolaoggimagazine.org) insieme a un paio di più articolate e specifiche riflessioni di un terzo amico (Raffaele Iosa sempre su www.scuolaoggimagazin.org) delimitano un vasto campo di intervento sul quale vengono posti interrogativi radicali rispetto al sistema di istruzione ed alla fase storica che attraversa. Lo spunto è “parziale”: la questione dei BES e più in generale della gestione delle “difficoltà di apprendimento” (comunque classificate) e del livello, modalità, conseguenze e caratteri della selezione che la valutazione scolastica sempre “implica” (Nella scuola italiana si boccia troppo?).
Rimando a quegli interventi, che condivido totalmente per le specifiche problematiche. Credo però che traccino (nella specificità dei loro argomenti) alcune questioni di carattere assai più ampio sulla politica scolastica, sulla “cultura della scuola” che la anima (!?) e sulla politica in generale.
Sulle questioni specifiche solo alcune notazioni.
Primo
BES, DSA, e interventi normativo-regolamentari connessi, sono iscrivibili, al di là delle intenzioni degli estensori normativi, che possono essere le migliori, in una più generale deriva di “medicalizzazione” delle “anomalie” comportamentali, psicologiche e psichiatriche, sociali che ha una esemplare rappresentazione nelle tassonomie messe a punto internazionalmente (mi riferisco al DSM-4 che dal 2013 tassonomizza le “alterazioni” psichiatriche e che dovrebbe costituire una linea guida per le diagnosi e le cure).
Lo sforzo “tassonomico”, in sé, potrebbe non costituire un problema (il “sapere” dell’uomo cerca sempre “tassonomie”: è l’oggettivazione del “logos” rispetto alla dinamica del “legein”). Ma va da sé che il tentativo di “oggettivare” e classificare il comportamento e la psiche ha una deriva “deterministica” duplice: da un lato dirottare sulla “farmacologia” (e interessi relativi: su questo si vedano gli interventi di un certo più autorevole interlocutore come S. Garattini, direttore dell’Istituto Mario Negri); dall’altro “esentare” gli operatori che, professionalmente e a diverso titolo (dai medici agli insegnanti) si trovano a dover interagire con simili “anomalie”, dal “prendersene cura”, che è cosa assai diversa dal “medicalizzare”. Rinvio in proposito all’etimo di “clinica” (clines..) che è “chinarsi su..” (sottinteso il letto: luogo di malattia ma non solo, di quiete e …di altro…), prendersi cura, guardare al soggetto e al suo dolore, non alla malattia.
L’edizione italiana del DSM-4 ha una lunga premessa “di cautela” di cui riporto solo alcune affermazioni.
Le tassonomie riprodotte “non rappresentano disturbi mentali e un comportamento deviante (es. politico, religioso, sessuale), né conflitti sorti principalmente tra l’individuo e la società, a meno che la devianza o il conflitto siano il sintomo di una disfunzione dell’individuo.”
Cautela dunque: ma chi deciderebbe se la devianza riscontrata sia un sintomo di una disfunzione dell’individuo? E ancora: “il “comportamento antisociale” del bambino e dell’adulto, come “Disturbo oppositivo provocatorio” e come “Disturbo della condotta” sono ricondotti alla trasgressione delle “norme o le regole della società appropriate per l’età adulta che vengono violate”. Ma chi decide quali siano le “norme appropriate per l’età adulta”?
Le cautele degli estensori della versione italiana del DSM-4 (tra essi una autorità come Andreoli) sono più che apprezzabili. Ma sono evidentemente anche il segno rivelatore di una criticità fondamentale.
Quanto di quest’ultima si trasferisce negli orientamenti che dovrebbero indirizzare il comportamento di tutti coloro che interagiscono con queste problematiche, dai medici agli insegnanti? Quante di tali cautele fondative si perdono per via in tale trasferimento “di massa” verso interpreti che non è detto muovano da competenze professionali specifiche ed approfondite? E che invece si abbandonino naturaliter a tale deriva?
Aggiungo solamente che non abbiano neppure il conforto di un intenso e problematico confronto politico e culturale di massa come fu in altri anni con l’impresa fondamentale di Basaglia rispetto ai manicomi. O, per stare alla scuola, con il varo della Legge 517 (sia detto per inciso una delle migliori anche sotto il profilo della tecnica legislativa). Non ne discutiamo se non in ambiti ristretti e specialistici.
L’estensione anche quantitativa di casi di DSA e BSE nella scuola sembra purtroppo avvalorare tale approccio critico: non sono uno “specialista” (come gli amici interlocutori citati) ma delle due l’una: o siamo di fronte ad una “mutazione generazionale” (ma allora dovrebbero essere diversi gli strumenti per affrontarla) oppure la crescita dei “casi diagnosticati” corrisponde a tale deriva di “medicalizzazione” e, per la scuola, ad una rinuncia di esercizio di “clinica (nella accezione ricordata) pedagogica”. Dunque la rinuncia ad un tratto fondamentale della professionalità docente (a favore di quali altre componenti di professionalità è da capire. Forse “insegnare le competenze” come vorrebbe una recente pubblicazione che neppure cito. Si può insegnare tutto, ma le “competenze” davvero no.. Che ne dice l’amico Tiriticco che ha fatto della questione un suo “tormentone” anche in polemica aperta con il sottoscritto?).
Secondo
Dario Missaglia, nell’articolo citato, muove dalla considerazione di due interviste effettuate a Valentina Aprea e al sottosegretario Rossi Doria, nelle quali il giornalista interlocutore preoccupato del “nel nostro sistema si boccia troppo” chiede se sarebbero disposti e propensi a bocciare in “prima media”. Missaglia commenta da par suo, e non cambierei una virgola. Ma mi incuriosisce il “sintomo” sottostante ad una domanda che chiede “…in prima media?…”. E perciò stesso finisce per instradare le risposte degli interlocutori sul piano inclinato del “buonismo” contrapposto al rigore ed al “merito”. Perché “in prima media”?
I dati quantitativi della selezione, dell’abbandono, del ritardo scolastico (e dei costi sociali ed economici relativi) si concentrano nella secondaria superiore e nel biennio oggi coperto (formalmente) dall’obbligo di istruzione.
Se l’acume dell’intervistatore (ehm…) e uno scatto di reni politico-culturale degli intervistati avesse traslato l’interrogativo sulla appropriata focalizzazione della domanda (non la terza media, ma l’obbligo) forse ne avremmo ricavato risposte più significative e discriminanti.
Ma avremmo dovuto affrontare due questioni generali e di grande portata: la prima riguarda proprio l’obbligo. Un dispositivo con riflesso costituzionale ma che oggi costituisce un oggetto disperso (un fantasma..) nell’ordinamento. Ha un bel ricordare Tiriticco quale rilievo sociale, politico e culturale ebbe in passato l’unificazione della Scuola Media (1962). Confrontate con le modalità legislative con le quali si è proclamato l’obbligo a 16 anni (una legge finanziaria) e con il dibattito culturale (!?) che lo ha accompagnato e avrete l’immagine di una “miseria” della politica e della “cultura” dell’istruzione oggi. Con una platea di protagonisti corresponsabili purtroppo assai larga: dai responsabili politici, al “popolo della scuola” nelle sue aggregazioni organizzate (dal Sindacato all’associazionismo).
La seconda questione sarebbe stata (se la domanda fosse stata appropriata) quella della “cultura valutativa” disponibile ed espressa entro l’operatività concreta delle scuole. E la connessione tra “valutazione scolastica” e “selezione sociale”. L’indeterminazione concettuale e “filosofica” dell’alternativa tra buonismo e rigore avrebbe dovuto “determinarsi” rispetto al significato storico e sociale dell’istruzione di massa. Ma forse sarebbe stato chiedere troppo, sia all’intervistatore che agli intervistati.
Non, spero, a “chi legge”.
Terzo
Un pensiero fastidioso mi propone un link discutibile tra le problematiche indicate nei punti precedenti e lo “stato dell’arte” del confronto culturale e scientifico specifico entro il mondo della scuola.
E se le sue “linee di sviluppo”, anche quando mosse, nelle dichiarazioni di principio, da elevate e condivisibili preoccupazioni, in realtà fornissero una base “implicita” di avvaloramento delle derive più sopra indicate? Fossero cioè, nella loro “indeterminazione” ideologica, al di là delle intenzioni, una copertura a processi reali di fatto “opposti” nelle loro conseguenze materiali?
Pensiero fastidioso, ma di cui cerco di dare ragioni.
Trascrivo integralmente dalle Indicazioni nazionali le affermazioni che descrivono l’identità dello studente alla conclusione del primo ciclo di istruzione (vorrei che, rileggendole, tenessimo mente che si tratta di un “ragazzo” di 13/14 anni).
“Lo studente al termine del primo ciclo, attraverso gli apprendimenti sviluppati a scuola, lo studio personale, le esperienze educative vissute in famiglia e nella comunità, è in grado di iniziare ad affrontare in autonomia e con responsabilità le situazioni di vita tipiche della propria età, riflettendo ed esprimendo la propria personalità.
Dimostra una padronanza della lingua italiana tale da consentirgli di comprendere enunciati e testi di una certa complessità, di esprimere le proprie idee, di adottare un registro linguistico appropriato alle diverse situazioni.
Nell'incontro con persone di diverse nazionalità è in grado di esprimersi a livello elementare in due lingue europee. Allo stesso modo riesce ad utilizzare una lingua europea nell'uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione: posta elettronica, navigazione web, social network, blog, ecc..
Le sue conoscenze matematiche e scientifico-tecnologiche gli consentono di analizzare dati e fatti della realtà e di verificare l'attendibilità delle analisi quantitative e statistiche proposte da altri. Il possesso di un pensiero razionale sviluppato gli consente di affrontare problemi e situazioni sulla base di elementi certi e di avere consapevolezza dei limiti delle affermazioni che riguardano questioni complesse che non si prestano a spiegazioni univoche.
Utilizza in modo sicuro le tecnologie della comunicazione con le quali riesce a ricercare e analizzare dati ed informazioni e ad interagire con soggetti diversi.
Possiede un patrimonio di conoscenze e nozioni di base ed è allo stesso tempo capace di ricercare e di procurarsi velocemente nuove informazioni e impegnarsi in nuovi apprendimenti anche in modo autonomo. Ha assimilato il senso e la necessità del rispetto delle regole nella convivenza civile. Ha attenzione per il bene comune e per le funzioni pubbliche alle quali partecipa nelle diverse forme in cui questa può avvenire: volontariato, azioni di solidarietà, servizio civile, ecc.
Dimostra originalità e spirito di iniziativa. Si assume le proprie responsabilità e chiede aiuto quando si trova in difficoltà. In relazione alle proprie potenzialità e al proprio talento si impegna in campi espressivi ed artistici che gli sono congeniali.”
Se sto alla analisi letteraria del testo non avrei ragioni per modificarne una virgola.
Se “deletteralizzo” (un buon esercizio anche se mutuato dalla psicanalisi) son preso da sgomento.
Personalmente mi dichiaro portatore di BES (se non peggio…).
Alla mia età non mi sento di corrispondere a questo “idealtipo” di ragazzino di 13/14 anni e mi interrogo su quanto ho perso (e, maliziosamente, guadagnato) nella vita a non corrispondervi.
Sia chiaro: non ho nessuna istanza polemica con gli estensori delle Indicazioni. Anzi.
Mi chiedo solamente il “senso” che tali affermazioni assumono nella realtà quando trasferite nella operatività concreta della scuola.
Tracciare un “idealtipo” di studente con tali caratteristiche come si riflette nella cultura e nella prassi valutativa? E, prima ancora dell’esito valutativo, quale “clinica” attiva da parte dei docenti come capacità di “chinarsi su..” le persone reali con cui hanno a che fare? E ancora: davvero tale descrizione idealtipica si confronta con la realtà storica delle caratteristiche dei preadolescenti/adolescenti in questa età storica?
Compatitemi: son venuto grande leggendo “Pinocchio”, le “Avventure di Tom Sayer e Hukleberry Finn”, i “Ragazzi della via Paal”, “Giamburrasca”; ho sempre pensato, da docente, che a fronte di un adolescente perfettamente razionale (come quello descritto nella Indicazioni) avrei considerato l’opportunità di interrogare uno specialista…
Potrebbe essere semplicemente una schermaglia dialettica con le affermazioni delle Indicazioni, ma temo il link operativo (al di là delle intenzioni di tutti dunque) tra queste affermazioni e le derive presentate nei punti precedenti.
Il dubbio è che, senza averne le intenzioni, in realtà si colleghino funzionalmente.
E non, per essere chiari, nell’avvalorare una deriva “selettiva” nella quale la selezione scolastica (in nome del merito o della corrispondenza tra la realtà e le attese “idealtipiche”) e “selezione sociale” si ricongiungano a sanzionare la fine di una stagione di impegno e di scelte di valori ( come ricordava Tiriticco da Don Milani alla legge 517); quanto in una opportunistica “comprensione” entro il contenitore universale di “diritti di istruzione” che, formalmente e astrattamente dichiarati (nessuno, esplicitamente li revoca) lascino operativi i “meccanismi reali” con il conforto di qualche “affermazione teorica” degna di migliori intenzioni. (Bastano i riferimenti a Morin, a Gardner, Bruner ecc… per dare per scontate le condizioni materiali di esercizio del diritto all’istruzione?)
I docenti della scuola che ho frequentato (“Le vestali della classe media” come classificava Barbagli in una famosa ricerca) avevano una sorta di “innocenza superficiale” nella loro opera di selezione valutativa. Ti valutavano misurando la corrispondenza tra quanto ti insegnavano attraverso i programmi e quanto “rispondevi”. Facevano “selezione sociale” mascherata sulla base delle “conoscenze riprodotte”. Ci volle la vis culturale ed etica di don Lorenzo per smascherare tale “innocenza”. Ma se oggi si deve valutare misurando la corrispondenza tra quel “profilo idealtipico” definito nelle Indicazioni (non solo conoscenze, anzi…) e il singolo soggetto son dolori…. Né c’è chi si senta di disvelare di “che lacrime grondi e di che sangue”, almeno potenzialmente, tale scommessa valutativa, a prenderla sul serio. Naturalmente c’è sempre la salvezza della cosmesi, ma non è una buona ricetta intellettuale e professionale. (Appunto c’è chi si affanna a dire come “si insegnano le competenze”…)
Ma la riflessione di cui sopra investe una problematica politica assai più vasta e generale, che in questa sede ho solo modo di citare (provocatoriamente).
Battersi per “i diritti” è cosa diversa da “battersi per una società migliore”.
Il secondo impegno è tributario del primo perché la “società” migliore” è tale se integra e soprattutto “realizza” le dichiarazioni relative ai primi. Ma non può fermarsi alle “dichiarazioni”: deve costruire le condizioni “materiali” per realizzare storicamente ciò che è realizzabile, cioè organizzabile, fruibile materialmente, costruendo un quadro coerente di “investimenti e convenienze” sociali sul quale si valuta una politica pubblica.
Questa stagione storica, politica, culturale, sembra disarticolare i due termini: la battaglia per i diritti appare autonomizzarsi da quella per una “società migliore”. Al meglio si segmenta, parzializza, suddivide. Cittadini, consumatori, lavoratori appaiono essere “appartenenze” separate e separatamente esprimentesi. Una sorta di schizofrenia con riflessi anche psicologici sul comportamento di massa.
Così si può “dichiarare” il “profilo” di un ragazzino di 13/14 anni come impegno della scuola, “a prescindere” non solo dalla realtà effettuale di cosa siano “mediamente” (una media sociale, non statistica) i ragazzini di quella età, ma sopratutto di quale sia lo “stato dell’arte” del sistema (organizzazione, risorse, lavoro, cultura professionale e cultura tout court) che dovrebbe tradurre in essere il “diritto” così descritto.
Forse un esempio non scolastico consente di sviluppare meglio la riflessione che lascio, ovviamente, al lettore, per il suo sviluppo completo.
Il Parlamento italiano ha abilitato la sperimentazione nel servizio sanitario nazionale (dunque a spese della collettività) di una procedura clinica denominata “Stamina” (uso di cellule staminali nel trattamento di alcune sindromi senza speranza di guarigione). E’ di oggi (12 Settembre 2013) il pronunciamento di una commissione di scienziati e di esperti che valuta il protocollo come privo di ogni fondamento scientifico e di ogni possibile conforto certificato circa la sua utilità.
A monte vi è la richiesta, da parte dei sostenitori di tale protocollo, per un “brevetto internazionale”, respinto internazionalmente proprio per l’assenza di ogni ragionevole supporto di ricerca, analisi, valutazione dei risultati. Inoltre i protagonisti “scientifici” di tale iniziativa hanno posto il vincolo del “segreto” circa i contenuti del protocollo stesso. (Si tratta dunque di “affari”. Solo che si vogliono concludere non a spese di chi vi aderisce liberamente, ma del servizio sanitario nazionale)
L’approvazione del Parlamento (sia pure con le cautele della sperimentazione clinica della quale la Commissione dichiara la improponibilità per assenza di requisiti scientifici) è stata effettuata sulla base della rivendicazione del “diritto” di ogni cittadino a scegliere le cure a cui sottoporsi ( e al “ricatto emotivo” delle famiglie disperate rispetto alla prognosi senza rimedio del male sofferto dai propri cari).
Nulla da eccepire sul “diritto” individuale a scegliersi le cure. Lo sosterrei in ogni discussione. Altra cosa è il modo in cui la società (una società “migliore”) dà corpo, organizzazione, risorse, modalità di fruizione, a tale “diritto”.
Nulla osta al ricorrere, individualmente, allo sciamano di turno (e te lo paghi..). Altra cosa è dare a quest’ultimo un segmento della organizzazione pubblica del Servizio Sanitario Nazionale (risorse economiche, organizzative, professionali, culturali coinvolte), sotto il ricatto emotivo del dolore dei singoli.
Se i “diritti individuali” sono lasciati in un campo definitorio indeterminato (di “astrazione indeterminata”) ciò che si libera non è l’esercizio effettivo dei “diritti sociali” (una società migliore) ma, al contrario di ciò che si vorrebbe, il gioco “del mercato” della “migliore offerta”, in assenza di consapevolezza scientifica della consistenza “della domanda”.
Se “l’acqua bene comune” è giustamente rivendicata come “diritto” a prescindere dalle domande relative al come, con quale organizzazione, a quali costi, arriva al rubinetto di casa di ciascuno, l’effetto può essere quello (che si verifica puntualmente) dell’essere il nostro il Paese che, nel confronto internazionale, si qualifica come il maggior consumatore di “acqua minerale” (schizofrenia tra il cittadino e il consumatore).
Mutatis mutandi ciò vale anche per il “diritto allo studio”. Possiamo rielaborare le “migliori ricette” (o quelle che paiono agli estensori di norme e circolari..) circa i suoi contenuti, ma se esse non corrispondono a “politiche strutturali” di effettiva fruizione del diritto da parte degli effettivi protagonisti, si finisce, anche senza intenzioni, per definire un campo indeterminato nel quale “tutte le richieste” sono legittime (comprese quelle di non avere nella classe del proprio figlio interlocutori “estranei” che minaccino o rallentino il compimento del “nobile profilo” tracciato nelle Indicazioni
Solo una aggiunta a corollario dell’esempio scelto. La disinvolta approvazione del Parlamento Italiano nell’abilitare una sperimentazione clinica senza fondamento non è avvenuta senza “trucchi”. La sapienza giuridica del primato della “forma” si è cimentata anche in questa occasione (primato della cultura umanistica?).
Per approvare il tutto (e la “sostanza” del tutto) qualche nobile esponente della cultura giuridica ha preliminarmente riclassificato il protocollo “Stamina” da “somministrazione farmacologia” (che lo avrebbe vincolato ai protocolli standard della sperimentazione clinica dei farmaci, con i suoi stadi preparatori prima del passaggio alla fase tre sull’uomo) a “trapianto di organi”, esentandolo da tale osservanza. (Qui i link con la scuola a proposito di BES e DSA si fa preoccupante…). Per la precisione ciò è avvento al Senato e, per fortuna, corretto alla Camera. Ma il “sintomo politico” è preoccupante più di tanti dibattiti politici cui siamo costretti (sulla competenza scientifica del legislatore è bello tacere).
La “rivolta” (si fa per dire..) degli esponenti della scienza medica e farmacologia sembra, per fortuna, avere creato le condizioni per raddrizzare una “stortura politica”.
A quando una presa di posizione scientifica che coinvolga la cultura e la scienza della scuola?